Nato a Maddaloni (CE), si trasferisce a Roma dove si diploma e si laurea col massimo dei voti in musica jazz al Conservatorio S. Cecilia.
Stiamo parlando di Vittorio Mezza. Il pianista ha suonato negli Stati Uniti con Dave Liebman, Mike Stephans, Tony Marino, Tony Moreno, Marc Mommaas; in Germania con David Milzow; in Sudafrica con Mark Ginsburg, Romy Brauteseth, Kevin Gibson, Judy Campbell, Justin Binek, Mike Campbell, Micu Narunsky, Maurice Gawronsky, Ian Smith, Sphelelo Mazibuko, Andreas Tschopp e Justin Bellairs.
E poi ha suonato in Canada, in trio con Alec Walkington e Dave Laing (McGill University of Music di Montréal) e in trio con George Koller e Davide Di Renzo (Toronto): con questi ultimi due ha realizzato Napoli Jazz Songs (Abeat Records), un disco in cui Napoli e l’America sono indissolubilmente legate da alcuni temi che rappresentano l’universalità dell’uomo, ma anche da arrangiamenti jazz che non cambiano il senso originale di alcuni grandi classici napoletani (come Tu vuò fa’ l’americano, Tammurriata Nera, Torna a Surriento, Era de Maggio e Reginella), ai quali si aggiungono un omaggio a Pino Daniele e un medley di colonne sonore morriconiane.
Ma ascoltiamo direttamente da Vittorio Mezza com’è nato Napoli Jazz Songs.
Come è avvenuta la scelta dei brani del tuo nuovo album?
Il disco nasce in maniera un po’ rocambolesca. Io avevo proposto alla mia manager che stava in Canada un disco sui brani cult della storia del rock che comunque già suonavo col mio trio italiano: pezzi dai Led Zeppelin agli U2 però rifatti in trio jazz in acustico. La risposta fu invece senza nessun dubbio: “Devi fare un disco ‘con Napoli’!”. Per quanto avessi già suonato questo materiale, o in piano solo o in altri contesti, ho poi fatto una scrematura dei brani e quindi sono arrivato a quelli che vedi nella tracklist. Sono stati pensati proprio in funzione del trio jazz e a come volevo trattarli dal punto di vista jazzistico.
È stato difficile rendere con il piano i testi di autori come Libero Bovio, Edoardo Nicolardi o Salvatore Di Giacomo?
Ho letto bene i testi, li ho studiati e ho pensato a come trasporre il testo nel gesto e nella nota che andavo a suonare. Sono vere e proprie poesie, sono strutture-composizioni-poesie di un incredibile livello artistico e quindi ho pensato molto ai testi e ho cercato anche un trait d’union con altre composizioni.
Tra le canzoni “più recenti” del disco c’è Tu vuò fa’ l’americano che usciva 60 anni fa. Secondo te Renato Carosone è stato un innovatore della tradizione o è egli stesso tradizione?
Il jazz viene dall’America e gli americani stavano abbondantemente a Napoli e quindi lui ha interpretato un po’ il sogno americano: quindi da una parte il jazz come simbolo dell’America, dall’altra forse la sua era anche una parodia del sogno americano.
Quindi lui ha messo in jazz col suo genio queste melodie che tra l’altro contengono anche un grande interesse armonico, oltre che tutte le dominazioni: armonicamente cioè ci sono ad esempio intervalli tipici arabi o della Spagna e lui li usa molto; questo è uno dei motivi che mi ha spinto poi a manipolarli, perché sono abbastanza “plasmabili”.
Quanto c’è di improvvisato e quanto c’è di scritto negli arrangiamenti del disco?
Io ho fatto questo ragionamento: devo trovare un equilibro tra la struttura-composizione-poesia come se rappresentasse qualcosa di sacro e con l’improvvisazione che costituisce il nuovo o la contemporaneità.
