Giorgio Conte è un signore di campagna che non disdegna la città, ma di notte, dopo un concerto, se le distanze non sono impossibili, preferisce ritornare nella sua Asti, o meglio nella sua Cascina Piovanotto, una tenuta comprata anni fa da suo padre di cui si è mantenuto il vecchio nome. Qui Giorgio, oltre alla famiglia, ha sempre più il suo quartier generale dove scrive libri, canzoni e ora se le registra pure. Cascina Piovanotto è anche il titolo del suo ultimo lavoro: dodici canzoni che, come suggerisce qualcuno, sono delicate e eleganti come cristalli di Boemia, materiali preziosi per fare ottimi bicchieri da cui sorseggiare il buon vino che dalle sue parti è ancora facile trovare. Quelle di Giorgio Conte sono canzoni che sprigionano sentimento, che toccano le giuste corde senza scomodare i massimi sistemi, quadretti in cui si narra d’amore e malinconia con leggerezza. Non ci sono drammi nei suoi brani, neppure acrimonia, piuttosto pacate riflessioni su situazioni emotive che infiammano il cuore, ma si sa, sono anche spesso destinate a lasciare solitudine e malinconia. Il 20 Ottobre scorso si è esibito alla Salumeria della Musica di Milano e come al solito ha costruito un piccolo evento in cui ha presentato buona parte del nuovo disco, inframmezzato a vecchie canzoni, dialoghi col pubblico e esegesi dei vari brani. Uno spettacolo o meglio un entertainment familiare in cui ha ribadito tutta la sua bravura e simpatia. Prima del concerto ci siamo incontrati nel backstage e abbiamo fatto quattro chiacchiere sul suo nuovo lavoro.
Come è nato Cascina Piovanotto? “Finito il disco precedente, Come Quando Fuori Piove, che risale ormai a tre anni fa, ho subito cominciato a pensare al lavoro successivo. Quel disco passato lo avevo registrato a casa mia e mi ero trovato così bene che ho deciso di continuare nello stesso modo anche con questo nuovo. Così insieme a Walter Porro, col quale ho lavorato assiduamente, abbiamo piazzato fisarmonica, pianoforte, chitarra e tutto il resto in modo da sostituire in modo artigianale il classico studio di registrazione. In realtà il lavoro è stato lungo e ci ha occupato almeno un paio di anni, poi naturalmente sono arrivati gli aggiustamenti, le limature che hanno condotto alla scelta, tra tutto il materiale a disposizione, di queste dodici canzoni. Avevamo a disposizione molto di più, ma come sempre succede, si toglie ciò che è meno convincente e si fa tesoro del resto. Con Walter ci trovavamo tutti i martedì a prescindere dalla fregola del registrare. Quegli incontri erano diventati una piacevole abitudine che ha messo le basi per un cammino lento, ma a passo di montagna, sicuro, indirizzato a una meta, e così abbiamo fatto dei provini e ho tenuto quei brani che mi piacevano secondo una formula sonora consolidata, cioè quella di creare un colore musicale che è sempre lo stesso, anche se i pezzi sono di ispirazione diversa. Mi interessava che la gente capisse che si trattava di roba mia prima ancora che mi mettessi a cantare. Poi abbiamo aggiunto qualche giochino elettronico che rinfrescasse un po’ la melodia, magari un po’ troppo standard, e così è nato il disco. Musicalmente abbiamo