04/02/2015

Far pensare il cuore e pulsare il cervello

I King Crimson secondo Nicola Leonzio. Arcana pubblica “Il pensiero del cuore”, un nuovo libro sulla band di Robert Fripp
Tempo fa mi è capitato di scrivere un libro sui King Crimson. Un’esperienza molto significativa grazie alla quale mi sono avvicinato con maggiore intensità al patrimonio musicale (e soprattutto testuale: si trattava di un contributo alla collana Arcana TXT. Testi commentati) del Re Cremisi. È per questo che mi sono accostato senza il consueto slancio al nuovo libro di Nicola Leonzio, anch’esso per i tipi di Arcana, King Crimson. Il pensiero del cuore.
Più che diffidenza (peraltro immotivata, visto che non conoscevo l’autore), la mia è stata una sorta di pudica cautela: quando scrivi un libro e ti immergi completamente nella materia trattata, dentro di te comincia a serpeggiare una sensazione di “esclusività autoriale” che in breve tempo diventa senso del possesso, una turbolenza che ha a che fare esclusivamente con le dinamiche dell’ego e che spesso non riesci a controllare. Eppure, come scrivevo nell’introduzione al mio libro, la figura di Fripp ha sempre rappresentato per me il valore della disciplina: proprio grazie ad alcuni insegnamenti del chitarrista inglese, ho sfidato questo “demone interiore” (un animaletto piuttosto stupido, a dirla tutta…) leggendo Nicola Leonzio con rinnovata curiosità, scoprendo così un testo leggero e denso al tempo stesso. Il pensiero del cuore ripercorre sinteticamente la storia crimsoniana dalle origini ad oggi: considerato che i tre testi italiani in materia (Staiti, Bertrando e il sottoscritto) hanno affrontato aspetti specifici del mondo KC (dai testi all’attività frippiana), Leonzio è il primo a cimentarsi nella narrazione dell’esperienza storica cremisi nella sua interezza.
Lungi dal considerarmi un esperto ed essendo ancora in cammino per ottenere la completa padronanza delle tematiche crimsoniane (gli esempi di Sid Smith, Andrew Keeling e Eric Tamm restano inavvicinabili), ho voluto scambiare qualche idea con Leonzio, che si è dimostrato autore preparato e conversatore appassionato, capace di rilanciare interessanti riflessioni. Il pensiero del cuore è il filo conduttore di questa chiacchierata crimsoniana.
 
Nicola, la prima cosa che mi ha colpito del libro è il titolo: Il pensiero del cuore. Solitamente i King Crimson sono associati a un rock cerebrale, figlio di una figura raziocinante come Robert Fripp…
Può sembrare, Donato, ma tu ed io sappiamo che non è così. Anzi, ti dirò che sovente Fripp e i KC danno il meglio di sé nei brani melodici, sempre tenendo presente ciò che il termine “melodico” può significare nel contesto della musica cremisi. Pensa a Starless, Book of Saturday, Islands, Epitaph, I Talk to the Wind, The Night Watch, etc. Ma, a parte questo, Fripp ha insistito spesso sulla triade testa-cuore-mani, cercando proprio di superare le dicotomie tipicamente occidentali di corpo-spirito, mente-cuore, virtuosismo-ispirazione, ragione-sentimento e simili. Si è sforzato di proporre, anche se non sempre ci è riuscito, una musica il più possibile “totale”, facendo pensare il cuore e battere la mente. Per questo la musica targata KC è profondamente diversa dalle altre, sia nei presupposti teorici che nei risultati pratici.
 
Una caratteristica interessante del testo è l’alternanza tra dati storici e vicende personali: come mai hai voluto raccontare anche alcuni tuoi episodi degli anni ’70?
Per chi ha avuto la fortuna, come me, di viverli pienamente, quegli anni sono stati un’esperienza irripetibile e straordinaria. Si aveva la sensazione che davvero tutto potesse cambiare ed esisteva una partecipazione agli eventi e un desiderio positivo di protagonismo nei giovani. Una meravigliosa utopia. Le mie esperienze personali sono avvenute parallelamente a tutto questo e mi è sembrato naturale raccontarle, perché so che sono comuni a moltissimi della mia generazione e perché spero che i giovani, oggi, possano lasciare un marchio anch’esso indimenticabile nella vita personale e nella Storia, com’è accaduto a noi, anche per tramite della musica.
 
