I vestiti della musica. Non poteva esserci titolo più azzeccato per definire le copertine dei 33 giri. Come un capo di sartoria classica, come la fase finale di un lento rito di vestizione, le copertine hanno rappresentato un elemento ineludibile dell’estetica classica del rock. Impossibile pensare al Sgt. Pepper, al Dark Side floydiano, al debutto dei King Crimson, ai Beatles del 1969 o al Nevermind dei Nirvana senza visualizzare collage floreali, prismi, urla, strisce pedonali o bimbi sott’acqua.
La copertina ha caratterizzato con forza quel microcosmo polisemico che è stato il 33 giri, Paolo Mazzucchelli da tempo ne ha fatto uno spettacolo che finalmente – in un curioso gioco contrario – diventa libro: si tratta di I vestiti della musica. Viaggio fra le meraviglie delle copertine dei dischi (Stampa Alternativa).
La meraviglia è citata nel titolo del libro, che a sua volta è dedicato “alla meraviglia”. Non si può non parlare di copertine, di vestiti della musica, senza rievocare lo stupore, caro Paolo…
La meraviglia… in tutte le sue sfumature, dall’espressione dipinta sui volti di chi assiste ai miei spettacoli a quella dei ragazzi delle scuole che alla fine del mio intervento non vogliono saperne di tornare in classe ma vogliono toccare, vedere da vicino, conoscere le copertine di cui ho parlato loro in precedenza; senza dimenticare lo stupore mio, quello che provo ancora scoprendo un disco che non conoscevo o tastando con mano quanta voglia di cultura, di condivisione di scambio di esperienze ci sia nelle persone che incontro ad ogni replica de I Vestiti della Musica. La meraviglia di potersi ancora meravigliare, uno dei doni più preziosi fra quelli che la Musica ci porge.
Solitamente il libro è il punto di partenza per un percorso “live” che diventa spettacolo. Nel tuo caso invece è capitato il contrario: I vestiti della musica si è materializzato su carta – con inevitabile formato 45 giri – dopo una lunga stagione sul campo con i tuoi show. Cosa accade di solito nei tuoi eventi?
Accade che racconto, con l’aiuto di un centinaio di copertine dalla mia collezione e qualche decina di slide, la storia delle copertine dei dischi, partendo dalla metà del secolo scorso per arrivare sino agli anni ’90. Un racconto fatto di aneddoti, retroscena, spunti di riflessione, il tutto mai scollegato da quel che accadeva nel mondo, nella società, nel mondo giovanile. Gli apprezzamenti che ricevo e il numero di repliche (più di 90) testimoniano di come sia possibile parlare di musica e cultura in maniera leggera ma non superficiale, profonda ma non noiosa, raggiungendo target di pubblico fra i più eterogenei. Un invito a riprendersi il tempo, i ritmi che la musica e l’arte meritano e che questo mondo super veloce ci ha fatto scordare.
La storia del rock è storia di copertine, dai faccioni del divo rock di turno alle più elaborate costruzioni psichedeliche, dai manifesti artistici del progressive alle foto iconiche del post-punk. Oggi in tempi di musica liquida, si è persa la meraviglia?
La risposta può apparire talmente scontata da meritare una riflessione: il progresso tecnologico, le scelte delle major hanno reso musica, informazioni, video talmente accessibili e disponibili da renderci in realtà pigri e sazi allo stesso tempo. Tutta la musica che avremmo mai potuto desiderare è lì, a portata di mano, così facile da raggiungere ma lontanissima da noi. Una sorta di finto benessere che ha tolto innanzitutto la curiosità, il piacere della scoperta, della ricerca, dello scambio di conoscenza, dell’infilarsi in un negozio di dischi come dell’aspettare l’uscita in edicola della propria rivista di settore preferita. Ma l’esperienza de I Vestiti della Musica è lì a dimostrare come la meraviglia sia sempre lì dentro di noi… basta solo stimolarla.
Partiamo dagli albori. Sfogliando il libro si nota un passaggio decisivo dalle copertine del rock ‘n’ roll a quelle del rock in corso di maturazione a metà anni ’60. Che cosa succede in quegli anni? L’industria discografica ha interpretato un’esigenza degli artisti o è stata testimone distaccata di questa avanzata dell’immagine?
Almeno in un primo tempo l’industria discografica si è dovuta adattare alle richieste che provenivano da quegli artisti o gruppi che, alla luce dei milioni di dischi venduti, chiedevano a gran voce di poter dire la loro in termini di scelte sia musicali che grafiche. In un secondo tempo anche le major, come le piccole etichette di jazz negli anni ’50, hanno riconosciuto alla copertine il ruolo di importante elemento di marketing e comunicazione, investendo una quantità crescente di risorse finanziarie e creative.
