Elettricità come energia che tiene insieme le cose. Amore e guerra, clubbing e surrealismo, dark-rock lynchiano, speculativo e visionario. Un universo, più che un disco: About War, Love and Electricity, il terzo disco dei pugliesi Flares On Film, connette varie anime e trova in Lift Records – no streaming gratuito, solo da acquistare, presto anche in vinile – la casa ideale per amare, combattere e elettrizzare. Ne parliamo con il trio.
Guerra, amore, elettricità. Sono le tre parole d’ordine del vostro nuovo disco. Concetti e simboli che orientano la vostra nuova musica: in che modo?
Premetto che parlare di amore per me è anche parlare di guerra. L’amore e la guerra, chiaramente di un certo tipo, non pensiamo ai carri armati, sono strettamente connessi fra loro. Quella tensione amorosa è il polemos che unisce e divide, ma mantiene sempre in relazione. Quindi possiamo dire che parlare di amore e guerra è facile e un po’ lo facciamo tutti.
Il tema dell’elettricità invece ha un sapore meno serioso, è un gioco. Per certi versi è un esplicito richiamo alla loggia nera di Twin Peaks e al suo “electricity…” e proprio come David Lynch mantiene quel gusto surreale e apparentemente incoerente. Ma in fondo, e me lo hanno fatto notare dopo l’uscita dell’album, l’elettricità è quell’energia che tiene unite le cose. Questo disco è tenuto assieme da una tensione elettrica sottostante, una compattezza segreta che resta silenziosa nel sottosuolo.
About War, Love and Electricity è il vostro terzo album, in cosa differisce dai due precedenti?
Questo album diversamente dai precedenti nasce in itinere. Inizialmente infatti pensavo semplicemente ad una breve raccolta di 4, 5 brani. Un Ep preparatorio per un altro album ancora. Ma nella fase iniziale, mentre cominciavo le prime stesure demo dei brani, ci ho preso gusto e l’idea si è scritta da sola. Pian piano infatti ha assunto una narrazione più coerente e completa. Ho scritto altri brani, ne ho tolti altri e alla fine è venuto fuori il concept di base. Ho sempre amato gli album filologicamente coerenti.
Soltanto il titolo è rimasto vago e ampio esattamente come il punto di partenza di questo disco.
Del disco mi ha colpito l’alternanza tra cupezza e solarità, tra senso di desolazione e di vitalità. Quanto è voluto e quanto invece fluisce naturalmente?
Quello che dici è molto vero, c’è una continua alternanza di stati d’animo, di paesaggi. Lo trovo molto dinamico ed è per questo che abbiamo anche scelto di utilizzare più voci per ancora meglio esprimere questo movimento. Una specie di alternanza tra il giorno e la notte, tra la guerra e l’amore.
La formula del power trio – si diceva ai tempi gloriosi del classic rock – ha una marcia in più, dove non arriva un membro arriva uno degli altri due. Che tipo di triangolazioni avvengono nei FOF?
Chiamami pazzo, ma per me questo è un gruppo dall’attitudine rock. Io, in un certo modo detengo il fulcro, il cuore selvaggio del progetto, l’alfa e l’omega, la parte grezza iniziale e la parte finale di chiusura. Nel mezzo Marco e Michele ci mettono con tutta la loro santissima pazienza, una sorta di traduzione. Michele da violinista classico fa suonare tutto molto bene, il sound raggiunge delle tensioni emotive da pelle d’oca. Io sono decisamente più rude. Marco invece è prima di tutto un batterista e quindi con lui ci siamo spesso interrogati sulla ritmicità dei brani, sul loro movimento. Marco è anche l’ingegnere del suono che si è occupato del mix e mastering.
Sarebbe bellissimo farvi leggere la lunghissima corrispondenza fra me e Marco di riferimenti e stati emotivi che raccontano i brani e l’album intero minuto per minuto. Credo molto nella composizione dialogata, aggiunge sempre qualcosa. Negli anni ho fatto molte cose da solo, ma quando c’è qualcun altro hai inesorabilmente un valore extra egoico che arricchisce. È importantissimo non prendersi troppo sul serio e non chiudersi nelle proprie certezze, in tutti i campi.
