Quando ci si addentra nel mondo della canzone d’autore italiana, imbattersi nel nome di Enrico Deregibus è facilissimo. Giornalista, autore, operatore culturale attivo e sensibile, Deregibus nel 2003 pubblicò un libro importante dedicato alla figura e alla storia di Francesco De Gregori: Quello che non so, lo so cantare. A una dozzina d’anni di distanza, ancora una volta con Giunti, arriva la versione aggiornata, riveduta e corretta, con un titolo altrettanto significativo, Mi puoi leggere fino a tardi. Affabulatore preciso, dettagliato, abile nel destreggiarsi tra date, notizie, eventi, dischi e concerti, Deregibus presenta una biografia appassionata di De Gregori. Entriamo con lui nel dettaglio.
Mi puoi leggere fino a tardi è l’aggiornamento, a dodici anni di distanza, della tua biografia su De Gregori: qualcosa di più che una semplice ristampa…
Sì, oltre a raccontare gli ultimi anni, ho rimesso mano pesantemente a quel che avevo scritto, in virtù di molti materiali nuovi che avevo trovato nel frattempo: interviste a De Gregori, articoli, archivi di giornali, dichiarazioni varie e interviste che ho fatto io appositamente, fra cui una molto lunga con Antonello Venditti, che è stata una fonte preziosa. Diciamo che una parte consistente del vecchio testo è stata modificata, nel contenuto ma anche nella forma. L’ho fatto anche perché chi aveva letto la prima edizione potesse trovare qualcosa di nuovo anche su quella parte. E in molti casi descrizioni più accurate di certi episodi.
Ho letteralmente divorato il testo e credo che il segreto sia proprio nella tua posizione: non un saggista distaccato che resta dietro le quinte, ma un appassionato interprete di una lunga vicenda artistica. Quanto è rischioso per un autore mettere molto di sé in una narrazione del genere?
Grazie innanzitutto per aver rischiato l’indigestione. C’è sicuramente passione nel lavoro che ho fatto, quella che è il motore per andare avanti, ma resto convinto che quel che è indispensabile è tenere saldo il volante e sapere dove andare. Nei pochi casi in cui mi sono reso conto che la guida era, diciamo così, pericolosa, ho cestinato e rifatto. De Gregori dice che sono un suo estimatore laico e la definizione mi piace, anche perché non lesino critiche o piccole malizie qua e là. Poi sicuramente qualcosa di me lì dentro c’è, potrei dire banalmente che con De Gregori ci sono cresciuto, è legato ad alcuni momenti della mia vita, ma non so quanto questo venga fuori, tranne le rare volte in cui per correttezza lo scrivo esplicitamente.
Su De Gregori si è scritto moltissimo ed egli stesso non si è mai tirato indietro di fronte alle interviste. Cosa pensi aggiunga il tuo testo all’abbondante “letteratura” su di lui?
La maggior parte dei libri su di lui sono di analisi critica di vario tipo, questa vuole essere invece solo o addirittura una biografia, con la voglia di provare a raccontare il suo percorso, che in molti punti è sconosciuto o quasi. Mi piaceva proprio l’idea del racconto, forse è per questo che tu mi definisci “appassionato interprete”. La parte critica nel mio libro c’è ma è marginale, oltretutto credo sia poco interessante sapere se mi piace questa o quella canzone o questo o quel disco. Diciamo che offro il mio punto di vista perché il lettore ci si possa confrontare, niente di più. Nei prossimi anni farò un libro dedicato esclusivamente alle canzoni di De Gregori, una per una, e lì un po’ di opinioni personali ce le metterò, ma spero non siano preponderanti.