A mio avviso c’è un momento topico nell’ascesa della cover art, e coincide con il “disco della ripartenza” beatlesiana, ovvero Rubber Soul. Una foto apparentemente semplice e immediata, il cui taglio però allude a contenuti e temi completamente nuovi. È da lì che possiamo cominciare?
La copertina di Rubber Soul, pur essendo ricca di elementi interessanti, nello sviluppo della “cover art” (la fotografia distorta e posizionata in modo inusuale, l’assenza del nome del gruppo, il lettering in puro stile psichedelico) ricopre a mio avviso un ruolo “inferiore” rispetto a di quella di With the Beatles (1963), per la realizzazione della quale i quattro riuscirono ad imporre una fotografia (opera di Robert Freeman come per Rubber Soul) in cui erano ritratti con i visi parzialmente in ombra. Questa scelta, digerita non proprio facilmente dalla casa discografica, si rivelò un autentico sconvolgimento di stereotipi e convenzioni in grado di segnare profondamente, negli anni a seguire, le scelte creative in questo campo. Ma, ancora una volta, mi piace sottolineare come la musica jazz abbia anticipato tutto ciò con esempi quali l’artwork di Undercurrent (1962) di Bill Evans e Jim Hall completamente privo di testo o la prima edizione di Miles Ahead (1957) la cui copertina venne cambiata su espressa richiesta dello stesso Miles Davis che, senza tanti giri di parole, chiese:
«… cosa ci fa quella puttana bianca sulla copertina del mio disco?».
Inevitabile citare nuovamente i Beatles, inevitabile soffermarsi su Sgt. Pepper: probabilmente il punto più alto di congiunzione tra cultura popolare e arte insieme al debutto dei Velvet Underground…
Sgt. Pepper rappresenta in maniera emblematica il piacere, oltre che il desiderio, di “giocare” anche con l’aspetto grafico dei propri lavori; i Beatles la riempirono di personaggi, riferimenti, messaggi quasi a definire ulteriormente quali fossero i loro ambiti artistici, culturali, formativi, quasi non volessero sprecare nemmeno una riga del “foglio” messo loro a disposizione. Questi siamo e in mezzo a questi personaggi viviamo, cresciamo, ci confrontiamo. Inoltre, grazie all’inserto in cartoncino presente nelle prime edizioni, ogni acquirente poteva, grazie ad un paio di forbici ed un po’ di pazienza, ritagliare baffi, mostrine, medaglie diventando anch’egli parte della banda del Sgt. Pepper; noi come i Beatles, i Beatles come noi… semplicemente geniale!
Forse gli esempi più meravigliosi di copertine emergono dalla psichedelia e dal progressive, due correnti che hanno investito molto sulla cover art con presupposti e risultati differenti. Qual è stato il contributo offerto da questi due panorami artistici?
La scena psichedelica ha colto a piene mani l’opportunità di aprirsi a nuove forme espressive ed artistiche, anche in campo grafico; un enorme spazio vuoto da riempire come meglio si credeva, con l’esplosione di colori che ha caratterizzato la maggior parte dei lavori del periodo, sperimentando nuovi approcci fotografici, arricchendo sino all’inverosimile le opere con dettagli, particolari, messaggi più o meno espliciti, inserendo o citando opere d’arte, stili pittorici o architettonici.
Quando il progressive si è affacciato sul panorama musicale la situazione era invece radicalmente diversa visto che le major del disco avevano deciso di investire nella realizzazione di ottime copertine di fatto non ponendo alcun limite alla fantasia di creativi e studi grafici; la grafica di quel periodo risulta quindi ricca, complessa, ricercata, perfettamente in linea con quel genere musicale. Gli anni ’60 hanno aperto la strada, i ’70 l’hanno percorsa a gran velocità.
Se musicalmente il punk abbatte le rockstar grasse e viziose dell’epoca, dal punto di vista grafico c’è ancora un’attenzione al dato visivo, con maggiore risalto al contributo fotografico, basta pensare a Patti Smith o New York Dolls. Cosa ci dici delle copertine dell’epoca punk?
