(Foto di Giorgio Luzi)
“Nel periodo in cui abitavamo entrambi a New York e ci frequentavamo, ogni tanto andavo a casa di João Gilberto, mi portavo la tromba e suonavamo un po’; lui mi diceva sempre ‘Ma perché voi musicisti di jazz suonate tutte queste note? Cerca di fare solo le note necessarie, elimina tutto il resto’. In effetti aveva ragione, i jazzisti tendono a essere logorroici, più note fanno più sono contenti, quindi questa idea di togliere le cose inutili non era un cattivo suggerimento. Ovviamente suonare solo le note necessarie è impossibile, però è davvero un bell’obiettivo”.
Appuntamento speciale domani, venerdì 2 novembre, per il cartellone del Festival JAZZMI. La storica tromba del jazz Enrico Rava farà infatti tappa alla Triennale Teatro dell’Arte di Milano con il suo nuovo tour europeo, che lo vede per la prima volta dopo vent’anni fianco a fianco con un altro gigante del jazz internazionale, il sassofonista Joe Lovano. “Ho conosciuto Joe circa trentacinque anni fa a Messina, in un teatro stracolmo di suoi parenti, perché lui è di origine siciliana da parte del nonno”, racconta Rava. “Successivamente avevamo fatto un altro concerto molto bello, coinvolgendo tra gli altri anche Miroslav Vitous; una serata splendida, di cui parlavamo ogni volta che ci incontravamo. Vent’anni fa ci era poi tornata la voglia di suonare insieme, e avevamo fatto un’altra tournée”.
Il quintetto che si esibirà sul palco insieme a Rava e a Lovano è completato da altre tre buone conoscenze del trombettista: Dezron Douglas al basso, Gerald Cleaver alla batteria e Giovanni Guidi al piano. “Quando suoni con musicisti con cui si condivide la stessa visione della musica e si parla la stessa lingua è tutto facile. Prima di cominciare il tour abbiamo fatto circa un’ora di prove, forse anche meno.”
Partito dall’Italia il 26 ottobre con un concerto al Padova Jazz Festival, dopo la data milanese la tournée proseguirà nel nostro Paese sabato 3 al Teatro Zancanaro di Sacile (PN), domenica 4 all’Auditorium S. Giacomo di Forlì, lunedì 5 al The Nicolaus Hotel di Bari, venerdì 9 per il Festival Internazionale Jazz al Centro Congressi della Fiera di Cagliari e sabato 10 all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Conclusione fuori porta, con uno show all’Auditorium RSI di Lugano, domenica 11 novembre.
“Note necessarie” è il titolo di due opere autobiografiche che la riguardano, un libro che lei ha scritto con Alberto Riva e un documentario diretto da Monica Affatato, nei quali viene ripercorsa la sua storia personale ma anche quella del jazz. Qual è stato secondo lei il più grande cambiamento all’interno del genere nel corso della sua carriera?
Il più grande cambiamento è avvenuto alla fine degli anni Cinquanta a opera di Ornette Coleman e di Cecil Taylor: la scelta di suonare senza utilizzare giri armonici e tutto quello che ne consegue ha davvero aperto molto gli orizzonti. Io in quell’epoca facevo con Steve Lacy una “Improvvisazione radicale”, nella quale non utilizzavamo tempo o accordi, ed è una cosa che aveva svelato un mondo interessantissimo. Dopo alcuni anni ho sentito il bisogno di tornare a suonare in un’altra maniera, conservando però questa idea di libertà, la capacità di non considerare tempo e accordi come una sorta di gabbia dalla quale non si può assolutamente uscire. Sono esperienze che credo siano servite molto a tutti.
Mi può parlare un po’ dei brani che state portando in tour?
La scaletta è in continua evoluzione, aggiungiamo sempre pezzi nuovi. Ci sono alcuni brani miei e altri di Joe. Tutte le sere suoniamo East Broadway Run Down di Sonny Rollins e un medley di ballad che invece cambia più o meno sempre.