Una cosa che mi ha molto colpito dell’esperienza di De Gregori è il crescendo che lo accompagna fino ad oggi. Rarissimi momenti di stanchezza, episodici cali di ispirazione e una voglia costante di dire e fare. Una figura unica nel suo genere…
Non so se è un crescendo, perché ha fatto cose grandiose anche nei primi decenni di attività, però è vero che in lui c’è una vitalità continua, forse persino accresciuta negli ultimi 10-15 anni. Basta vederlo dal vivo in questo tour, fra l’altro di grande successo, per capire che ha voglia di stare là sopra, di cantare con attorno una band che si è costruito pezzo per pezzo. E poi devo dire che due dei suoi ultimi dischi secondo me sono fra i suoi più belli e ispirati in assoluto, Pezzi e Sulla strada. Anche in VivaVoce, dove ha rimesso mano a molti suoi pezzi, ha parecchie cose belle, specie quando stravolge gli originali. Credo che rispetto a molti altri suoi colleghi lui mantenga una creatività e una fame di musica non indifferenti.
La riedizione ti avrà nuovamente messo di fronte alla sua discografia. Quali sono le opere che hai voluto riconsiderare, alla luce magari di nuove valutazioni critiche?
Mah, forse un po’ Bufalo Bill. È un disco che mi piaceva, però con qualche riserva che ho sempre fatto fatica a focalizzare. Invece riascoltandolo dopo un po’ di tempo ci ho scoperto nuovi stimoli, nuovi risvolti, alcuni passaggi che mi hanno conquistato di più rispetto a un tempo. Credo abbia una carica innovativa non da poco, considerando anche che arrivava dopo un caposaldo come Rimmel. Invece un disco che al riascolto mi ha convinto meno è Per brevità chiamato artista. All’uscita mi aveva complessivamente convinto, ora meno. In certi pezzi lo trovo un po’ stiracchiato.
Domanda da un milione di dollari: te la sentiresti di segnalare una canzone, anzi “la” canzone che sintetizza nel migliore dei modi il mondo lirico e tematico di De Gregori?
Azz… domanda davvero difficile in effetti. Anche perché, a dispetto di quel che può magari sembrare, De Gregori ha una tipologia molto varia di canzoni. Ci provo, però poi il milione di dollari me lo dai veramente? Dico La storia, che è un pezzone, non solo per la bellezza intrinseca, per come è costruito, per le immagini, per come si fondono musica e testo, ma anche per l’idea del brano. Un canzone d’amore per la storia: il solo concepirla è già un colpo di genio e di talento. E dentro credo che ci sia molto di De Gregori, anche dal punto di vista tecnico della scrittura. Ora però attendo il tuo bonifico…
Rilancio la richiesta al nostro direttore… Tra i vari fil rouge che dipani, uno assai significativo riguarda la collaborazione con Lucio Dalla. Quanto è stato importante per De Gregori confrontarsi con un autore così diverso, eppure a lui così affine?
Sicuramente è stato molto importante. Tecnicamente, perchè da Dalla ha assorbito certi stilemi musicali che poi ha elaborato a suo modo, cioè istintivamente. Ma anche da un punto di vista artistico in generale: il modo di rapportarsi con certi aspetti del mestiere ed in generale direi una certa libertà, una certa giocosità persino. Forse il perché sta in quello che dici tu: erano molto diversi ma molto affini. Ma anche Dalla credo abbia preso molto da lui soprattutto per la parte letteraria e per certe atmosfere. Trovo che soprattutto i primi testi di Dalla risentano molto dell’influenza di De Gregori. In generale poi De Gregori è uno che ha sempre cercato, o forse trovato, collaborazioni, le più diverse o che comunque ha avuto rapporti di qualche tipo con tantissimi colleghi. Una cosa che mi ha divertito molto è andare a cercare queste storie e raccontarle il più possibile, come quella con Paolo Conte, anche se non è una collaborazione in senso stretto. Credo siano utilissime per entrare nel suo mondo, magari anche solo dalla finestra.
Jam si occupa principalmente di rock e De Gregori ha flirtato spesso con questo ambiente. Che rapporti ci sono tra Francesco e il mondo rock?