Per comprendere la grafica delle copertine di quel periodo bisogna ricordare che l’economia mondiale aveva appena fatto i conti con la crisi energetica. A causa dell’aumento di prezzi delle materie prime quali petrolio e carta, le major scelsero di ridurre in maniera significativa il budget a disposizione degli studi grafici spingendo di fatto la grafica di quel periodo verso un’essenzialità, un ritorno alla semplicità in linea con lo slogan del punk, quel “Do it!” invito, stimolo a (ri)mettersi in gioco al di là delle capacità e dei mezzi a disposizione. Oltre al “dato visivo” che giustamente citi, io sottolineerei anche il “lato visivo”; gli sguardi di molti dei protagonisti di quelle copertine raccontano più di mille trattati sul tema.
Uno spazio significativo del libro è dedicato alla censura, che si è abbattuta – non solo in Italia: pensiamo alla celebre copertina di Amore e non amore di Battisti – in ogni dove tagliando o modificando copertine controverse. Senza il dito medio dei Moby Grape o l’erezione di Stones e Lou Reed viene meno una filosofia, più che un dettaglio discografico…
Come sottolineo sia nello spettacolo che nel libro, l’argomento censura è un modo interessante per leggere i cambiamenti della società, per sorridere dell’ottusità del potere ma anche per riflettere. Il rock è anche sovversione, provocazione e ciò finisce inevitabilmente (in maniera più o meno velata) a fare i conti col sesso, mettendo a nudo timori, fobie, moralismi che toccano anche i decenni più recenti e le società apparentemente più aperte, permissive. In realtà, nonostante gli sforzi di zelanti censori, la filosofia, il dettaglio, la provocazione una volta “vergati” non spariscono più, un po’ come nella poesia di Bertold Brecht La scritta invincibile.
Tra le copertine degli ultimi vent’anni, all’indomani della rivoluzione grunge, pensi ci siano state opere degne di attenzione e meritevoli della stessa considerazione delle cover storiche?
Le copertine più belle sono quelle che io definisco, con un po’ di pudore, atti d’amore, quelle realizzate col cuore oltre che con le mani, la mente ed il cervello, quelle dove capisci che l’ideatore si è divertito a creare qualcosa di non necessariamente dispendioso ma certamente prezioso ed indimenticabile. Fra gli esempi recenti citerei la versione cartonata di 10.000 days degli statunitensi Tool, con le due lenti “steroscopiche”, incastonate nella custodia, attraverso le quali viaggiare all’interno delle immagini contenute nel libretto, o lo splendido origami che custodisce Quantum, l’ultimo lavoro di GianCarlo Onorato. Sono passati diversi decenni dalle prime copertine intese come noi le conosciamo, sono cambiati i mezzi e le tecnologie a disposizione degli studi grafici, ma la realizzazione di una grande copertina resta ancora legata a parole quali creatività, sogno, libertà.
La copertina ha caratterizzato con forza quel microcosmo polisemico che è stato il 33 giri, Paolo Mazzucchelli da tempo ne ha fatto uno spettacolo che finalmente – in un curioso gioco contrario – diventa libro: si tratta di I vestiti della musica. Viaggio fra le meraviglie delle copertine dei dischi (Stampa Alternativa).
La meraviglia è citata nel titolo del libro, che a sua volta è dedicato “alla meraviglia”. Non si può non parlare di copertine, di vestiti della musica, senza rievocare lo stupore, caro Paolo…
La meraviglia… in tutte le sue sfumature, dall’espressione dipinta sui volti di chi assiste ai miei spettacoli a quella dei ragazzi delle scuole che alla fine del mio intervento non vogliono saperne di tornare in classe ma vogliono toccare, vedere da vicino, conoscere le copertine di cui ho parlato loro in precedenza; senza dimenticare lo stupore mio, quello che provo ancora scoprendo un disco che non conoscevo o tastando con mano quanta voglia di cultura, di condivisione di scambio di esperienze ci sia nelle persone che incontro ad ogni replica de I Vestiti della Musica. La meraviglia di potersi ancora meravigliare, uno dei doni più preziosi fra quelli che la Musica ci porge.
Solitamente il libro è il punto di partenza per un percorso “live” che diventa spettacolo. Nel tuo caso invece è capitato il contrario: I vestiti della musica si è materializzato su carta – con inevitabile formato 45 giri – dopo una lunga stagione sul campo con i tuoi show. Cosa accade di solito nei tuoi eventi?
Accade che racconto, con l’aiuto di un centinaio di copertine dalla mia collezione e qualche decina di slide, la storia delle copertine dei dischi, partendo dalla metà del secolo scorso per arrivare sino agli anni ’90. Un racconto fatto di aneddoti, retroscena, spunti di riflessione, il tutto mai scollegato da quel che accadeva nel mondo, nella società, nel mondo giovanile. Gli apprezzamenti che ricevo e il numero di repliche (più di 90) testimoniano di come sia possibile parlare di musica e cultura in maniera leggera ma non superficiale, profonda ma non noiosa, raggiungendo target di pubblico fra i più eterogenei. Un invito a riprendersi il tempo, i ritmi che la musica e l’arte meritano e che questo mondo super veloce ci ha fatto scordare.