Qualcuno parla di chill-out, qualcun altro di nu-soul, alle mie orecchie arriva ben stemperata ma decisa anche l’influenza di area dark e new wave. Da dove proviene la vostra musica?
Purtroppo è così. Da qualche parte nell’universo sono venute fuori queste due definizioni chill out e nu soul che secondo me non c’entrano niente con questo disco e peggio ancora con i miei/nostri ascolti. È una cosa rognosa perché uno come me se legge in un articolo la parola nu soul cambia direttamente pagina.
Sì, siamo sicuramente più dark e qualcosa di wave ce la siamo concessa.
Sempre nell’ottica power trio te la racconto così: io e Michele, il violinista, siamo profondamente psichedelici e lisergici, lui è più prog ed io più pop beatlesiano. Marco proviene dal punk e dall’elettronica pura. Il tutto fuso nei miei 40 anni e quindi bagnato di tutta quella wave pop che mi sono ascoltato fin da bambino negli anni 80. Ecco cosa siamo.
Da una provenienza a una destinazione. Dopo tre album vi siete fatti un’idea di chi potrebbe essere il vostro ascoltatore ideale?
Dirò delle banalità ma l’ascoltatore ideale, in questo momento storico, potrebbe essere chiunque. Oggi i piani culturali sono più trasversali e tendenzialmente circola un po’ più di cultura di base. La vera sfida oggi è combattere la noia e il sovraccarico di stimoli. Il nostro ascoltatore ideale sarebbe semplicemente colui che ci viene a cercare.
Lift Records debutta con voi affidando all’acquisto, sia fisico che digitale, la fruizione dell’opera. Vi preoccupa l’assenza dello streaming?
Lo streaming concettualmente è una cosa meravigliosa, ma purtroppo si corre il rischio di perdersi nel grande oceano della scelta. Anche lo streaming video soffre dello stesso problema. Scagli la prima pietra chi non perde un sacco di tempo a scegliersi un film e magari alla fine si rompe e non ne vede nessuno, o addirittura, ancora peggio si rivedere un film già visto, sicuro della sua scelta. Purtroppo anche con la musica è diventato così.
Noi abbiamo scelto di essere scelti. Magari saranno pochissimi i nostri ascoltatori, ma la scelta ci mette in rapporto fra noi. Chi ci sceglie e ci ascolta, ci ha cercato e quindi forse sarà anche più in sintonia con ciò che cerchiamo di raccontare.
L’album avrà anche una versione in vinile con due inediti: di che si tratta?
L’idea nasce da un fatto semplice. Il covid ha rallentato molte cose e anche la stampa dei vinili ha subito dei rallentamenti. Così, per non stare con le mani in mano ad aspettare malinconici alla finestra, abbiamo deciso di rendere l’attesa più sopportabile. In primavera, data ancora segreta, ci sarà una versione deluxe stampata su vinile e disponibile in tutti i negozi di dischi. Vorrei dirvi altro, ma in questo momento mi tocca mordermi la lingua.
Flares On Film dal vivo: in cosa si differenzia il vostro liveset rispetto al disco?
Dal vivo siamo più rock. Dal vivo abbiamo scelto di integrare Costantino Temerario, cantante e chitarrista dei Turangalila, che si occuperà di alcune voci, synth e basso. Io sarò alla voce principale, chitarra e synth; Michele al violino, synth e basso, ed infine Marco alla batteria elettronica, synth e voce. È molto bello poter cambiare strumento sul palco e potersi esprime in più linguaggi.
I brani saranno chiaramente leggermente diversi anche se abbiamo rispettato l’umore e l’espressività.
L’elettricità è ben presente nell’album, l’amore si manifesta come attaccamento alla vita: e la guerra?