Sempre parlando di arrangiamenti, com’è nato il finale di Era de Maggio?
Beh, lì ho lasciato l’armonia più o meno così com’era. Ho cambiato qualcosa, ma più o meno è così. Alla fine ho preso gli accordi sempre dalla struttura, ma li ho traslati in qualche modo e suona un po’ canzone… un po’ pop con un breve assolo (ride, ndr). Ho notato strada facendo che proprio nel cd non mi sono dilungato molto negli assoli anche per rendere più fruibile l’ascolto.
E invece per quanto riguarda Quanno Chiove di Pino Daniele?
Quanno Chiove è un pezzo di Pino Daniele talmente bello che mi sono posto il problema di quanto lo avrei dovuto “toccare”. Ho cercato allora un maggiore interesse armonico rispetto alla canzone pop e alla fine ho creato un pedale su cui abbiamo improvvisato.
Due medley all’interno del disco, ma volevo chiederti in particolare di quello morriconiano. Come mai lo hai inserito in un cd in cui sono presenti brani napoletani più e meno recenti?
Era il trait d’union tra quello che già avevo suonato e quello che c’era in questi brani del medley.
Pensando ai pezzi napoletani, venivano fuori i caratteri universali dell’uomo: amore, gelosia, lo struggimento dell’emigrazione…
E quindi per il medley ho scelto Poverty dalla colonna sonora di C’era una volta in America, perché per me aveva un legame con Lacreme Napulitane che parlava di emigrazione. Io sentivo veramente questo pezzo che parla di italiani che sono andati poi a farla l’America e conosco bene New York, essendoci stato tante volte. Poi sentivo molto il legame col film.
Vedevo l’Italia lì e lì vedevo Napoli.
Gli altri pezzi sono Nuovo Cinema Paradiso e poi Tema d’Amore che è di Morricone figlio. Anche in Nuovo Cinema Paradiso c’è l’emigrazione e quindi insomma vedevo unite tutte queste cose e venivano fuori di nuovo gli stessi sentimenti di prima.
Il medley è trattato in maniera diversa. Inizio diversissimo. Ho detto a George Koller (il contrabbassista): “George fai un intro con l’arco!” (ride, ndr). Gli ho detto solo “con l’arco” e George ha tirato fuori questi suoni particolari. Poi non ho cambiato molto il resto. Solo i collegamenti tra i tre pezzi sono gli unici stravolgimenti.
George Koller e Davide Di Renzo che ti accompagnano nel disco sono canadesi. Loro come hanno percepito la musica napoletana?
Benissimo. Davide Di Renzo parla inglese e conosce qualche parola in italiano perché i genitori sono italiani, ma si sono trasferiti lì da ragazzi. Lui aveva una conoscenza della musica napoletana credo limitata e mi sa che George non la avesse proprio, ma sono stati davvero contenti di suonare questa musica perché gli ha dato gioia e gli è piaciuta dal punto di vista melodico. Infatti, quando dopo la registrazione siamo andati a sentire dall’altra parte dello studio, a sentire com’era venuto il tutto, loro sono stati orgogliosi del risultato finale, tant’è vero che l’anno prossimo vogliono fare anche il tour.
Il ruolo dell’interplay è importante. Loro sulla partitura hanno dei simboli e posso anche dirgli qualcosa, ma tutto dipende dal momento… l’intesa con George e Davide è stata davvero forte sin dall’inizio. Loro si sono trovati subito sulle strutture, sui pezzi e quindi il suono c’era già. Ha funzionato tutto subito e c’era già il trio e non è per niente scontato, anche se i musicisti sono bravi.
E forse anche questo elemento rende Napoli Jazz Songs un lavoro non strettamente jazz…
Sì… mi auguro che questo progetto possa guadagnare un po’ più di spazio rispetto al solito. Non è qualcosa di jazz troppo specifico e quindi può avere l’interesse di un audience più ampio. C’è sempre una matrice jazzistica rispetto ai dischi che ho fatto in passato… ma è praticamente pop (ride, ndr)!