La storia del rock è storia di copertine, dai faccioni del divo rock di turno alle più elaborate costruzioni psichedeliche, dai manifesti artistici del progressive alle foto iconiche del post-punk. Oggi in tempi di musica liquida, si è persa la meraviglia?
La risposta può apparire talmente scontata da meritare una riflessione: il progresso tecnologico, le scelte delle major hanno reso musica, informazioni, video talmente accessibili e disponibili da renderci in realtà pigri e sazi allo stesso tempo. Tutta la musica che avremmo mai potuto desiderare è lì, a portata di mano, così facile da raggiungere ma lontanissima da noi. Una sorta di finto benessere che ha tolto innanzitutto la curiosità, il piacere della scoperta, della ricerca, dello scambio di conoscenza, dell’infilarsi in un negozio di dischi come dell’aspettare l’uscita in edicola della propria rivista di settore preferita. Ma l’esperienza de I Vestiti della Musica è lì a dimostrare come la meraviglia sia sempre lì dentro di noi… basta solo stimolarla.
Partiamo dagli albori. Sfogliando il libro si nota un passaggio decisivo dalle copertine del rock ‘n’ roll a quelle del rock in corso di maturazione a metà anni ’60. Che cosa succede in quegli anni? L’industria discografica ha interpretato un’esigenza degli artisti o è stata testimone distaccata di questa avanzata dell’immagine?
Almeno in un primo tempo l’industria discografica si è dovuta adattare alle richieste che provenivano da quegli artisti o gruppi che, alla luce dei milioni di dischi venduti, chiedevano a gran voce di poter dire la loro in termini di scelte sia musicali che grafiche. In un secondo tempo anche le major, come le piccole etichette di jazz negli anni ’50, hanno riconosciuto alla copertine il ruolo di importante elemento di marketing e comunicazione, investendo una quantità crescente di risorse finanziarie e creative.
A mio avviso c’è un momento topico nell’ascesa della cover art, e coincide con il “disco della ripartenza” beatlesiana, ovvero Rubber Soul. Una foto apparentemente semplice e immediata, il cui taglio però allude a contenuti e temi completamente nuovi. È da lì che possiamo cominciare?
La copertina di Rubber Soul, pur essendo ricca di elementi interessanti, nello sviluppo della “cover art” (la fotografia distorta e posizionata in modo inusuale, l’assenza del nome del gruppo, il lettering in puro stile psichedelico) ricopre a mio avviso un ruolo “inferiore” rispetto a di quella di With the Beatles (1963), per la realizzazione della quale i quattro riuscirono ad imporre una fotografia (opera di Robert Freeman come per Rubber Soul) in cui erano ritratti con i visi parzialmente in ombra. Questa scelta, digerita non proprio facilmente dalla casa discografica, si rivelò un autentico sconvolgimento di stereotipi e convenzioni in grado di segnare profondamente, negli anni a seguire, le scelte creative in questo campo. Ma, ancora una volta, mi piace sottolineare come la musica jazz abbia anticipato tutto ciò con esempi quali l’artwork di Undercurrent (1962) di Bill Evans e Jim Hall completamente privo di testo o la prima edizione di Miles Ahead (1957) la cui copertina venne cambiata su espressa richiesta dello stesso Miles Davis che, senza tanti giri di parole, chiese:
«… cosa ci fa quella puttana bianca sulla copertina del mio disco?».
Inevitabile citare nuovamente i Beatles, inevitabile soffermarsi su Sgt. Pepper: probabilmente il punto più alto di congiunzione tra cultura popolare e arte insieme al debutto dei Velvet Underground…
Sgt. Pepper rappresenta in maniera emblematica il piacere, oltre che il desiderio, di “giocare” anche con l’aspetto grafico dei propri lavori; i Beatles la riempirono di personaggi, riferimenti, messaggi quasi a definire ulteriormente quali fossero i loro ambiti artistici, culturali, formativi, quasi non volessero sprecare nemmeno una riga del “foglio” messo loro a disposizione. Questi siamo e in mezzo a questi personaggi viviamo, cresciamo, ci confrontiamo. Inoltre, grazie all’inserto in cartoncino presente nelle prime edizioni, ogni acquirente poteva, grazie ad un paio di forbici ed un po’ di pazienza, ritagliare baffi, mostrine, medaglie diventando anch’egli parte della banda del Sgt. Pepper; noi come i Beatles, i Beatles come noi… semplicemente geniale!
