Il secondo capitolo dell’autobiografia di Bob Dylan, Chronicles Volume Two, potrebbe essere in lavorazione e uscire entro il 2030
È notizia di questi giorni che Sean Penn, dopo aver prestato la sua voce per l’audiobook del primo volume di Chronicles (Simon & Schuster), l’autobiografia di Bob Dylan – interpretazione che gli è valsa una nomination ai Grammy – è stato coinvolto nella registrazione del secondo capitolo, Chronicles Volume Two, di quella che inizialmente era stata annunciata come una potenziale trilogia (ne abbiamo parlato anche qui in Music is Love). Se ne parla già dal 2012, quando a Bob Dylan era capitato di tirare fuori l’argomento raccontando che aveva concluso di scrivere la parte relativa a The Freewheelin’ Bob Dylan e quella su Another Side of Bob Dylan. Tuttavia, almeno per il momento, pare che l’uscita di questo secondo capitolo della “saga Dylan” sia stata calendarizzata addirittura per il 2030. Non è difficile immaginare come un progetto del genere possa prendere molto tempo al cantautore premio Nobel che già nel 2012 aveva ammesso che il problema non fosse tanto scrivere il secondo libro quanto rileggerlo, dunque il tempo necessario a revisionare tutto.
Sean Penn, in questi giorni a Cannes per la premiere di Bono: Stories of Surrender, documentario dedicato al frontman degli U2, ha dato la notizia nell’ambito del podcast condotto da Louis Theroux di cui è stato ospite: tra i vari argomenti trattati nell’arco di un’ora e mezza circa i due hanno parlato di A Complete Unkown e di Timothée Chalamet nei panni del cantautore di Duluth, anche se Penn ha ammesso di non aver ancora visto il film. Rimanendo in argomento, il conduttore ha fatto quindi riferimento all’esperienza, ormai di parecchi anni fa, di dare voce al primo racconto biografico di Bob Dylan scoprendo così il coinvolgimento dell’attore nel nuovo progetto di Chronicles.
Chronicles Volume One era uscito nel 2004 e come molte cose fatte nel corso della sua carriera aveva lasciato i lettori di Dylan piuttosto storditi; d’altra parte, lo sappiamo, è una sua peculiarità quella di disattendere le aspettative dei suoi fan.
Dylan sembra essere nato per rivoluzionare il canone: quando nel 1965 tutto il pubblico del Newport Folk Festival si aspetta i suoi pezzi chitarra acustica e voce che l’hanno portato al successo e gli hanno riservato un posto di rilievo nel panorama musicale del momento, del folk revival, della cosiddetta canzone di protesta, Dylan sorprende tutti imbracciando la chitarra elettrica e dando una svolta epocale alla sua storia e alla musica americana.
Fa una cosa simile scrivendo la sua autobiografia, che tutto è tranne che un diario che segue in modo cronologico gli avvenimenti che scandiscono la sua carriera. Periodi lunghi, digressivi, quasi ipnotici, ricchi di immagini, analogie e riferimenti culturali (da Shakespeare a Balzac, da Picasso ai cantautori dimenticati degli anni ’30), il tutto condito da un linguaggio che mescola slang e lirismo. Addirittura Dylan salta totalmente alcuni passaggi fondamentali del suo percorso come lo stesso aneddoto di Newport, spiazzando tutti anche perché concentrato su un tempo davvero ridotto, ovvero l’arrivo a New York e la pubblicazione del primo disco, focalizzandosi dunque sul periodo antecedente il successo e tralasciando quello che è accaduto dopo. In più ci sono diversi capitoli che approfondiscono due album, sicuramente non tra i più blasonati di Dylan, che sono New Morning (1970) e Oh Mercy (1989).
Inoltre il libro, nonostante sia stato molto apprezzato dalla critica, aveva da subito fatto storcere il naso a qualche biografo di Dylan, come l’inglese Clinton Heylin, che aveva ammesso di aver riscontrato molte bugie nel racconto: “Ho preso alcune cose che le persone pensano siano vere e ci ho costruito intorno una storia”, si era limitato a replicare Dylan.
La settimana scorsa si è esibito a Phoenix nell’ambito del Outlaw Music Festival che festeggia il suo decimo anno, la carovana diretta da Willie Nelson e che ha visto coinvolte negli anni grandi star come Bonnie Raitt, Brandi Carlile, Chris Stapleton, Neil Young, John Fogerty, John Mellencamp. Dylan, in chiusura del suo set, ha regalato al pubblico la sua versione di A Rainy Night in Soho dei Pogues. In un modo o nell’altro sa sempre come far parlare di sé, Bob Dylan, e se si entra di diritto nella storia quando si ha ancora la fortuna di camminare a passo lieve su questa Terra, è fuori discussione che ci si trovi di fronte a una leggenda.