La guerra è dappertutto. Guerra come polemos, come collante oppositivo, ma necessario. Personalmente la guerra classica è una cosa che chiaramente ripudio e detesto. Ma vista romanticamente, la guerra diventa eccitazione, eros, passione, desiderio. E questa è la guerra di cui parla questo disco.
Guerra, amore, elettricità. Sono le tre parole d’ordine del vostro nuovo disco. Concetti e simboli che orientano la vostra nuova musica: in che modo?
Premetto che parlare di amore per me è anche parlare di guerra. L’amore e la guerra, chiaramente di un certo tipo, non pensiamo ai carri armati, sono strettamente connessi fra loro. Quella tensione amorosa è il polemos che unisce e divide, ma mantiene sempre in relazione. Quindi possiamo dire che parlare di amore e guerra è facile e un po’ lo facciamo tutti.
Il tema dell’elettricità invece ha un sapore meno serioso, è un gioco. Per certi versi è un esplicito richiamo alla loggia nera di Twin Peaks e al suo “electricity…” e proprio come David Lynch mantiene quel gusto surreale e apparentemente incoerente. Ma in fondo, e me lo hanno fatto notare dopo l’uscita dell’album, l’elettricità è quell’energia che tiene unite le cose. Questo disco è tenuto assieme da una tensione elettrica sottostante, una compattezza segreta che resta silenziosa nel sottosuolo.
About War, Love and Electricity è il vostro terzo album, in cosa differisce dai due precedenti?
Questo album diversamente dai precedenti nasce in itinere. Inizialmente infatti pensavo semplicemente ad una breve raccolta di 4, 5 brani. Un Ep preparatorio per un altro album ancora. Ma nella fase iniziale, mentre cominciavo le prime stesure demo dei brani, ci ho preso gusto e l’idea si è scritta da sola. Pian piano infatti ha assunto una narrazione più coerente e completa. Ho scritto altri brani, ne ho tolti altri e alla fine è venuto fuori il concept di base. Ho sempre amato gli album filologicamente coerenti.
Soltanto il titolo è rimasto vago e ampio esattamente come il punto di partenza di questo disco.
Del disco mi ha colpito l’alternanza tra cupezza e solarità, tra senso di desolazione e di vitalità. Quanto è voluto e quanto invece fluisce naturalmente?
Quello che dici è molto vero, c’è una continua alternanza di stati d’animo, di paesaggi. Lo trovo molto dinamico ed è per questo che abbiamo anche scelto di utilizzare più voci per ancora meglio esprimere questo movimento. Una specie di alternanza tra il giorno e la notte, tra la guerra e l’amore.
La formula del power trio – si diceva ai tempi gloriosi del classic rock – ha una marcia in più, dove non arriva un membro arriva uno degli altri due. Che tipo di triangolazioni avvengono nei FOF?
Chiamami pazzo, ma per me questo è un gruppo dall’attitudine rock. Io, in un certo modo detengo il fulcro, il cuore selvaggio del progetto, l’alfa e l’omega, la parte grezza iniziale e la parte finale di chiusura. Nel mezzo Marco e Michele ci mettono con tutta la loro santissima pazienza, una sorta di traduzione. Michele da violinista classico fa suonare tutto molto bene, il sound raggiunge delle tensioni emotive da pelle d’oca. Io sono decisamente più rude. Marco invece è prima di tutto un batterista e quindi con lui ci siamo spesso interrogati sulla ritmicità dei brani, sul loro movimento. Marco è anche l’ingegnere del suono che si è occupato del mix e mastering.
Sarebbe bellissimo farvi leggere la lunghissima corrispondenza fra me e Marco di riferimenti e stati emotivi che raccontano i brani e l’album intero minuto per minuto. Credo molto nella composizione dialogata, aggiunge sempre qualcosa. Negli anni ho fatto molte cose da solo, ma quando c’è qualcun altro hai inesorabilmente un valore extra egoico che arricchisce. È importantissimo non prendersi troppo sul serio e non chiudersi nelle proprie certezze, in tutti i campi.
