Il mito dell’America è stato vissuto e narrato in mille modi differenti. In Italia ci provò anche Elio Vittorini negli anni ’30-’40 insieme ad altri intellettuali del nostro Paese tra cui Cesare Pavese, Eugenio Montale e Alberto Moravia. Ci provò con Americana, un’antologia che raccoglieva i testi tradotti in italiano di alcuni narratori americani. E ci provò anche se il regime fascista non era d’accordo con la diffusione dell’esterofilia.
Ormai sono trascorsi più di 70 anni da allora (la prima edizione Bompiani è datata 1941), ma loro hanno deciso di prendere spunto esplicitamente dagli scritti messi insieme da Vittorini.
Per saperne di più li abbiamo incontrati e li abbiamo intervistati. Siamo infatti seduti di fronte a Danilo Gallo (basso) e Alessandro “Asso” Stefana (chitarra). Assente giustificato Zeno De Rossi (batteria).
Loro sono i Guano Padano e il loro terzo album si chiama Americana, proprio come l’antologia di Elio Vittorini.
C’è tanta America tradotta dagli intellettuali della prima metà del Novecento in Americana, da Steinbeck a Hemingway… Quanta America c’è invece vista e osservata da voi oggi nel vostro nuovo album?
DANILO: Sicuramente il disco trae ispirazione dalla raccolta che Elio Vittorini fece di questi scrittori americani. Se non sbaglio, nell’opera sono 33 e ci sono nomi come Hemingway, Poe, John Fante… ed è l’America “fotografata” perché Vittorini non era mai stato lì.
Raccogliendo questi scritti, aveva fatto un ritratto immaginando l’America.
Noi abbiamo fatto una sorta di traduzione in lingua musicale di quello che è il nostro immaginario dell’America e di quello che c’era in quegli anni anche rispetto alle radici musicali, e quindi rispetto alle radici del folk, del blues e di tutta la musica che si è sviluppata negli Stati Uniti in quegli anni. C’è molto di metropolitano, molto di industriale… parte dalle campagne ma arriva anche nelle città, per poi ritornare nelle campagne, come nei tempi moderni. È una traduzione della cultura americana antica ma anche moderna. Siamo arrivati 70 anni dopo Vittorini e in questi 70 anni “è successo qualcosa”!
Come vi siete avvicinati ad Americana di Vittorini?
ALESSANDRO: È stata la moglie di Zeno De Rossi, il batterista. È stata lei che ci ha dato l’ispirazione e ha anche cucito un discorso per creare il filo logico del disco. Lei in sostanza ha avuto l’idea di collegare la nostra musica all’opera di Vittorini e in alcuni casi ha proprio selezionato dei testi sui quali poi noi abbiamo composto i brani dell’album. Personalmente ci sono tante cose che fanno parte di libri che già leggevo o avevo letto. L’altro giorno rileggevo alcune vecchie interviste e già nel 2009 venivano citate alcune delle influenze che già facevano parte della nostra musica e che adesso magari sono state focalizzate meglio. Sul sito (www.guanopadano.it, ndr) ci sarà proprio una sezione dove per ogni traccia del disco ci sono i pezzi di testo a cui ci si riferisce e che non abbiamo potuto includere nell’artwork per motivi di diritti. Ci sarà il titolo del brano, la citazione del libro, il link al libro… insomma ci sarà l’informazione completa…
E comunque sono rimasti fuori alcuni testi rispetto ad altri?
DANILO: Beh, sì, però spesso non sono neanche testi interi, ma solo frammenti. Ogni brano è riferito a un autore in particolare e non a tutta l’opera.
Ma vi siete avvicinati più agli autori, ai loro scritti o alle traduzioni italiane e quindi all'”idea italiana di America”?
DANILO: Direi più alle traduzioni, perché quelle di Vittorini erano più “creative” e non strettamente alla lettera. L’America l’aveva interiorizzata in maniera passionale.