Negli anni Settanta c’era forse un po’ di diffidenza, che si è andata via via stemperando. Poi le cose sono cambiate notevolmente. A me è rimasto impresso un concerto del ’91 o ’92 a Torino, dove per la prima volta lo vedevo imbracciare una chitarra elettrica. Credo parta da lì, da quel tour, il suo ingresso nel rock, un ingresso prima timido, poi sempre più convinto. Ora il rock è una delle frecce che ha al suo arco, un colore in più nella sua tavolozza. A volte lo usa molto (come nel periodo fra il 2002 e il 2005), a volte poco, ma è ormai un punto fermo. Dice che sentire la batteria che tira dietro di lui lo fa sentire bene.
A differenza di colleghi come Guccini, Baglioni, Fossati o Ligabue, che si sono confrontati con la letteratura o il cinema, De Gregori ha dato tutto se stesso alla canzone. Il non essersi cimentato con altre forme espressive è una “diminutio”?
Non credo. È che non sente il bisogno di usare altre arti. Sono convinto che lui abbia una grande considerazione per la forma espressiva della canzone, e la canzone gli è sufficiente. Poi chissà in futuro. Però con altre arti flirta spesso. Magari da musicista, scrivendo colonne sonore o dando canzoni al cinema o all’arte contemporanea. Oppure facendo l’editore come gli è capitato molti anni fa o leggendo romanzi per gli audiolibri.
Sei una figura molto presente nel mondo della canzone d’autore, alla luce della tua esperienza pensi che De Gregori abbia qualche erede?
Il termine erede può essere inteso in molti modi. Personalmente credo che gli eredi non sono quelli che ricalcano fortemente i suoi modelli. Ce ne sono stati tanti in passato ed ancora adesso ce ne sono. Personalmente quando li ascolto a volte mi viene da andare a risentirmi l’originale. Se invece per eredi intendiamo artisti delle ultime generazioni che cercano di coniugare testi con del contenuto, musiche non banali ed una poetica, chiamiamola così, non allineata ai canoni imperanti, be’, allora ce ne sono ed anche di bravi. Potrei fare molti nomi, i primi che mi vengo sono Luci della centrale elettrica, Paolo Benvegnù e Massimo Volume. Tranne vagamente Le Luci, gli altri due non ricordano in niente De Gregori. Credo sia un buon modo di far fruttare un’eredità.
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Sì, oltre a raccontare gli ultimi anni, ho rimesso mano pesantemente a quel che avevo scritto, in virtù di molti materiali nuovi che avevo trovato nel frattempo: interviste a De Gregori, articoli, archivi di giornali, dichiarazioni varie e interviste che ho fatto io appositamente, fra cui una molto lunga con Antonello Venditti, che è stata una fonte preziosa. Diciamo che una parte consistente del vecchio testo è stata modificata, nel contenuto ma anche nella forma. L’ho fatto anche perché chi aveva letto la prima edizione potesse trovare qualcosa di nuovo anche su quella parte. E in molti casi descrizioni più accurate di certi episodi.
Ho letteralmente divorato il testo e credo che il segreto sia proprio nella tua posizione: non un saggista distaccato che resta dietro le quinte, ma un appassionato interprete di una lunga vicenda artistica. Quanto è rischioso per un autore mettere molto di sé in una narrazione del genere?
Grazie innanzitutto per aver rischiato l’indigestione. C’è sicuramente passione nel lavoro che ho fatto, quella che è il motore per andare avanti, ma resto convinto che quel che è indispensabile è tenere saldo il volante e sapere dove andare. Nei pochi casi in cui mi sono reso conto che la guida era, diciamo così, pericolosa, ho cestinato e rifatto. De Gregori dice che sono un suo estimatore laico e la definizione mi piace, anche perché non lesino critiche o piccole malizie qua e là. Poi sicuramente qualcosa di me lì dentro c’è, potrei dire banalmente che con De Gregori ci sono cresciuto, è legato ad alcuni momenti della mia vita, ma non so quanto questo venga fuori, tranne le rare volte in cui per correttezza lo scrivo esplicitamente.