Grazie alle tue memorie è possibile ricostruire l’impatto che i KC ebbero sui giovani. Credo che per un ragazzo italiano del 1969 vedere in un negozio di dischi l’uomo che urla e ascoltarlo a casa sia stata una botta clamorosa…
Li ho conosciuti nel 1970 e, in effetti, l’impatto fu fortissimo. Prima di allora suonavo e ascoltavo cose decisamente meno elaborate: Rolling Stones, le canzoni più semplici dei Beatles, Procol Harum, Moody Blues, Cream, Ten Years After, Jimi Hendrix e altro. I KC costrinsero me e il mio gruppo a tentare di replicare qualcosa di assolutamente diverso, decisamente insolito e affascinante.
 
KC e il progressive: Fripp e compagni ne hanno definito il linguaggio e l’estetica ma hanno anche avuto la capacità di allontanarsene al momento opportuno.
Certamente, e lo hanno fatto quasi subito. Già da Lizard e, soprattutto, Islands, con gli apporti jazz sempre più numerosi e frequenti, per quanto riguarda il percorso musicale; poi hanno capito quel che altri gruppi non sono riusciti a capire e cioè che il prog rischiava di cristallizzarsi in forme espressive che lo avrebbero ingabbiato, come di fatto avvenne, nelle aspettative del pubblico, da un lato, e negli obblighi contrattuali stabiliti dalle major, dall’altro. Il che implicava adattarsi alle esigenze di mercato. La storia dei KC dimostra senza ombra di dubbio che l’amore per il denaro e il successo non ha mai avuto spazio nella loro concezione della musica e nella qualità della loro produzione.
 
Per quanto riguarda la prima fase – l’epoca Sinfield per intenderci – secondo te quali sono i brani più significativi, quelli che rappresentano il genio del gruppo?
Sono molti: 21st Century Schizoid Man, I Talk to the Wind, Epitaph, The Court of the Crimson King, Pictures of a City, Cat Food, Cirkus, la suite di Lizard, Formentera Lady, Sailor’s Tale, The Letters, Ladies of the Road, Islands.
 
Più di una volta accosti i KC ai Beatles: che rapporto c’è secondo te tra Fripp e i Fab Four?
Fripp fu folgorato da A Day in the Life, che conclude Sgt. Pepper’s, il capolavoro, secondo me, dei Fab Four. Credo che, prima di tutto, egli sia rimasto colpito dal fatto che i Beatles, il gruppo più famoso del mondo, riuscivano a fabbricare gemme pop solo apparentemente semplici e con straordinaria creatività. Senza i Beatles, e la loro immensa ricerca sul piano armonico e sonoro, il prog non sarebbe mai nato. Inoltre Lennon-McCartney incarnavano il dionisiaco e l’apollineo in musica, la trasgressione e la compostezza che Fripp ha trasferito nella musica cremisi. Infine, i Beatles si riaffacciano costantemente nella produzione KC, sia per il gusto della citazione divertita, sia per l’evidente impronta che soprattutto Harrison ha lasciato in certe soluzioni di Fripp, come accade in Fallen Angel e in diversi altri episodi.
 
Daimon, lingue di allodola e notti senza stelle: tra il ’73 e il ’74 i KC cambiano pelle e scoprono più che mai la magia dell’improvvisazione. Rispetto ad altri grandi improvvisatori rock come Cream, Allman Brothers e i Grateful Dead, qual era la tipicità di questi KC?
Hai citato gruppi che improvvisavano essenzialmente su scale blues e sulle dodici battute. I KC hanno rivisitato, arricchito e rivoluzionato l’improvvisazione tradizionale servendosi di variazioni armoniche e metriche, poliritmie e apporti che provenivano sia da tradizioni orientali che dalla musica del primo Novecento, senza contare l’influsso del free jazz, specie quello di matrice inglese. Variando la tessitura armonica e il metro, l’improvvisazione cambiava di conseguenza.
 
Fripp e Gurdjieff. Durante il lungo ritiro spirituale, Robert scopre la Quarta Via: che influenza hanno questi insegnamenti nella ricerca frippiana e come si riflettono nelle dinamiche crimsoniane?
Alla scuola di Bennett – allievo di Gurdjieff – a Sherborne, Fripp eredita un metodo pratico per la conoscenza e lo sviluppo di sé lavorando sui centri fisico, emozionale e intellettuale. E sappiamo che Gurdjieff dedicò una larga parte della sua vita alla sperimentazione delle dinamiche che la musica era in grado di sollecitare negli ascoltatori. Quando Fripp è uscito dalla scuola di Bennett, ha tentato esperimenti alla ricerca di quella musica oggettiva di cui parlava Gurdjieff, credo soprattutto con i Frippertronics, un ritrovato in grado di produrre suoni circolari e ripetitivi come quelli di cui parla Gurdjieff nella sua autobiografia. Ma mi pare, essenzialmente, che certi insegnamenti abbiano avuto un riflesso più sul metodo pratico della composizione e nel lavoro, sia in studio che dal vivo, piuttosto che sui risultati musicali. Non è un caso che il primo disco della terza fase cremisi si intitoli Discipline. A monte di questo bellissimo disco, secondo me, c’è proprio la disciplina che Fripp aveva imparato e sperimentato su di sé a Sherborne e che ha tentato di estendere agli altri KC.
 