Oggi pomeriggio alle 17 alla Triennale dell’Arte si è tenuto un altro appuntamento di JAZZMI con lei che in Desert Island Discs: Enrico Rava ha raccontato insieme al giornalista Ted Panken dei dischi jazz che hanno maggiormente influenzato la sua carriera…
Mi ha segnato tantissimo e continua a farlo la musica di Louis Armstrong e Bix Beiderbecke. Avrei potuto scegliere tutta la loro discografia, ma ho optato per Potato Head Blues di Armstrong, che secondo me è un capolavoro assoluto della musica del Novecento e ha al suo interno tutto quello che sarebbe avvenuto nei cinquant’anni seguenti, e I’m Coming Virginia di Beiderbecke, perché per me è una pietra miliare. Il suo modo di suonare completamente originale, intimista, molto melodico e un po’ scuro, dove appunto ogni nota conta, ha influenzato una quantità veramente enorme di musicisti e trombettisti, da Bobby Hackett fino a Miles Davis. Ho scelto Cotton Tail dell’orchestra di Duke Ellington con Ben Webster, perché oltre a un solo strepitoso di Webster ci sono otto misure che da sole sarebbero bastate a fare di Ellington uno dei più grandi pianisti della storia del jazz. Non c’era spazio per Gillespie che per me è importantissimo, ma ho inserito Charlie Parker e Miles Davis, sia con Bill Evans sia al Lincoln Center. C’è il Chet Baker del ‘52, l’epoca con Gerry Mulligan, quando suonava bene come non ha mai più suonato e poi il primo disco di Ornette Coleman, che per me ha saputo fare da ponte tra il jazz precedente e quello successivo.
Nel corso della sua carriera ha sostenuto molti giovani musicisti… Che differenze ci sono, se ci sono, nei jazzisti della nuova generazione?
La nuovissima generazione è infinitamente più preparata di quanto lo eravamo noi, del resto sono anche più agevolati, ai miei tempi uno per imparare doveva copiare i dischi, guardare le foto dei musicisti americani per capire come mettevano la tromba o come tenevano in mano le bacchette. Adesso invece c’è tutto, letteratura, partiture, insegnanti. E infatti oggi da un punto di vista tecnico siamo a dei livelli altissimi, ci sono dei trombettisti che fanno cose che all’epoca i grandi non riuscivano a fare. Questo non significa che la musica sia cresciuta altrettanto; per me è difficilissimo emozionarmi come ancora mi succede con Bix, Miles, Chet Baker o Sonny Rollins ascoltando quello che suonano i giovani oggi. Provo sentimenti diversi, ammirazione, stupore. Il momento storico è cambiato e il jazz ha compiuto un ciclo, è giunto fino alla disgregazione totale del free jazz, e poi bisognava ricominciare da capo. Con Steve Lacy fermavamo le persone per strada, gli insegnavamo a produrre un suono e suonavamo insieme a loro, con l’idea che questa era la vera musica primordiale. Armstrong e Parker facevano qualcosa di nuovissimo e che stavano ancora scoprendo mentre suonavano, la gente ascoltava cose che non aveva mai sentito prima, c’era emozione e stupore. È cambiato il momento storico, oggi la situazione è completamente diversa e si sta facendo musica metabolizzata negli anni, manca la vera scoperta. Le cose nuove forse possono venire dalla musica elettronica, dai nuovi strumenti. La tromba è obsoleta, un tubo nel quale uno deve suonare come un pazzo per fare uscire un suono, mentre oggi con un mignolo puoi toccare un tastino e avere facilmente un risultato simile. Suonare uno strumento è una fatica fisica e non è una scelta pratica, però io amo molto la tromba anche con tutti i problemi che mi dà, perché è una soddisfazione sicuramente più grande che non riprodurre un suono premendo un tasto.
