17/12/2015

Folco Orselli, l’outsider

Intervista al cantautore milanese per parlare dell’arte fuori dagli schemi celebrata nel suo nuovo disco
L’ultimo suo lavoro solista risale al 2011. Era Generi di conforto ed era stato registrato con gli archi. Poi nel 2013 è arrivata la Scuola Milanese con Carlo Fava e Claudio Sanfilippo. E poi soprattutto il suo mondo musicale è davvero ampio, più di quanto spesso si possa pensare. Ad ulteriore dimostrazione di ciò è uscito da poco il suo nuovo album solista, Outside is my side.
La nuova fatica discografica è ricca di tante suggestioni musicali differenti e, in attesa del suo live di presentazione del prossimo 19 dicembre alle 21.30 al Serraglio di Milano con dieci elementi sul palco (undici, compreso lui), lo abbiamo contattato telefonicamente per provare a capire ciò che davvero è outside e non solo. L’outsider in questione è Folco Orselli.
 
Outside is my side è il titolo del tuo nuovo album solista. Lo definiresti un concept?
No, anzi lo definirei il contrario di un concept. Di solito i miei dischi sono un concept a livello musicale e hanno una loro coerenza continua, mentre questo è un insieme di tante cose e contiene una serie di mie schizofrenie sempre a livello musicale e a livello testuale. Ci sono un po’ di blues, ma c’è anche il prog, la ballad… è un po’ un insieme delle cose fatte prima a livello musicale con un piede anche nel futuro, spero.
 
Bene. Come nasce il titolo di questo lavoro?
Outside is my side è una dichiarazione di intenti, una constatazione amichevole ma neanche tanto. Essere outside in questo periodo significa essere il contrario di inside e quindi il contrario del mainstream. Tutti dicono: «Che palle sempre la stessa cosa», ma gli artisti vengono selezionati con questi mercati delle vacche nei casting e questa cosa è inaccettabile. Questi artisti non scrivono nemmeno, non vivono quello che cantano e come possono pensare di trasmettere qualcosa a chi li ascolta?
Outside invece è un panorama meraviglioso: c’è tanta gente, tanti artisti preparati che conosco perché hanno fatto una gavetta e hanno fatto tante cose… non è che il giorno prima facevano tutt’altro e il giorno dopo sono su un palco a raccontarlo. C’è tutto un mondo che va scoperto non solo nell’arte, ma in tutte le professioni. Essere outsider vuol dire stare da un’altra parte, un po’ come in Quinto Potere (film del 1976 diretto da Sidney Lumet, ndr) quando diceva: «Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!»… è ora di dirlo.
 
Gino e Michele sono i coproduttori insieme a te di Outside is my side. Quando li hai incontrati per la prima volta?
C’è un’affinità elettiva milanese che ci accomuna. La scuola milanese cantautorale ha sempre flirtato con la comicità da anni… anzi da sempre. Ci conosciamo da anni e loro mi hanno chiesto di fare le musiche per un loro spettacolo che stiamo portando in giro in questo periodo. Io gli ho proposto se volevano coprodurre con me il mio nuovo lavoro, gli ho fatto sentire i provini e loro hanno accettato. Stimo molto Gino e Michele per il loro modo di essere intelligenti e sottili nella satira italiana.
 
E allora sempre a proposito di satira o di comicità, ti chiedo dell’unica cover del disco, Quello che canta onliù di Enzo Jannacci, brano rispetto al quale hai dichiarato: «Amo non averla ancora capita»…
(ride, ndr) È vero! Secondo me Jannacci è uno stregone, un taumaturgo… Ti diceva due-tre cose vaghe e tu dovevi capire. I suoi testi sono cangianti, dipende da con che occhio li guardi o cosa vivi dentro di te e quindi sono difficili da capire. È materiale che scotta, è materiale che non è mai uguale a se stesso e continua a mutare.
Quello che canta onliù lo ascoltavo da bambino. Me lo faceva ascoltare mio padre ed era contenuto in questo disco che è Ci vuole orecchio… e mi ricordo che quando ero piccolo non lo capivo, ma non l’ho capito neanche da grande. Tutto quel senso di malinconia dentro la canzone lo avrei riempito di esperienze da grande e quindi lui era già preparato a questa cosa. Visto il pezzo, volevo fare un omaggio a tutto quello che mi ha dato e non so se ci sono riuscito. Adesso, a 44 anni, mi viene in mente la solitudine di un commesso viaggiatore, un uomo attanagliato dai sensi di colpa… di cosa parla questo brano?
 