Stiamo parlando di Vittorio Mezza. Il pianista ha suonato negli Stati Uniti con Dave Liebman, Mike Stephans, Tony Marino, Tony Moreno, Marc Mommaas; in Germania con David Milzow; in Sudafrica con Mark Ginsburg, Romy Brauteseth, Kevin Gibson, Judy Campbell, Justin Binek, Mike Campbell, Micu Narunsky, Maurice Gawronsky, Ian Smith, Sphelelo Mazibuko, Andreas Tschopp e Justin Bellairs.
E poi ha suonato in Canada, in trio con Alec Walkington e Dave Laing (McGill University of Music di Montréal) e in trio con George Koller e Davide Di Renzo (Toronto): con questi ultimi due ha realizzato Napoli Jazz Songs (Abeat Records), un disco in cui Napoli e l’America sono indissolubilmente legate da alcuni temi che rappresentano l’universalità dell’uomo, ma anche da arrangiamenti jazz che non cambiano il senso originale di alcuni grandi classici napoletani (come Tu vuò fa’ l’americano, Tammurriata Nera, Torna a Surriento, Era de Maggio e Reginella), ai quali si aggiungono un omaggio a Pino Daniele e un medley di colonne sonore morriconiane.
Ma ascoltiamo direttamente da Vittorio Mezza com’è nato Napoli Jazz Songs.
Come è avvenuta la scelta dei brani del tuo nuovo album?
Il disco nasce in maniera un po’ rocambolesca. Io avevo proposto alla mia manager che stava in Canada un disco sui brani cult della storia del rock che comunque già suonavo col mio trio italiano: pezzi dai Led Zeppelin agli U2 però rifatti in trio jazz in acustico. La risposta fu invece senza nessun dubbio: “Devi fare un disco ‘con Napoli’!”. Per quanto avessi già suonato questo materiale, o in piano solo o in altri contesti, ho poi fatto una scrematura dei brani e quindi sono arrivato a quelli che vedi nella tracklist. Sono stati pensati proprio in funzione del trio jazz e a come volevo trattarli dal punto di vista jazzistico.
È stato difficile rendere con il piano i testi di autori come Libero Bovio, Edoardo Nicolardi o Salvatore Di Giacomo?
Ho letto bene i testi, li ho studiati e ho pensato a come trasporre il testo nel gesto e nella nota che andavo a suonare. Sono vere e proprie poesie, sono strutture-composizioni-poesie di un incredibile livello artistico e quindi ho pensato molto ai testi e ho cercato anche un trait d’union con altre composizioni.
Tra le canzoni “più recenti” del disco c’è Tu vuò fa’ l’americano che usciva 60 anni fa. Secondo te Renato Carosone è stato un innovatore della tradizione o è egli stesso tradizione?
Il jazz viene dall’America e gli americani stavano abbondantemente a Napoli e quindi lui ha interpretato un po’ il sogno americano: quindi da una parte il jazz come simbolo dell’America, dall’altra forse la sua era anche una parodia del sogno americano.
Quindi lui ha messo in jazz col suo genio queste melodie che tra l’altro contengono anche un grande interesse armonico, oltre che tutte le dominazioni: armonicamente cioè ci sono ad esempio intervalli tipici arabi o della Spagna e lui li usa molto; questo è uno dei motivi che mi ha spinto poi a manipolarli, perché sono abbastanza “plasmabili”.
Quanto c’è di improvvisato e quanto c’è di scritto negli arrangiamenti del disco?
Io ho fatto questo ragionamento: devo trovare un equilibro tra la struttura-composizione-poesia come se rappresentasse qualcosa di sacro e con l’improvvisazione che costituisce il nuovo o la contemporaneità.
Sempre parlando di arrangiamenti, com’è nato il finale di Era de Maggio?