lavorato soprattutto con voce e chitarra, perché ho capito da un pezzo che quando una canzone funziona sta in piedi anche nella sua forma più basica: più cose aggiungi, più è difficile trovare il giusto equilibrio, così abbiamo lavorato puntando sulla diminuzione. Ci sono dei pezzi che hanno respiro molto ampio, come Stringimi Forte che apre il disco, una canzone di cui sono molto orgoglioso e in cui ripongo una grande speranza perchè credo che abbia addirittura una valenza internazionale. Può sembrare che me la tiri, ma se ragiono da vecchio compositore, anche di pezzi scritti per altri, mi sembra proprio che sia centrata. È un po’ quello che è successo con Non Sono Maddalena di cui ho subito pensato che se non l’avessi inconsciamente copiata sarebbe stata un successo. Altre canzoni sono invece dei divertissement con sonorità da piccola banda di paese, valzerini e atmosfere che se chiudi gli occhi ti sembra di essere in grandi città come New York. C’è un pezzo totalmente latino che ho composto grazie alla lettura di un libro di Alessandro Fullin in cui spiccavano delle frasi che pensavo fossero scritte in spagnolo, ma che invece si sono rivelate essere in triestino, che mi hanno colpito. È da lì che ho preso L’amor no bussa, l’amore entra cioè che l’amore non ha bisogno di chiedere permesso, perché quando arriva deflagra ed è impossibile fermarlo. Di Dondolo con te, altro pezzo che potrebbe essere un singolo, è stato tratto un video particolare con delle animazioni, mentre Vecchio Pedro, storico brano del quartetto Cetra, del periodo in cui non c’era ancora Lucia Mannucci, è una canzone spensierata, un po’ sciocchina del dopoguerra, senza velleità intellettuale, che si sentiva in casa mia quando ero bambino: una specie di memoria storica che ho voluto riprendere. Non me la ricordavo tutta, così ho chiesto a mio fratello Paolo cosa gli fosse rimasto in mente e ne è uscita una strofa ulteriore che ha quasi completato il quadretto. Quello che non sono riuscito a recuperare ho cercato di ricostruirlo io. Insomma il disco mi convince, non è stato costruito solo su qualche buona idea, ma ha finito per essere uniformemente di mio gradimento e devo dire che sto ricevendo anche conferme dall’esterno”.
Quando gli dico che Stringimi Forte perderebbe troppo dal vivo senza la presenza del coro Polifonico di Cortemilia che ripete il refrain, mi risponde sornione: “È una specie di scommessa che ho fatto con me stesso, sono abbastanza sicuro che sarà il pubblico stesso a intonarlo. Le poche volte che ho già provato a suggerirlo ha funzionato alla grande”.
Nel corso della sua carriera Giorgio Conte si è anche cimentato con la scrittura di racconti in cui balenano di sovente ricordi di infanzia e di gioventù. Cosa è rimasto di quella memoria nelle canzoni del nuovo disco? “Credo sempre di meno perché i temi nel tempo si esauriscono. Se si esclude Avevo una gran voglia di vederti, che è effettivamente un ricordo affettivo, in questo disco c’è poco altro di autobiografico. Le mie canzoni sono sempre più dei quadretti o forse delle scenette, dei flashback che mi piace raccontare in modo leggero, rifuggendo sempre dalla poesia astratta”.
