17/12/2020

La filosofia di Jimi Hendrix

Alberto Rezzi e i molteplici mondi del chitarrista in un nuovo saggio Mimesis
Il mondo della chitarra stimola molto Alberto Rezzi. Non da chitarrista o da rockofilo impenitente, ma da studioso di mondi espressivi, di connessioni tra pensiero e azione musicali. La filosofia di Jimi Hendrix. Viaggio al termine del mondo (Mimesis) è la nuova fatica dello scrittore che si è occupato di Eric Clapton, Pat Martino e Derek And The Dominos in una nuova chiave esegetica. La stessa che anima questo saggio su Jimi, finalmente affrontato con una nuova chiave di lettura. Un pluriverso di linguaggi e suoni, a cinquant’anni dalla morte del rivoluzionario elettrico.
 
Raccontare Jimi Hendrix senza replicare l’ennesima biografia, ma anche senza impostare un vademecum per chitarristi. Lo hai fatto parlando della sua “filosofia”: qual è il punto di partenza? 
Il punto di partenza è stato proprio andare alla ricerca di una possibile “filosofia” nella musica, nei testi e negli scritti di Jimi. Inizialmente pensavo fosse un’operazione  complessa, poi ho trovato una chiave d’accesso unica e immediata al suo universo: Hendrix costruiva mondi, in continuazione, nella sua testa, nelle sue canzoni, nelle sue performance, nei suoi versi. Mi è venuto quindi automatico collegare questa intuizione ad alcune riflessioni tipicamente filosofiche, in particolare con Nelson Goodman, che all’arte e alla costruzione dei mondi, al plurale, ha dedicato pagine e pagine di considerazioni affascinanti. Curioso, poi, che abbia iniziato a elaborare queste teorie negli anni Sessanta, proprio mentre Jimi dopo gravosi anni di gavetta si affermava come musicista totale.
 
Quello di Jimi, per citare il sottotitolo del libro, è un “viaggio al termine del mondo”: con la sua morte scompaiono gli anni ’60?
Il sottotitolo, facendo il verso al noto capolavoro di Céline, vuole sottolineare come un unico mondo, al singolare, andasse molto stretto a Jimi. La sua arte è stata questo, in fondo: la ricerca imperterrita di esplorare nuovi mondi, non solo immaginifici, ma concretamente espressivi. In filosofia si direbbe che era un pluralista cosmico, attratto dall’apertura infinita dell’universo (alla stregua di Giordano Bruno) e dall’esistenza di altri mondi contemporanei a questo. Per tutto il 1969 e fino alla sua morte Hendrix si è interrogato sul futuro della musica, consapevole che con il finire dei Sessanta si sarebbe chiusa un’epoca e che sarebbe stato necessario sondare nuove frontiere. La sua scomparsa ci ha lasciati orfani di questa potenziale nuova direzione, quella che faticosamente lui stesso andava inseguendo e che non aveva ancora decifrato appieno. In questo senso sì, la sua morte segna la fine di un’epoca controversa e insieme formidabile.
 
Jimi ha incarnato questa molteplicità di mondi spaziando tra rock, jazz, blues, funk, con l’urgenza dei musicisti della sua generazione e la sapienza dei padri. Nell’elaborazione del suo pensiero musicale, quanto c’era di consapevole e quanto di estemporaneo, dovuto magari sia alle droghe che all’hic et nunc dei suoi tempi?
Una delle scoperte più affascinanti nello studiare Jimi è stata proprio questa: la consapevolezza, l’autocoscienza che aveva del suo spirito avanguardistico. Come succede solo a menti eccezionali come la sua, non di rado temeva infatti di essere troppo in anticipo rispetto al suo tempo e alle capacità del pubblico di comprendere ciò che intendeva proporre, a livello sia musicale che testuale. Questo non toglie, anzi amplifica e rafforza, il fatto che amasse l’arte dell’improvvisazione e ricercasse sempre più la spontaneità creativa: la libertà espressiva era la sua aspirazione più profonda, come confermano i tentativi dell’ultimo periodo di andare persino oltre la chitarra per immaginare una nuova musica, la musica del futuro.
Quanto alle droghe, tema complesso e già ampiamente trattato in relazione alla creatività, penso che Jimi fosse attratto in generale dalla sperimentazione di varie forme di “espansione dionisiaca”: la sua mente era per natura “psichedelica”, votata cioè a superare confini, inibizioni e canoni precostituiti.
 