Enrico Rava Quintet feat. Joe Lovano, venerdì 2 novembre Triennale Teatro dell’Arte, ore 21; biglietti da 22 a 30 euro più diritti di prevendita (Viale Emilio Alemagna 6, Milano, info: www.jazzmi.it)
“Nel periodo in cui abitavamo entrambi a New York e ci frequentavamo, ogni tanto andavo a casa di João Gilberto, mi portavo la tromba e suonavamo un po’; lui mi diceva sempre ‘Ma perché voi musicisti di jazz suonate tutte queste note? Cerca di fare solo le note necessarie, elimina tutto il resto’. In effetti aveva ragione, i jazzisti tendono a essere logorroici, più note fanno più sono contenti, quindi questa idea di togliere le cose inutili non era un cattivo suggerimento. Ovviamente suonare solo le note necessarie è impossibile, però è davvero un bell’obiettivo”.
Appuntamento speciale domani, venerdì 2 novembre, per il cartellone del Festival JAZZMI. La storica tromba del jazz Enrico Rava farà infatti tappa alla Triennale Teatro dell’Arte di Milano con il suo nuovo tour europeo, che lo vede per la prima volta dopo vent’anni fianco a fianco con un altro gigante del jazz internazionale, il sassofonista Joe Lovano. “Ho conosciuto Joe circa trentacinque anni fa a Messina, in un teatro stracolmo di suoi parenti, perché lui è di origine siciliana da parte del nonno”, racconta Rava. “Successivamente avevamo fatto un altro concerto molto bello, coinvolgendo tra gli altri anche Miroslav Vitous; una serata splendida, di cui parlavamo ogni volta che ci incontravamo. Vent’anni fa ci era poi tornata la voglia di suonare insieme, e avevamo fatto un’altra tournée”.
Il quintetto che si esibirà sul palco insieme a Rava e a Lovano è completato da altre tre buone conoscenze del trombettista: Dezron Douglas al basso, Gerald Cleaver alla batteria e Giovanni Guidi al piano. “Quando suoni con musicisti con cui si condivide la stessa visione della musica e si parla la stessa lingua è tutto facile. Prima di cominciare il tour abbiamo fatto circa un’ora di prove, forse anche meno.”
Partito dall’Italia il 26 ottobre con un concerto al Padova Jazz Festival, dopo la data milanese la tournée proseguirà nel nostro Paese sabato 3 al Teatro Zancanaro di Sacile (PN), domenica 4 all’Auditorium S. Giacomo di Forlì, lunedì 5 al The Nicolaus Hotel di Bari, venerdì 9 per il Festival Internazionale Jazz al Centro Congressi della Fiera di Cagliari e sabato 10 all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Conclusione fuori porta, con uno show all’Auditorium RSI di Lugano, domenica 11 novembre.
“Note necessarie” è il titolo di due opere autobiografiche che la riguardano, un libro che lei ha scritto con Alberto Riva e un documentario diretto da Monica Affatato, nei quali viene ripercorsa la sua storia personale ma anche quella del jazz. Qual è stato secondo lei il più grande cambiamento all’interno del genere nel corso della sua carriera?
Il più grande cambiamento è avvenuto alla fine degli anni Cinquanta a opera di Ornette Coleman e di Cecil Taylor: la scelta di suonare senza utilizzare giri armonici e tutto quello che ne consegue ha davvero aperto molto gli orizzonti. Io in quell’epoca facevo con Steve Lacy una “Improvvisazione radicale”, nella quale non utilizzavamo tempo o accordi, ed è una cosa che aveva svelato un mondo interessantissimo. Dopo alcuni anni ho sentito il bisogno di tornare a suonare in un’altra maniera, conservando però questa idea di libertà, la capacità di non considerare tempo e accordi come una sorta di gabbia dalla quale non si può assolutamente uscire. Sono esperienze che credo siano servite molto a tutti.
Mi può parlare un po’ dei brani che state portando in tour?
La scaletta è in continua evoluzione, aggiungiamo sempre pezzi nuovi. Ci sono alcuni brani miei e altri di Joe. Tutte le sere suoniamo East Broadway Run Down di Sonny Rollins e un medley di ballad che invece cambia più o meno sempre.