Su De Gregori si è scritto moltissimo ed egli stesso non si è mai tirato indietro di fronte alle interviste. Cosa pensi aggiunga il tuo testo all’abbondante “letteratura” su di lui?
La maggior parte dei libri su di lui sono di analisi critica di vario tipo, questa vuole essere invece solo o addirittura una biografia, con la voglia di provare a raccontare il suo percorso, che in molti punti è sconosciuto o quasi. Mi piaceva proprio l’idea del racconto, forse è per questo che tu mi definisci “appassionato interprete”. La parte critica nel mio libro c’è ma è marginale, oltretutto credo sia poco interessante sapere se mi piace questa o quella canzone o questo o quel disco. Diciamo che offro il mio punto di vista perché il lettore ci si possa confrontare, niente di più. Nei prossimi anni farò un libro dedicato esclusivamente alle canzoni di De Gregori, una per una, e lì un po’ di opinioni personali ce le metterò, ma spero non siano preponderanti.
Una cosa che mi ha molto colpito dell’esperienza di De Gregori è il crescendo che lo accompagna fino ad oggi. Rarissimi momenti di stanchezza, episodici cali di ispirazione e una voglia costante di dire e fare. Una figura unica nel suo genere…
Non so se è un crescendo, perché ha fatto cose grandiose anche nei primi decenni di attività, però è vero che in lui c’è una vitalità continua, forse persino accresciuta negli ultimi 10-15 anni. Basta vederlo dal vivo in questo tour, fra l’altro di grande successo, per capire che ha voglia di stare là sopra, di cantare con attorno una band che si è costruito pezzo per pezzo. E poi devo dire che due dei suoi ultimi dischi secondo me sono fra i suoi più belli e ispirati in assoluto, Pezzi e Sulla strada. Anche in VivaVoce, dove ha rimesso mano a molti suoi pezzi, ha parecchie cose belle, specie quando stravolge gli originali. Credo che rispetto a molti altri suoi colleghi lui mantenga una creatività e una fame di musica non indifferenti.
La riedizione ti avrà nuovamente messo di fronte alla sua discografia. Quali sono le opere che hai voluto riconsiderare, alla luce magari di nuove valutazioni critiche?
Mah, forse un po’ Bufalo Bill. È un disco che mi piaceva, però con qualche riserva che ho sempre fatto fatica a focalizzare. Invece riascoltandolo dopo un po’ di tempo ci ho scoperto nuovi stimoli, nuovi risvolti, alcuni passaggi che mi hanno conquistato di più rispetto a un tempo. Credo abbia una carica innovativa non da poco, considerando anche che arrivava dopo un caposaldo come Rimmel. Invece un disco che al riascolto mi ha convinto meno è Per brevità chiamato artista. All’uscita mi aveva complessivamente convinto, ora meno. In certi pezzi lo trovo un po’ stiracchiato.
Domanda da un milione di dollari: te la sentiresti di segnalare una canzone, anzi “la” canzone che sintetizza nel migliore dei modi il mondo lirico e tematico di De Gregori?
Azz… domanda davvero difficile in effetti. Anche perché, a dispetto di quel che può magari sembrare, De Gregori ha una tipologia molto varia di canzoni. Ci provo, però poi il milione di dollari me lo dai veramente? Dico La storia, che è un pezzone, non solo per la bellezza intrinseca, per come è costruito, per le immagini, per come si fondono musica e testo, ma anche per l’idea del brano. Un canzone d’amore per la storia: il solo concepirla è già un colpo di genio e di talento. E dentro credo che ci sia molto di De Gregori, anche dal punto di vista tecnico della scrittura. Ora però attendo il tuo bonifico…
Rilancio la richiesta al nostro direttore… Tra i vari fil rouge che dipani, uno assai significativo riguarda la collaborazione con Lucio Dalla. Quanto è stato importante per De Gregori confrontarsi con un autore così diverso, eppure a lui così affine?