Molti cultori progressive non amano le incarnazioni crimsoniane con Belew. A mio avviso Discipline e Thrak sono album eccellenti, inoltre mostrano una capacità di aggiornamento unica nel suo genere rispetto a colleghi come Yes e Genesis. Tu come consideri questa esperienza post anni ’70?
Un’esperienza assolutamente positiva e necessaria, un’apertura a contributi di origine diversa rispetto al background di provenienza, dato che Belew e Tony Levin con lui, sono americani e Fripp si era accorto, sul finire dei Settanta, che il mondo musicale statunitense era una specie di officina sperimentale in grande fibrillazione dalla quale era possibile trarre nuove ispirazioni e suggestioni. Senza contare che Belew aveva suonato con Zappa, musicista notoriamente esigente. Tra l’altro una personalità eclettica ed estroversa come quella di Belew non poteva che giovare a quella rigorosa e disciplinata di Fripp, rappresentando, in termini musicali e psichici, una sorta di altra faccia della medaglia. Facendo ricadere la scelta su Belew, Fripp ha mostrato grande sensibilità e coerenza, dato che per lui la musica è sempre stata ricerca e sperimentazione del nuovo.
 
In appendice hai intervistato due chitarristi di area jazz (Claudio Fiorentini e Andrea Gomellini) in merito ai loro rapporti con i KC e il Guitar Craft: quando un musicista non strettamente rock si avvicina ai KC nasce sempre una grande scoperta, secondo te per quale motivo?
Entrambi i musicisti in questione sono passati attraverso esperienze rock prima di approdare al jazz. Nel jazz ci sono scuole e stili, con tutti i pregi e i difetti che ne seguono. C’è senz’altro disciplina, studio, applicazione, fatica; ma c’è anche il rischio di assolutizzare l’esperienza, finendo col considerare il jazz l’unica possibilità espressiva ammissibile, trascurando snobisticamente il resto della produzione musicale (anche se ci sono state eccezioni: Davis, Weather Report, Metheny e altri). La scoperta di cui parli nasce proprio dal trovarsi di fronte a partiture insolite e difficoltà inaspettate e dall’accorgersi, se si è dotati di onestà intellettuale, che i confini della musica vanno ben oltre i limiti dettati dagli stili e dai generi. La sperimentazione produce sempre dilatazione e fuga dai canoni prestabiliti.
 
Stai seguendo l’ultima incarnazione KC? Cosa pensi di questa formazione con tre batteristi?
Ho ascoltato Live at The Orpheum. Due soli brani inediti, il resto è parte del loro repertorio storico. Dovrebbe uscire anche un album in studio, dicono a settembre. La ritmica è, ovviamente, straripante. La presenza di Rieflin, che già si conosceva con i R.E.M., è stata una piacevole sorpresa. Già Bruford e Mastelotto, con il doppio trio, andavano a gonfie vele, ora i ritmi a tre brillano senz’altro, ma non saprei dire se più o meno rispetto all’esperimento precedente. Tieni conto, però, che ho sempre avuto un debole per il drumming di Bruford e questi tre batteristi, pur eccellenti, mi sembrano, individualmente, un gradino sotto. Quando ascolto l’attuale versione, da parte del settetto, di One More Red Nightmare, non posso evitare il paragone con quella che il grande Bill eseguiva con una sola batteria nel lontano ’74. In ogni caso, il settetto è di grandissima qualità e si attaglia perfettamente alle esigenze della dimensione dal vivo. Però aspetto di sentire un disco intero di brani nuovi, vorrei formulare un giudizio avendo più dati a disposizione.
 
Nell’era classica del rock, dal 1965 al 1972, ogni band aveva una propria personalità e ha lasciato un patrimonio importante. Quali sono, guardando alla loro intera carriera, le peculiarità che distinguono i KC dalle altre formazioni?
Aver sempre considerato la musica in termini più ampi di quelli tradizionali. Avere avuto il coraggio di non adagiarsi sugli allori. Aver compreso che la musica non risiede semplicemente nell’esplorazione delle possibilità del pentagramma. Essersi resi conto che le note possono operare nel mondo e nel Sé. Trasformare le crisi in opportunità di scoperta del nuovo e di progettazione del futuro attraverso una costante ricerca. Far pensare il cuore e pulsare il cervello.
 
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