Oggi pomeriggio alle 17 alla Triennale dell’Arte si è tenuto un altro appuntamento di JAZZMI con lei che in Desert Island Discs: Enrico Rava ha raccontato insieme al giornalista Ted Panken dei dischi jazz che hanno maggiormente influenzato la sua carriera…
Mi ha segnato tantissimo e continua a farlo la musica di Louis Armstrong e Bix Beiderbecke. Avrei potuto scegliere tutta la loro discografia, ma ho optato per Potato Head Blues di Armstrong, che secondo me è un capolavoro assoluto della musica del Novecento e ha al suo interno tutto quello che sarebbe avvenuto nei cinquant’anni seguenti, e I’m Coming Virginia di Beiderbecke, perché per me è una pietra miliare. Il suo modo di suonare completamente originale, intimista, molto melodico e un po’ scuro, dove appunto ogni nota conta, ha influenzato una quantità veramente enorme di musicisti e trombettisti, da Bobby Hackett fino a Miles Davis. Ho scelto Cotton Tail dell’orchestra di Duke Ellington con Ben Webster, perché oltre a un solo strepitoso di Webster ci sono otto misure che da sole sarebbero bastate a fare di Ellington uno dei più grandi pianisti della storia del jazz. Non c’era spazio per Gillespie che per me è importantissimo, ma ho inserito Charlie Parker e Miles Davis, sia con Bill Evans sia al Lincoln Center. C’è il Chet Baker del ‘52, l’epoca con Gerry Mulligan, quando suonava bene come non ha mai più suonato e poi il primo disco di Ornette Coleman, che per me ha saputo fare da ponte tra il jazz precedente e quello successivo.
Nel corso della sua carriera ha sostenuto molti giovani musicisti… Che differenze ci sono, se ci sono, nei jazzisti della nuova generazione?
La nuovissima generazione è infinitamente più preparata di quanto lo eravamo noi, del resto sono anche più agevolati, ai miei tempi uno per imparare doveva copiare i dischi, guardare le foto dei musicisti americani per capire come mettevano la tromba o come tenevano in mano le bacchette. Adesso invece c’è tutto, letteratura, partiture, insegnanti. E infatti oggi da un punto di vista tecnico siamo a dei livelli altissimi, ci sono dei trombettisti che fanno cose che all’epoca i grandi non riuscivano a fare. Questo non significa che la musica sia cresciuta altrettanto; per me è difficilissimo emozionarmi come ancora mi succede con Bix, Miles, Chet Baker o Sonny Rollins ascoltando quello che suonano i giovani oggi. Provo sentimenti diversi, ammirazione, stupore. Il momento storico è cambiato e il jazz ha compiuto un ciclo, è giunto fino alla disgregazione totale del free jazz, e poi bisognava ricominciare da capo. Con Steve Lacy fermavamo le persone per strada, gli insegnavamo a produrre un suono e suonavamo insieme a loro, con l’idea che questa era la vera musica primordiale. Armstrong e Parker facevano qualcosa di nuovissimo e che stavano ancora scoprendo mentre suonavano, la gente ascoltava cose che non aveva mai sentito prima, c’era emozione e stupore. È cambiato il momento storico, oggi la situazione è completamente diversa e si sta facendo musica metabolizzata negli anni, manca la vera scoperta. Le cose nuove forse possono venire dalla musica elettronica, dai nuovi strumenti. La tromba è obsoleta, un tubo nel quale uno deve suonare come un pazzo per fare uscire un suono, mentre oggi con un mignolo puoi toccare un tastino e avere facilmente un risultato simile. Suonare uno strumento è una fatica fisica e non è una scelta pratica, però io amo molto la tromba anche con tutti i problemi che mi dà, perché è una soddisfazione sicuramente più grande che non riprodurre un suono premendo un tasto.
Enrico Rava Quintet feat. Joe Lovano, venerdì 2 novembre Triennale Teatro dell’Arte, ore 21; biglietti da 22 a 30 euro più diritti di prevendita (Viale Emilio Alemagna 6, Milano, info: www.jazzmi.it)