Qualcuno parla di chill-out, qualcun altro di nu-soul, alle mie orecchie arriva ben stemperata ma decisa anche l’influenza di area dark e new wave. Da dove proviene la vostra musica?
Purtroppo è così. Da qualche parte nell’universo sono venute fuori queste due definizioni chill out e nu soul che secondo me non c’entrano niente con questo disco e peggio ancora con i miei/nostri ascolti. È una cosa rognosa perché uno come me se legge in un articolo la parola nu soul cambia direttamente pagina.
Sì, siamo sicuramente più dark e qualcosa di wave ce la siamo concessa.
Sempre nell’ottica power trio te la racconto così: io e Michele, il violinista, siamo profondamente psichedelici e lisergici, lui è più prog ed io più pop beatlesiano. Marco proviene dal punk e dall’elettronica pura. Il tutto fuso nei miei 40 anni e quindi bagnato di tutta quella wave pop che mi sono ascoltato fin da bambino negli anni 80. Ecco cosa siamo.
Da una provenienza a una destinazione. Dopo tre album vi siete fatti un’idea di chi potrebbe essere il vostro ascoltatore ideale?
Dirò delle banalità ma l’ascoltatore ideale, in questo momento storico, potrebbe essere chiunque. Oggi i piani culturali sono più trasversali e tendenzialmente circola un po’ più di cultura di base. La vera sfida oggi è combattere la noia e il sovraccarico di stimoli. Il nostro ascoltatore ideale sarebbe semplicemente colui che ci viene a cercare.
Lift Records debutta con voi affidando all’acquisto, sia fisico che digitale, la fruizione dell’opera. Vi preoccupa l’assenza dello streaming?
Lo streaming concettualmente è una cosa meravigliosa, ma purtroppo si corre il rischio di perdersi nel grande oceano della scelta. Anche lo streaming video soffre dello stesso problema. Scagli la prima pietra chi non perde un sacco di tempo a scegliersi un film e magari alla fine si rompe e non ne vede nessuno, o addirittura, ancora peggio si rivedere un film già visto, sicuro della sua scelta. Purtroppo anche con la musica è diventato così.
Noi abbiamo scelto di essere scelti. Magari saranno pochissimi i nostri ascoltatori, ma la scelta ci mette in rapporto fra noi. Chi ci sceglie e ci ascolta, ci ha cercato e quindi forse sarà anche più in sintonia con ciò che cerchiamo di raccontare.
L’album avrà anche una versione in vinile con due inediti: di che si tratta?
L’idea nasce da un fatto semplice. Il covid ha rallentato molte cose e anche la stampa dei vinili ha subito dei rallentamenti. Così, per non stare con le mani in mano ad aspettare malinconici alla finestra, abbiamo deciso di rendere l’attesa più sopportabile. In primavera, data ancora segreta, ci sarà una versione deluxe stampata su vinile e disponibile in tutti i negozi di dischi. Vorrei dirvi altro, ma in questo momento mi tocca mordermi la lingua.
Flares On Film dal vivo: in cosa si differenzia il vostro liveset rispetto al disco?
Dal vivo siamo più rock. Dal vivo abbiamo scelto di integrare Costantino Temerario, cantante e chitarrista dei Turangalila, che si occuperà di alcune voci, synth e basso. Io sarò alla voce principale, chitarra e synth; Michele al violino, synth e basso, ed infine Marco alla batteria elettronica, synth e voce. È molto bello poter cambiare strumento sul palco e potersi esprime in più linguaggi.
I brani saranno chiaramente leggermente diversi anche se abbiamo rispettato l’umore e l’espressività.
L’elettricità è ben presente nell’album, l’amore si manifesta come attaccamento alla vita: e la guerra?
La guerra è dappertutto. Guerra come polemos, come collante oppositivo, ma necessario. Personalmente la guerra classica è una cosa che chiaramente ripudio e detesto. Ma vista romanticamente, la guerra diventa eccitazione, eros, passione, desiderio. E questa è la guerra di cui parla questo disco.