Beh, lì ho lasciato l’armonia più o meno così com’era. Ho cambiato qualcosa, ma più o meno è così. Alla fine ho preso gli accordi sempre dalla struttura, ma li ho traslati in qualche modo e suona un po’ canzone… un po’ pop con un breve assolo (ride, ndr). Ho notato strada facendo che proprio nel cd non mi sono dilungato molto negli assoli anche per rendere più fruibile l’ascolto.
E invece per quanto riguarda Quanno Chiove di Pino Daniele?
Quanno Chiove è un pezzo di Pino Daniele talmente bello che mi sono posto il problema di quanto lo avrei dovuto “toccare”. Ho cercato allora un maggiore interesse armonico rispetto alla canzone pop e alla fine ho creato un pedale su cui abbiamo improvvisato.
Due medley all’interno del disco, ma volevo chiederti in particolare di quello morriconiano. Come mai lo hai inserito in un cd in cui sono presenti brani napoletani più e meno recenti?
Era il trait d’union tra quello che già avevo suonato e quello che c’era in questi brani del medley.
Pensando ai pezzi napoletani, venivano fuori i caratteri universali dell’uomo: amore, gelosia, lo struggimento dell’emigrazione…
E quindi per il medley ho scelto Poverty dalla colonna sonora di C’era una volta in America, perché per me aveva un legame con Lacreme Napulitane che parlava di emigrazione. Io sentivo veramente questo pezzo che parla di italiani che sono andati poi a farla l’America e conosco bene New York, essendoci stato tante volte. Poi sentivo molto il legame col film.
Vedevo l’Italia lì e lì vedevo Napoli.
Gli altri pezzi sono Nuovo Cinema Paradiso e poi Tema d’Amore che è di Morricone figlio. Anche in Nuovo Cinema Paradiso c’è l’emigrazione e quindi insomma vedevo unite tutte queste cose e venivano fuori di nuovo gli stessi sentimenti di prima.
Il medley è trattato in maniera diversa. Inizio diversissimo. Ho detto a George Koller (il contrabbassista): “George fai un intro con l’arco!” (ride, ndr). Gli ho detto solo “con l’arco” e George ha tirato fuori questi suoni particolari. Poi non ho cambiato molto il resto. Solo i collegamenti tra i tre pezzi sono gli unici stravolgimenti.
George Koller e Davide Di Renzo che ti accompagnano nel disco sono canadesi. Loro come hanno percepito la musica napoletana?
Benissimo. Davide Di Renzo parla inglese e conosce qualche parola in italiano perché i genitori sono italiani, ma si sono trasferiti lì da ragazzi. Lui aveva una conoscenza della musica napoletana credo limitata e mi sa che George non la avesse proprio, ma sono stati davvero contenti di suonare questa musica perché gli ha dato gioia e gli è piaciuta dal punto di vista melodico. Infatti, quando dopo la registrazione siamo andati a sentire dall’altra parte dello studio, a sentire com’era venuto il tutto, loro sono stati orgogliosi del risultato finale, tant’è vero che l’anno prossimo vogliono fare anche il tour.
Il ruolo dell’interplay è importante. Loro sulla partitura hanno dei simboli e posso anche dirgli qualcosa, ma tutto dipende dal momento… l’intesa con George e Davide è stata davvero forte sin dall’inizio. Loro si sono trovati subito sulle strutture, sui pezzi e quindi il suono c’era già. Ha funzionato tutto subito e c’era già il trio e non è per niente scontato, anche se i musicisti sono bravi.
E forse anche questo elemento rende Napoli Jazz Songs un lavoro non strettamente jazz…
Sì… mi auguro che questo progetto possa guadagnare un po’ più di spazio rispetto al solito. Non è qualcosa di jazz troppo specifico e quindi può avere l’interesse di un audience più ampio. C’è sempre una matrice jazzistica rispetto ai dischi che ho fatto in passato… ma è praticamente pop (ride, ndr)!