ALESSANDRO: La cosa curiosa è che lui stesso traeva insegnamento da queste traduzioni e aveva imparato a scrivere un po’ come fa un musicista che impara a suonare ascoltando altri musicisti che suonano. Non ha imparato perché ha studiato e questa cosa fa molto la differenza. Pensa ad esempio a Jimi Hendrix… se avesse studiato magari non avrebbe fatto quello che ha fatto…
Questo è già il terzo album per voi. Cosa è cambiato rispetto ai lavori precedenti?
ALESSANDRO: Dal 2008 un po’ di strada ne abbiamo fatta. Tante cose le impari on the road. Americana è un disco più maturo degli altri nella forma. Riascoltando le vecchie cose ogni tanto mi capita già nel primo disco di sentire un’impronta forte o un marchio di fabbrica.
DANILO: Ognuno di noi si è cimentato nelle composizioni dei brani che poi sono stati arrangiati collettivamente, ma noi tre abbiamo ognuno un nostro background. C’è questo immaginario di fondo, ma ognuno può interpretare i pezzi come vuole e ognuno può vederci quello che vuole. Stavolta sicuramente alla base c’è un concept e ci sono quindi dei riferimenti più o meno netti, ma che in realtà sono più ispirazioni o suggestioni. Riascoltandolo è una sorta di trilogia insieme ai due dischi precedenti. Non voluta a priori, ma adesso è una sorta di trilogia.
Dago Red, My Town e The Seed And The Soil. Come sono nati questi testi?
ALESSANDRO: Dan Fante ha scritto Dago Red di suo pugno. Il brano è ispirato a un aneddoto di suo padre, il quale raccontava che un periodo non aveva neanche i soldi per comprare la macchina da scrivere (Dan Fante è uno scrittore e commediografo statunitense, figlio secondogenito di John, ndr).
My Town lo ha scritto invece Joey Burns, il cantante dei Calexico. L’abbiamo incontrato quest’estate quando abbiamo aperto i concerti del gruppo. In quelle situazioni ci siamo messi a parlare di cosa stavamo facendo e abbiamo deciso di coinvolgerlo di nuovo nel nostro progetto, visto che aveva già scritto le note di copertina del vecchio disco. Inizialmente a Joey volevamo far recitare un testo di Sherwood Anderson, ma poi per una serie di motivi non abbiamo potuto più farlo e allora lui stesso ha detto: “Ma perché non ne scrivo io uno?”. Ha insistito lui per dire: “Facciamo una cosa nuova, ispirata”. Noi eravamo abbastanza filologici nel seguire il libro e invece lui ha aperto un’altra strada, ispirandosi a un testo già scritto.
Poi c’è The Seed And The Soil che è un brano cantato da Francesca Amati dei Comaneci e quello è tratto da Spoon River.
E così abbiamo cercato di prendere spunti diversi per il nostro disco anche per i testi.
Perché secondo voi è ancora attuale l’opera di Vittorini?
DANILO: (ride, ndr) Per il disco dei Guano Padano! Perché no? Io la vedo come una continuità. È attuale perché l’America è sempre attuale, un punto di riferimento culturale, sociale…
Il regime fascista ne impediva la diffusione e infatti il libro è stato pubblicato successivamente, ma se ci pensi diventò moderno in Italia quando in America erano già avanti. Noi abbiamo provato a seguire lo stesso discorso con la musica perché anche solo un briciolo della musica moderna viene dall’America.
Quali “elementi italiani” ci sono invece nel disco?
DANILO: La nostra non è “musica americana”. Non mi piace il termine “riferimenti”, ma comunque ha delle connessioni. Poi, certo, ascoltando il disco si può andare anche oltre l’America, perché ci sono i mandolini per esempio che richiamano la nostra terra o la terra d’origine di quegli scrittori come John Fante, nato in America ma di chiare origini abruzzesi. La palla rimbalza sempre da una parte all’altra e l’antologia dimostra che c’è stato sempre un ponte tra Italia e Stati Uniti.
Bene. Parliamo infine dei vostri prossimi impegni. L’album esce il 4 novembre e poi partirete per il tour?