Come è nato Cascina Piovanotto? “Finito il disco precedente, Come Quando Fuori Piove, che risale ormai a tre anni fa, ho subito cominciato a pensare al lavoro successivo. Quel disco passato lo avevo registrato a casa mia e mi ero trovato così bene che ho deciso di continuare nello stesso modo anche con questo nuovo. Così insieme a Walter Porro, col quale ho lavorato assiduamente, abbiamo piazzato fisarmonica, pianoforte, chitarra e tutto il resto in modo da sostituire in modo artigianale il classico studio di registrazione. In realtà il lavoro è stato lungo e ci ha occupato almeno un paio di anni, poi naturalmente sono arrivati gli aggiustamenti, le limature che hanno condotto alla scelta, tra tutto il materiale a disposizione, di queste dodici canzoni. Avevamo a disposizione molto di più, ma come sempre succede, si toglie ciò che è meno convincente e si fa tesoro del resto. Con Walter ci trovavamo tutti i martedì a prescindere dalla fregola del registrare. Quegli incontri erano diventati una piacevole abitudine che ha messo le basi per un cammino lento, ma a passo di montagna, sicuro, indirizzato a una meta, e così abbiamo fatto dei provini e ho tenuto quei brani che mi piacevano secondo una formula sonora consolidata, cioè quella di creare un colore musicale che è sempre lo stesso, anche se i pezzi sono di ispirazione diversa. Mi interessava che la gente capisse che si trattava di roba mia prima ancora che mi mettessi a cantare. Poi abbiamo aggiunto qualche giochino elettronico che rinfrescasse un po’ la melodia, magari un po’ troppo standard, e così è nato il disco. Musicalmente abbiamo lavorato soprattutto con voce e chitarra, perché ho capito da un pezzo che quando una canzone funziona sta in piedi anche nella sua forma più basica: più cose aggiungi, più è difficile trovare il giusto equilibrio, così abbiamo lavorato puntando sulla diminuzione. Ci sono dei pezzi che hanno respiro molto ampio, come Stringimi Forte che apre il disco, una canzone di cui sono molto orgoglioso e in cui ripongo una grande speranza perchè credo che abbia addirittura una valenza internazionale. Può sembrare che me la tiri, ma se ragiono da vecchio compositore, anche di pezzi scritti per altri, mi sembra proprio che sia centrata. È un po’ quello che è successo con Non Sono Maddalena di cui ho subito pensato che se non l’avessi inconsciamente copiata sarebbe stata un successo. Altre canzoni sono invece dei divertissement con sonorità da piccola banda di paese, valzerini e atmosfere che se chiudi gli occhi ti sembra di essere in grandi città come New York. C’è un pezzo totalmente latino che ho composto grazie alla lettura di un libro di Alessandro Fullin in cui spiccavano delle frasi che pensavo fossero scritte in spagnolo, ma che invece si sono rivelate essere in triestino, che mi hanno colpito. È da lì che ho preso L’amor no bussa, l’amore entra cioè che l’amore non ha bisogno di chiedere permesso, perché quando arriva deflagra ed è impossibile fermarlo. Di Dondolo con te, altro pezzo che potrebbe essere un singolo, è stato tratto un video particolare con delle animazioni, mentre Vecchio Pedro, storico brano del quartetto Cetra, del periodo in cui non c’era ancora Lucia Mannucci, è una canzone spensierata, un po’ sciocchina del dopoguerra, senza velleità intellettuale, che si sentiva in casa mia quando ero bambino: una specie di memoria storica che ho voluto riprendere. Non me la ricordavo tutta, così ho chiesto a mio fratello Paolo cosa gli fosse rimasto in mente e ne è uscita una strofa ulteriore che ha quasi completato il quadretto. Quello che non sono riuscito a recuperare ho cercato di ricostruirlo io. Insomma il disco mi convince, non è stato costruito solo su qualche buona idea, ma ha finito per essere uniformemente di mio gradimento e devo dire che sto ricevendo anche conferme dall’esterno”.
Quando gli dico che Stringimi Forte perderebbe troppo dal vivo senza la presenza del coro Polifonico di Cortemilia che ripete il refrain, mi risponde sornione: “È una specie di scommessa che ho fatto con me stesso, sono abbastanza sicuro che sarà il pubblico stesso a intonarlo. Le poche volte che ho già provato a suggerirlo ha funzionato alla grande”.
Nel corso della sua carriera Giorgio Conte si è anche cimentato con la scrittura di racconti in cui balenano di sovente ricordi di infanzia e di gioventù. Cosa è rimasto di quella memoria nelle canzoni del nuovo disco? “Credo sempre di meno perché i temi nel tempo si esauriscono. Se si esclude Avevo una gran voglia di vederti, che è effettivamente un ricordo affettivo, in questo disco c’è poco altro di autobiografico. Le mie canzoni sono sempre più dei quadretti o forse delle scenette, dei flashback che mi piace raccontare in modo leggero, rifuggendo sempre dalla poesia astratta”.