Sicuramente è stato molto importante. Tecnicamente, perchè da Dalla ha assorbito certi stilemi musicali che poi ha elaborato a suo modo, cioè istintivamente. Ma anche da un punto di vista artistico in generale: il modo di rapportarsi con certi aspetti del mestiere ed in generale direi una certa libertà, una certa giocosità persino. Forse il perché sta in quello che dici tu: erano molto diversi ma molto affini. Ma anche Dalla credo abbia preso molto da lui soprattutto per la parte letteraria e per certe atmosfere. Trovo che soprattutto i primi testi di Dalla risentano molto dell’influenza di De Gregori. In generale poi De Gregori è uno che ha sempre cercato, o forse trovato, collaborazioni, le più diverse o che comunque ha avuto rapporti di qualche tipo con tantissimi colleghi. Una cosa che mi ha divertito molto è andare a cercare queste storie e raccontarle il più possibile, come quella con Paolo Conte, anche se non è una collaborazione in senso stretto. Credo siano utilissime per entrare nel suo mondo, magari anche solo dalla finestra.
Jam si occupa principalmente di rock e De Gregori ha flirtato spesso con questo ambiente. Che rapporti ci sono tra Francesco e il mondo rock?
Negli anni Settanta c’era forse un po’ di diffidenza, che si è andata via via stemperando. Poi le cose sono cambiate notevolmente. A me è rimasto impresso un concerto del ’91 o ’92 a Torino, dove per la prima volta lo vedevo imbracciare una chitarra elettrica. Credo parta da lì, da quel tour, il suo ingresso nel rock, un ingresso prima timido, poi sempre più convinto. Ora il rock è una delle frecce che ha al suo arco, un colore in più nella sua tavolozza. A volte lo usa molto (come nel periodo fra il 2002 e il 2005), a volte poco, ma è ormai un punto fermo. Dice che sentire la batteria che tira dietro di lui lo fa sentire bene.
A differenza di colleghi come Guccini, Baglioni, Fossati o Ligabue, che si sono confrontati con la letteratura o il cinema, De Gregori ha dato tutto se stesso alla canzone. Il non essersi cimentato con altre forme espressive è una “diminutio”?
Non credo. È che non sente il bisogno di usare altre arti. Sono convinto che lui abbia una grande considerazione per la forma espressiva della canzone, e la canzone gli è sufficiente. Poi chissà in futuro. Però con altre arti flirta spesso. Magari da musicista, scrivendo colonne sonore o dando canzoni al cinema o all’arte contemporanea. Oppure facendo l’editore come gli è capitato molti anni fa o leggendo romanzi per gli audiolibri.
Sei una figura molto presente nel mondo della canzone d’autore, alla luce della tua esperienza pensi che De Gregori abbia qualche erede?
Il termine erede può essere inteso in molti modi. Personalmente credo che gli eredi non sono quelli che ricalcano fortemente i suoi modelli. Ce ne sono stati tanti in passato ed ancora adesso ce ne sono. Personalmente quando li ascolto a volte mi viene da andare a risentirmi l’originale. Se invece per eredi intendiamo artisti delle ultime generazioni che cercano di coniugare testi con del contenuto, musiche non banali ed una poetica, chiamiamola così, non allineata ai canoni imperanti, be’, allora ce ne sono ed anche di bravi. Potrei fare molti nomi, i primi che mi vengo sono Luci della centrale elettrica, Paolo Benvegnù e Massimo Volume. Tranne vagamente Le Luci, gli altri due non ricordano in niente De Gregori. Credo sia un buon modo di far fruttare un’eredità.
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