Ma lo hai mai incontrato di persona Jannacci?
Ci siamo incrociati un paio di volte, tra cui una al Teatro Dal Verme di Milano. Era una serata di beneficenza e io stavo facendo il soundcheck: stavo provando un pezzo del mio disco precedente, Generi di conforto, che si chiama La ballata del Paolone e che, se vogliamo, ricorda un po’ il mondo di El purtava i scarp del tennis. Lui era lì e non m’ha detto niente, ma, quando ho finito, l’ho visto rivolgersi a uno che forse era un suo collaboratore, dicendogli: «Ma chi è quello lì?». E il nostro “incontro” è finito lì (ride, ndr).
 
Non c’è solo Milano nei tuoi riferimenti musicali e a maggior ragione in questo disco omaggi anche il sound del primo Joe Cocker in Una vecchia storia (d’amor e di noi). Anche lui per te era un outsider?
Non so, forse era outsider perché suonava musica nerissima, pur essendo bianco. Poi ce ne sono stati tanti, ma lui aveva questo piglio qua. Lì è proprio un grande amore, è proprio un mio riferimento il Joe Cocker di Mad Dogs & Englishmen, quel mondo lì dei fiati e del blues portato in quel modo. Io e Enzo Messina, produttore artistico del disco insieme a me, siamo degli estimatori di quel mondo lì. Poi tanti mi dicono sempre: «Ah sì, Tom Waits», ma c’è anche un sacco di altra roba e stavolta ne ho citata un po’ di più. È giusto “avere tanti padri così li puoi ‘uccidere'” ed ecco che allora torna il discorso degli outsider. Questi dei talent show che padri di riferimento possono avere? Non c’hanno nemmeno dei “padri da uccidere”, non c’è credibilità. Bisogna avere dei “padri da uccidere” nel senso che devi avere qualcuno da citare, sennò non impari a scrivere.
 
Per te anche Gli artisti di strada, sempre per collegarci a un brano del tuo nuovo album, sono outsider, vero?
Sì. Questi tempi stanno rivelando cose meravigliose, oltre a cose terrificanti. La strada non è il posto in cui vieni rigettato perché hai fallito il tuo disegno primario, assolutamente no. La strada, per come la vedo io, è un posto in cui di questi tempi si deve ritornare, perché è molto più vera rispetto alle autostrade virtuali tipo Facebook. Sulla strada vera vedi in faccia le persone, è lì che ti confronti con le cose.
Anche prima a me piacevano gli artisti di strada e io ci voglio andare sulla strada. Un conto è chi chiede l’elemosina, quello è un altro discorso, ma chi si esibisce si confronta con l’asfalto. Perché la strada è madre… è madre e matrigna. E molti stanno rivalutando la strada anche perché non ci sono più i club o i locali e quindi gli artisti non riescono più a suonare in queste situazioni. Poi per strada c’è gente molto più preparata di quella che suona nei locali.
 
Tu invece intanto suonerai il 19 dicembre al Serraglio di Milano per presentare dal vivo Outside is my side e poi?
Beh, e poi sono sempre in tour. Tornando al discorso di prima, Facebook è comunque uno strumento utile e, se è a disposizione, va usato come penso vada utilizzato. Ho chiesto infatti proprio ai miei contatti di propormi, laddove potevano, date e location per i miei concerti e quindi sono riuscito ad aggiungere altre date al mio tour. Di questi tempi bisogna saltare sui treni come Woody Guthrie.
Poi vediamo come porterò in giro Outside is my side. Il 19 intanto siamo in dieci (con me undici) sul palco, poi girerò non so con quale formazione.
 
E altri progetti magari con la Scuola Milanese?
Ora sto facendo il tour con Gino e Michele oltre al mio. La Scuola Milanese l’abbiamo congelata per il momento e a ottobre/novembre 2017 ricominceremo credo con una trasmissione radio. Ma poi ho in testa altri dischi e bisogna lavorare e pedalare alla grande.
 
Prendendo spunto dalla tua descrizione/riflessione che si può leggere aprendo la confezione contenente il cd, gli outsider sono quelli che vogliono salvaguardare qualcosa?
Mah… per me più che salvaguardare dobbiamo mettere in atto la rivoluzione della qualità e della bellezza. Il vino prodotto dalla famiglia che mette a disposizione la sua vigna è più buono di quello del produttore che fa 10000 bottiglie. Costa un po’ di più, ma è più buono. E dobbiamo davvero imparare a voler più bene al nostro cervello, alla nostra anima, perché la cultura serve a quello…

 
 

 

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