Forse gli esempi più meravigliosi di copertine emergono dalla psichedelia e dal progressive, due correnti che hanno investito molto sulla cover art con presupposti e risultati differenti. Qual è stato il contributo offerto da questi due panorami artistici?
La scena psichedelica ha colto a piene mani l’opportunità di aprirsi a nuove forme espressive ed artistiche, anche in campo grafico; un enorme spazio vuoto da riempire come meglio si credeva, con l’esplosione di colori che ha caratterizzato la maggior parte dei lavori del periodo, sperimentando nuovi approcci fotografici, arricchendo sino all’inverosimile le opere con dettagli, particolari, messaggi più o meno espliciti, inserendo o citando opere d’arte, stili pittorici o architettonici.
Quando il progressive si è affacciato sul panorama musicale la situazione era invece radicalmente diversa visto che le major del disco avevano deciso di investire nella realizzazione di ottime copertine di fatto non ponendo alcun limite alla fantasia di creativi e studi grafici; la grafica di quel periodo risulta quindi ricca, complessa, ricercata, perfettamente in linea con quel genere musicale. Gli anni ’60 hanno aperto la strada, i ’70 l’hanno percorsa a gran velocità.
Se musicalmente il punk abbatte le rockstar grasse e viziose dell’epoca, dal punto di vista grafico c’è ancora un’attenzione al dato visivo, con maggiore risalto al contributo fotografico, basta pensare a Patti Smith o New York Dolls. Cosa ci dici delle copertine dell’epoca punk?
Per comprendere la grafica delle copertine di quel periodo bisogna ricordare che l’economia mondiale aveva appena fatto i conti con la crisi energetica. A causa dell’aumento di prezzi delle materie prime quali petrolio e carta, le major scelsero di ridurre in maniera significativa il budget a disposizione degli studi grafici spingendo di fatto la grafica di quel periodo verso un’essenzialità, un ritorno alla semplicità in linea con lo slogan del punk, quel “Do it!” invito, stimolo a (ri)mettersi in gioco al di là delle capacità e dei mezzi a disposizione. Oltre al “dato visivo” che giustamente citi, io sottolineerei anche il “lato visivo”; gli sguardi di molti dei protagonisti di quelle copertine raccontano più di mille trattati sul tema.
Uno spazio significativo del libro è dedicato alla censura, che si è abbattuta – non solo in Italia: pensiamo alla celebre copertina di Amore e non amore di Battisti – in ogni dove tagliando o modificando copertine controverse. Senza il dito medio dei Moby Grape o l’erezione di Stones e Lou Reed viene meno una filosofia, più che un dettaglio discografico…
Come sottolineo sia nello spettacolo che nel libro, l’argomento censura è un modo interessante per leggere i cambiamenti della società, per sorridere dell’ottusità del potere ma anche per riflettere. Il rock è anche sovversione, provocazione e ciò finisce inevitabilmente (in maniera più o meno velata) a fare i conti col sesso, mettendo a nudo timori, fobie, moralismi che toccano anche i decenni più recenti e le società apparentemente più aperte, permissive. In realtà, nonostante gli sforzi di zelanti censori, la filosofia, il dettaglio, la provocazione una volta “vergati” non spariscono più, un po’ come nella poesia di Bertold Brecht La scritta invincibile.
Tra le copertine degli ultimi vent’anni, all’indomani della rivoluzione grunge, pensi ci siano state opere degne di attenzione e meritevoli della stessa considerazione delle cover storiche?
Le copertine più belle sono quelle che io definisco, con un po’ di pudore, atti d’amore, quelle realizzate col cuore oltre che con le mani, la mente ed il cervello, quelle dove capisci che l’ideatore si è divertito a creare qualcosa di non necessariamente dispendioso ma certamente prezioso ed indimenticabile. Fra gli esempi recenti citerei la versione cartonata di 10.000 days degli statunitensi Tool, con le due lenti “steroscopiche”, incastonate nella custodia, attraverso le quali viaggiare all’interno delle immagini contenute nel libretto, o lo splendido origami che custodisce Quantum, l’ultimo lavoro di GianCarlo Onorato. Sono passati diversi decenni dalle prime copertine intese come noi le conosciamo, sono cambiati i mezzi e le tecnologie a disposizione degli studi grafici, ma la realizzazione di una grande copertina resta ancora legata a parole quali creatività, sogno, libertà.