Un individuo, una persona, che ha racchiuso e narrato mondi, ma anche un uomo di comunità. Cosa rappresentava per lui la Electric Church di cui parlava alla fine della sua carriera?
Hendrix sognava di creare attorno alla sua musica una comunità di spiriti affini, uniti dalla volontà di sottrarsi alle “uniformi soffocanti” del mondo e aprirsi a nuove esperienze spirituali. In questo senso parlava di Chiesa o credo, anche se l’accento va posto su “Electric”: l’arte e in particolare la musica erano chiamate, nella visione hendrixiana, a elettrificare il mondo, a risvegliarlo dal torpore del conformismo e dall’alienazione. In questo senso possono essere lette alcune sue performance passate alla storia.
A far da contraltare a questo sogno comunitario, però, va detto che il Jimi dell’ultimo periodo era un artista piuttosto solo, alle prese con pressioni gigantesche e non pochi dubbi sull’evoluzione da imprimere alla sua nuova opera. E che anche la prima comunità di base di un musicista, cioè la sua band, di fatto dopo lo scioglimento dell’Experience non ha più trovato una forma stabile, a conferma di come il mondo attorno a lui stesse diventando molto difficile da governare.
 
A proposito di comunità, Jimi è stato subito adottato da quella rock bianca, e con maggior fatica da quella nera, pur avendo lui frequentato il chitlin’ circuit. Quanto contava per lui il consenso afroamericano?
Credo che per poter comprendere appieno quanto successo a Hendrix bisognerebbe aver vissuto quell’America, quel periodo e quelle tensioni sociali e razziali in prima persona. Del resto, vediamo quanto sia ancora oggi un tema rovente, come testimonia il movimento Black Lives Matter. In ogni caso, il “peccato originale” credo nasca dal fatto che «Jimi Hendrix» è diventato tale, cioè riconosciuto come uno straordinario e innovativo musicista, soltanto sul finire del 1966, a Londra, e non in America, dove aveva passato anni in miseria vagabondando con incarichi temporanei in varie band. Ancora a fine 1969 in alcune esibizioni negli Stati Uniti, come ad Harlem, la sua gente pareva non comprendere la musica che proponeva. Eppure Jimi sapeva perfettamente che la sua proposta rappresentava un’evoluzione di antiche e profonde tradizioni afro-americane, non solo il blues del Delta, ma anche influenze magico-religiose, voodoo, leggende e mitologie che aveva studiato a fondo.
 
Ho l’impressione che le tematiche trattate da Jimi siano state un po’ troppo snobbate. Dalla fantascienza a un desiderio pacifista ma non indottrinato, il pensiero hendrixiano trova nei testi una sistemazione degna di studio.
Concordo perfettamente, e sorprende ancor di più la sua abilità di songwriter e scrittore se pensiamo che non deriva da percorsi “scolastici” ma dall’apprendimento diretto e in prima persona, letteralmente per strada. Il tutto con forte originalità, perché i temi o le suggestioni fantascientifiche non venivano lasciate a se stesse, ma integrate nella sua visione immaginifica di altri mondi o nella denuncia delle realtà opprimenti di questo mondo.
Anche il suo ripetuto atto d’accusa contro gli atti di violenza e la limitazione della libertà personale (un tema per lui sacro) non era di maniera, ma riflesso della sua visione per cui l’umanità è chiamata a evolversi spiritualmente.   
 
Se volessimo interrogare l’arte e la musica del presente, quanto è tenuta in considerazione l’eredità artistica – non solo chitarristica – di Hendrix?
È una domanda cui è difficile dare una risposta, perché l’eredità di Jimi è immensa. Per diverso tempo si è detto che la sua arte era troppo personale per essere assimilata e fatta davvero propria da qualcun altro. Credo piuttosto che la sua eredità si sia disseminata in moltissime direzioni non solo a livello chitarristico, ma anche autoriale, come fonte d’ispirazione diretta o indiretta per moltissimi artisti. I tentativi più riusciti di fusione e contaminazione di generi musicali, l’audacia nel proporre innovazioni tecniche e tecnologiche, la teatralità e lo spirito di rivolta sul palco, l’uso dello studio di registrazione come mondo creativo, l’autenticità delle improvvisazioni, la sensibilità verso i conflitti del proprio tempo… In tutti questi terreni, per citare solo i principali, ci sono le tracce che Hendrix ci ha lasciato, e sono ancora oggi nitidissime. In fondo, sono le stesse sfide che attendono ogni (vero) artista: audacia, originalità, autenticità. In qualunque campo operi.
 

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