Vedere Yusuf Cat Stevens dal vivo significa vedere le sue tante facce, da quella più pop, a quella del folk singer capace di creare canzoni ancora oggi attualissime, fino a quelle della conversione all’Islam, dei lunghi anni di silenzio, delle accuse di estremismo e del ritorno.
L’artista sale sul palco sulle note di Peace Train Blues, sullo sfondo una scenografia particolare: una vecchia stazione intorno alla quale è disposta la sua band. “Stiamo aspettando il treno per la pace” dice, e la parola peace sarà uno dei fili conduttori del concerto.
Yusuf sembra procedere quasi in ordine cronologico, proponendo ad inizio spettacolo le sue prime hit (Here Comes My Baby, The First Cut Is The Deepest, I Love My Dog) alternate ad alcuni brani più recenti o classici come Sitting e Where Do The Children Play?. Il suono è cristallino, pare di assistere ad una performance in un teatro più che in un palazzetto e ad accompagnarlo nella band c’è il fedelissimo Alun Davies (suo chitarrista dal 1970). Stevens introduce con una piccola spiegazione praticamente ogni pezzo; ed è serio quando si tratta di ambientalismo o di schiavitù e scherzoso quando ricorda ad esempio per First Cut Is The Deepest che “tutti pensano l’abbia scritta Rod Stewart, invece è mia”. A un certo punto chiede persino al pubblico se Super Mario (Balotelli?) sia di Milano. Alcune canzoni sono state parzialmente riarrangiate, su tutte Bitterblue, eseguita in versione più lenta “per adattarla al mio nuovo timbro vocale”, spiega Yusuf. Il primo set si conclude con due cover più che perfette in tema di pacifismo, People Get Ready di Curtis Mayfield e All You Need Is Love dei Beatles unita alla sua Maybe There’s A World.
“Il Peace train è in ritardo, ritornate tra 25 minuti” annuncia una voce per segnalare una pausa tra le due parti del live.
Quando poi Stevens torna sul palco per il secondo set c’è spazio per diversi brani dal suo nuovo album, tra cui spiccano l’autobiografica Editing Floor Blues (che racconta anche delle accuse di estremismo ricevute negli anni) e la accoppiata Gold Digger/I Was Raised In Babylon, brani sulla schiavitù del popolo africano e sulla civilizzazione. Il pubblico applaude generosamente anche i pezzi nuovi ed accoglie con un boato i vari classici, dalle delicate Moonshadow e Oh Very Young, alle movimentate cover di Another Saturday Night (originariamente interpretata da Sam Cooke) e You Are My Sunshine (brano di Jimmie Davis).
La chiusura non può che essere affidata a Father and Son: “Dicono che sia forse la mia canzone più bella” spiega Yusuf. E a giudicare da come e quanto la canta il pubblico è sicuramente la più celebre.
Infine il tanto atteso ‘treno per la pace’ arriva con i bis: una splendida versione molto dinamica appunto di Peace Train e l’ultimo classico mancante (Wild World) chiudono una grande serata.
In conclusione Yusuf Cat Stevens si è riappropriato del suo magnifico repertorio passato, coniugandolo bene insieme ai brani più recenti.
Sperando di non dover attendere molto per rivederlo di nuovo.
L’artista sale sul palco sulle note di Peace Train Blues, sullo sfondo una scenografia particolare: una vecchia stazione intorno alla quale è disposta la sua band. “Stiamo aspettando il treno per la pace” dice, e la parola peace sarà uno dei fili conduttori del concerto.
Yusuf sembra procedere quasi in ordine cronologico, proponendo ad inizio spettacolo le sue prime hit (Here Comes My Baby, The First Cut Is The Deepest, I Love My Dog) alternate ad alcuni brani più recenti o classici come Sitting e Where Do The Children Play?. Il suono è cristallino, pare di assistere ad una performance in un teatro più che in un palazzetto e ad accompagnarlo nella band c’è il fedelissimo Alun Davies (suo chitarrista dal 1970). Stevens introduce con una piccola spiegazione praticamente ogni pezzo; ed è serio quando si tratta di ambientalismo o di schiavitù e scherzoso quando ricorda ad esempio per First Cut Is The Deepest che “tutti pensano l’abbia scritta Rod Stewart, invece è mia”. A un certo punto chiede persino al pubblico se Super Mario (Balotelli?) sia di Milano. Alcune canzoni sono state parzialmente riarrangiate, su tutte Bitterblue, eseguita in versione più lenta “per adattarla al mio nuovo timbro vocale”, spiega Yusuf. Il primo set si conclude con due cover più che perfette in tema di pacifismo, People Get Ready di Curtis Mayfield e All You Need Is Love dei Beatles unita alla sua Maybe There’s A World.
“Il Peace train è in ritardo, ritornate tra 25 minuti” annuncia una voce per segnalare una pausa tra le due parti del live.
Quando poi Stevens torna sul palco per il secondo set c’è spazio per diversi brani dal suo nuovo album, tra cui spiccano l’autobiografica Editing Floor Blues (che racconta anche delle accuse di estremismo ricevute negli anni) e la accoppiata Gold Digger/I Was Raised In Babylon, brani sulla schiavitù del popolo africano e sulla civilizzazione. Il pubblico applaude generosamente anche i pezzi nuovi ed accoglie con un boato i vari classici, dalle delicate Moonshadow e Oh Very Young, alle movimentate cover di Another Saturday Night (originariamente interpretata da Sam Cooke) e You Are My Sunshine (brano di Jimmie Davis).
La chiusura non può che essere affidata a Father and Son: “Dicono che sia forse la mia canzone più bella” spiega Yusuf. E a giudicare da come e quanto la canta il pubblico è sicuramente la più celebre.
Infine il tanto atteso ‘treno per la pace’ arriva con i bis: una splendida versione molto dinamica appunto di Peace Train e l’ultimo classico mancante (Wild World) chiudono una grande serata.
In conclusione Yusuf Cat Stevens si è riappropriato del suo magnifico repertorio passato, coniugandolo bene insieme ai brani più recenti.
Sperando di non dover attendere molto per rivederlo di nuovo.