No, non c’è un’analisi della presunta sincronizzazione dell’album col film di Victor Fleming Il Mago di Oz. Sì, c’è la storia dettagliata di come furono raccolti gli interventi parlati. No, non ci sono rivelazioni spiazzanti o analisi inedite. Sì, ci sono interviste coi protagonisti, dai membri del gruppo a collaboratori come Clare Torry e Alan Parsons. Il giornalista inglese di Mojo e Independent John Harris mira a raccontare «genesi, storia, eredità del capolavoro dei Pink Floyd», come recita il sottotitolo del libro. Riesce a offrire un quadro completo e informato di come The Dark Side Of The Moon prese forma, ma temo fallisca nell’attirare l’attenzione di chi ha già una buona conoscenza dell’argomento. Una tesi degna di nota e accennata da Harris attribuisce all’album del ’73 l’inizio del processo di disgregazione del gruppo che generalmente viene attribuito alla lavorazione di Animals o al più tardi di The Wall, e questo soprattutto per due motivi: il successo fuori dall’ordinario che sconquassa le dinamiche interne e il livello artistico difficilmente uguagliabile. Per dirla con David Gilmour, dopo un’affermazione come quella di Dark Side, «finisci in un’impasse davvero assurda, perché alla fine smarrisci ogni certezza. È una cosa fantastica, ma allo stesso tempo cominci a pensare: “E adesso che diavolo facciamo?”».
Harris racconta la storia partendo da lontano, troppo lontano: Syd Barrett, la Londra psichedelica e i dischi dei Floyd che contengono tentativi sempre più complessi di approdare a una forma concettuale. «Ascoltando A Saucerful Of Secrets, poi il brano Atom Heart Mother e infine Echoes ci si rende conto che tutti quanti convergono piuttosto chiaramente verso The Dark Side Of The Moon», afferma Gilmour. Vero, però bisogna arrivare a pagina 79 per entrare nel merito dell’album: l’idea illustrata da Waters agli altri nella cucina di casa Mason («Dissi che l’intero album avrebbe dovuto parlare delle pressioni e delle preoccupazioni che, in un certo senso, tendono ad allontanarci dalla piena realizzazione sul piano pratico del potenziale che ognuno di noi ha dentro di sé»); i testi diretti e per certi versi crudi ispirati allo stile di John Lennon / Plastic Ono Band; l’opera portata in concerto prima dell’incisione; le session a singhiozzo, fra uno show e l’altro (partite di calcio in tv, permettendo: Waters era un gran tifoso); la «atmosfera glaciale» in sala d’incisione (secondo la corista Lesley Duncan). La fama di opera per “fattoni” che circonda Dark Side, e in genere i Pink Floyd anche post Barrett, è frutto di fantasia. Waters si è fatto di acido due volte nella vita e Gilmour e Wright all’epoca si limitavano a qualche spinello. «La droga» afferma il chitarrista «non era una componente essenziale della nostra band». Nemmeno Il Mago di Oz. Perché non c’è bisogno di misteri o fantasie per fare grande un album. È forse questo il senso del tentativo di Harris di raccontare Dark Side: l’altra faccia della Luna è uguale a quella che conosciamo.