Specchi opposti: Battisti e Panella secondo Ivano Rebustini
L’enigmatica vicenda post-Mogol nel nuovo libro del giornalista bresciano
«Che mistero è la vita, che mistero sei tu», cantava Lucio Battisti in Mistero. Erano i tempi criptici e solitari di E già: Mogol non c’era più, Pasquale Panella non c’era ancora. Un interregno diviso con Velezia, ad accrescere ancora di più l’enigma. Perché il segreto è tutto lì: nel come, nel perché, nel dove. «Io sono oltre», rivelò Lucio a un incredulo Gabriele Lorenzi, quando nel profondo degli anni ’80 andò a Molteno a trovarlo. Ivano Rebustini ha provato a sondare questo oltre nel suo libro Specchi opposti – versione nuova, riveduta e corretta del precedente lavoro con Arcana.
Il mistero del Battisti post-Mogol. Gli album con Panella hanno suscitato diffidenza, incredulità, a volte rabbia. A quasi trent’anni dal suo ultimo disco Hegel, pensi che sia cambiata l’accoglienza verso i dischi bianchi?
Credo che l’accoglienza nei confronti dei “dischi bianchi” di Lucio sia cambiata di pari passo con i cambiamenti intercorsi nella produzione musicale degli ultimi trent’anni. Ma ritengo altresì che lo zoccolo duro dei fan (parlo soprattutto – per usare un termine di gran moda – dei cosiddetti boomer) non gli abbia ancora perdonato quello che è stato vissuto come una sorta di voltafaccia.
L’elemento che colpisce di più con Panella è la radicalità, in particolare nel confronto con il canzoniere di Mogol. Difficile spiegarsi le motivazioni di Lucio, se non attraverso l’ascolto e lo studio dell’opera: che idea ti sei fatto?
Beh, pur se la produzione battistiana con i testi di Giulio Rapetti è sempre stata caratterizzata da una spiccata cantabilità, Lucio non ha mai disdegnato la sperimentazione, basti pensare a un album come Amore e non amore, con i quattro brani strumentali. L’idea che mi sono fatto? Forse la voglia di sperimentare era diventata più forte, quasi pressante, e – al netto dei dissapori con Mogol – Battisti si sarà magari reso conto della necessità di guardare altrove. E più avanti che indietro.
Come sempre le rivoluzioni partono da lontano. Prima di Don Giovanni non ci sono solo E già e gli album con Pappalardo, ma qualcosa che si muoveva già negli anni ’70. Da dove pensi che sia cominciata la marcia solitaria di Battisti?
Il già citato Amore e non amore è un buon punto di partenza, ma in ogni album si può trovare qualche seme che avrebbe fatto crescere l’imponente albero con i cinque rami bianchi.
Come anticipato, l’avvicinamento a Panella parte dai lavori di Adriano Pappalardo: quanto Battisti c’era in Immersione e Oh! Era ora?
Direi non poco, e fingendo che Immersione sia l’E già di Pappalardo, Oh! Era ora? potrebbe essere visto come il Don Giovanni di Adriano. Oltretutto, mentre nel precedente album Battisti era accreditato esclusivamente per il “Progetto”, nel caso di Oh! Era ora? Lucio figura come responsabile non soltanto della “realizzazione”, ma anche degli arrangiamenti (oltre ad aver suonato chitarre, sintetizzatori e pure il basso nella title track). Per non dire, e invece lo diciamo, dei testi di Vanera, il quale altri non è che Pasquale Panella.
I cinque Lp con Panella sono un corpus omogeneo con piccole e progressive varianti, a differenza dei dischi con Mogol più mutevoli e cangianti. C’è tanto Battisti – o meglio: quanto basta… – a partire dalle copertine. È saggio considerarli una pentalogia?
Ti rispondo con una battuta rubata ad Alexandre Dumas padre: “Tutti per uno, uno per tutti”.
Panella ha dichiarato di non essere ermetico, anzi, di essere l’autore italiano più comprensibile. Ho sempre pensato che una volta trovata la chiave d’accesso, la sua scrittura è balsamica, luminosa. Ritieni ci sia un modo per accedere al suo mondo?
Lasciandosi semplicemente andare all’ascolto delle parole, più o meno come si farebbe con la sola musica. E guardandosi bene da intraprendere inutili, quando non dannosi, sforzi interpretativi. Del resto, per dirla con Panella, «forse non si capisce una frase come Sono Don Giovanni? Sono Don Giovanni, sto dando le mie generalità».
I testi di Mogol erano perfetti per il pop-rock battistiano dell’epoca. Le arcane geometrie anni ’80 e ’90 si sposano perfettamente con la poetica panelliana: ci sono temi chiave nella sua scrittura?
Panellianamente rispondendo, se ci sono una o più chiavi, temo di non ricordare dove le abbia messe. Ma forse sarebbe più utile, e decisivo, un set di grimaldelli.
Dal punto di vista prettamente musicale, i dischi bianchi scontano un clima asettico, spesso freddo. Chris Porter, tecnico del suono in Hegel, mi parlò di approccio “clinico”. Cosa ne pensi?
Approccio “clinico”, e pure un po’ “cinico”. Rubo al Vocabolario Treccani: “Chi, con atti e con parole, ostenta sprezzo e beffarda indifferenza verso gli ideali, o le convenzioni, della società in cui vive; chi non arrossisce di nulla, impudente, sfacciato”. Non ti fa venire in mente il Battisti dei “bianchi”?
È frequente leggere che questi album saranno studiati in futuro, e finalmente apprezzati. Tuttavia restano ancora il patrimonio segreto e amato di uno zoccolo duro di cultori, in particolare musicisti. Pensi che ci vorrà ancora del tempo per sdoganarli o forse il loro destino è proprio nel circolo iniziatico?
La seconda che hai detto, per la prima temo che il tempo potrebbe non bastare.