ALESSANDRO: Sì, saremo impegnati in Italia fino a gennaio per la prima tornata e poi vediamo. Stiamo lavorando anche per qualcosa in Europa e per un tour in America. Il disco infatti uscirà anche lì sull’etichetta di Mike Patton (Ipecac Recordings, ndr), com’era stato per il lavoro precedente.
Ormai sono trascorsi più di 70 anni da allora (la prima edizione Bompiani è datata 1941), ma loro hanno deciso di prendere spunto esplicitamente dagli scritti messi insieme da Vittorini.
Per saperne di più li abbiamo incontrati e li abbiamo intervistati. Siamo infatti seduti di fronte a Danilo Gallo (basso) e Alessandro “Asso” Stefana (chitarra). Assente giustificato Zeno De Rossi (batteria).
Loro sono i Guano Padano e il loro terzo album si chiama Americana, proprio come l’antologia di Elio Vittorini.
C’è tanta America tradotta dagli intellettuali della prima metà del Novecento in Americana, da Steinbeck a Hemingway… Quanta America c’è invece vista e osservata da voi oggi nel vostro nuovo album?
DANILO: Sicuramente il disco trae ispirazione dalla raccolta che Elio Vittorini fece di questi scrittori americani. Se non sbaglio, nell’opera sono 33 e ci sono nomi come Hemingway, Poe, John Fante… ed è l’America “fotografata” perché Vittorini non era mai stato lì.
Raccogliendo questi scritti, aveva fatto un ritratto immaginando l’America.
Noi abbiamo fatto una sorta di traduzione in lingua musicale di quello che è il nostro immaginario dell’America e di quello che c’era in quegli anni anche rispetto alle radici musicali, e quindi rispetto alle radici del folk, del blues e di tutta la musica che si è sviluppata negli Stati Uniti in quegli anni. C’è molto di metropolitano, molto di industriale… parte dalle campagne ma arriva anche nelle città, per poi ritornare nelle campagne, come nei tempi moderni. È una traduzione della cultura americana antica ma anche moderna. Siamo arrivati 70 anni dopo Vittorini e in questi 70 anni “è successo qualcosa”!
Come vi siete avvicinati ad Americana di Vittorini?
ALESSANDRO: È stata la moglie di Zeno De Rossi, il batterista. È stata lei che ci ha dato l’ispirazione e ha anche cucito un discorso per creare il filo logico del disco. Lei in sostanza ha avuto l’idea di collegare la nostra musica all’opera di Vittorini e in alcuni casi ha proprio selezionato dei testi sui quali poi noi abbiamo composto i brani dell’album. Personalmente ci sono tante cose che fanno parte di libri che già leggevo o avevo letto. L’altro giorno rileggevo alcune vecchie interviste e già nel 2009 venivano citate alcune delle influenze che già facevano parte della nostra musica e che adesso magari sono state focalizzate meglio. Sul sito (www.guanopadano.it, ndr) ci sarà proprio una sezione dove per ogni traccia del disco ci sono i pezzi di testo a cui ci si riferisce e che non abbiamo potuto includere nell’artwork per motivi di diritti. Ci sarà il titolo del brano, la citazione del libro, il link al libro… insomma ci sarà l’informazione completa…
E comunque sono rimasti fuori alcuni testi rispetto ad altri?
DANILO: Beh, sì, però spesso non sono neanche testi interi, ma solo frammenti. Ogni brano è riferito a un autore in particolare e non a tutta l’opera.
Ma vi siete avvicinati più agli autori, ai loro scritti o alle traduzioni italiane e quindi all'”idea italiana di America”?
DANILO: Direi più alle traduzioni, perché quelle di Vittorini erano più “creative” e non strettamente alla lettera. L’America l’aveva interiorizzata in maniera passionale.
ALESSANDRO: La cosa curiosa è che lui stesso traeva insegnamento da queste traduzioni e aveva imparato a scrivere un po’ come fa un musicista che impara a suonare ascoltando altri musicisti che suonano. Non ha imparato perché ha studiato e questa cosa fa molto la differenza. Pensa ad esempio a Jimi Hendrix… se avesse studiato magari non avrebbe fatto quello che ha fatto…
Questo è già il terzo album per voi. Cosa è cambiato rispetto ai lavori precedenti?
ALESSANDRO: Dal 2008 un po’ di strada ne abbiamo fatta. Tante cose le impari on the road. Americana è un disco più maturo degli altri nella forma. Riascoltando le vecchie cose ogni tanto mi capita già nel primo disco di sentire un’impronta forte o un marchio di fabbrica.
DANILO: Ognuno di noi si è cimentato nelle composizioni dei brani che poi sono stati arrangiati collettivamente, ma noi tre abbiamo ognuno un nostro background. C’è questo immaginario di fondo, ma ognuno può interpretare i pezzi come vuole e ognuno può vederci quello che vuole. Stavolta sicuramente alla base c’è un concept e ci sono quindi dei riferimenti più o meno netti, ma che in realtà sono più ispirazioni o suggestioni. Riascoltandolo è una sorta di trilogia insieme ai due dischi precedenti. Non voluta a priori, ma adesso è una sorta di trilogia.
Dago Red, My Town e The Seed And The Soil. Come sono nati questi testi?
ALESSANDRO: Dan Fante ha scritto Dago Red di suo pugno. Il brano è ispirato a un aneddoto di suo padre, il quale raccontava che un periodo non aveva neanche i soldi per comprare la macchina da scrivere (Dan Fante è uno scrittore e commediografo statunitense, figlio secondogenito di John, ndr).
My Town lo ha scritto invece Joey Burns, il cantante dei Calexico. L’abbiamo incontrato quest’estate quando abbiamo aperto i concerti del gruppo. In quelle situazioni ci siamo messi a parlare di cosa stavamo facendo e abbiamo deciso di coinvolgerlo di nuovo nel nostro progetto, visto che aveva già scritto le note di copertina del vecchio disco. Inizialmente a Joey volevamo far recitare un testo di Sherwood Anderson, ma poi per una serie di motivi non abbiamo potuto più farlo e allora lui stesso ha detto: “Ma perché non ne scrivo io uno?”. Ha insistito lui per dire: “Facciamo una cosa nuova, ispirata”. Noi eravamo abbastanza filologici nel seguire il libro e invece lui ha aperto un’altra strada, ispirandosi a un testo già scritto.
Poi c’è The Seed And The Soil che è un brano cantato da Francesca Amati dei Comaneci e quello è tratto da Spoon River.
E così abbiamo cercato di prendere spunti diversi per il nostro disco anche per i testi.
Perché secondo voi è ancora attuale l’opera di Vittorini?
DANILO: (ride, ndr) Per il disco dei Guano Padano! Perché no? Io la vedo come una continuità. È attuale perché l’America è sempre attuale, un punto di riferimento culturale, sociale…
Il regime fascista ne impediva la diffusione e infatti il libro è stato pubblicato successivamente, ma se ci pensi diventò moderno in Italia quando in America erano già avanti. Noi abbiamo provato a seguire lo stesso discorso con la musica perché anche solo un briciolo della musica moderna viene dall’America.
Quali “elementi italiani” ci sono invece nel disco?
DANILO: La nostra non è “musica americana”. Non mi piace il termine “riferimenti”, ma comunque ha delle connessioni. Poi, certo, ascoltando il disco si può andare anche oltre l’America, perché ci sono i mandolini per esempio che richiamano la nostra terra o la terra d’origine di quegli scrittori come John Fante, nato in America ma di chiare origini abruzzesi. La palla rimbalza sempre da una parte all’altra e l’antologia dimostra che c’è stato sempre un ponte tra Italia e Stati Uniti.
Bene. Parliamo infine dei vostri prossimi impegni. L’album esce il 4 novembre e poi partirete per il tour?
ALESSANDRO: Sì, saremo impegnati in Italia fino a gennaio per la prima tornata e poi vediamo. Stiamo lavorando anche per qualcosa in Europa e per un tour in America. Il disco infatti uscirà anche lì sull’etichetta di Mike Patton (Ipecac Recordings, ndr), com’era stato per il lavoro precedente.