I lettori di Jam conoscono a menadito Gypsy Queen e Breezin’, ma non tutti hanno approfondito la vicenda dell’autore del brano portato al successo da Santana, nonché primo interprete della celebre canzone di Bobby Womack sdoganata da George Benson. Si è occupato di rinfrescare la memoria sul grande Gábor Szabó Stefano Orlando Puracchio nel nuovo libro Il jazzista dimenticato (Demian Edizioni). Il giornalista italo-ungherese, autore di testi sul rock progressivo ma anche sul fenomeno web Domenico Bini, ha costruito un libro corale che finalmente approfondisce la vita e l’opera del leggendario chitarrista ungherese. A lui la parola.
L’anno scorso un saggio su Domenico Bini, ora passi a una leggenda della chitarra come Gábor Szabó. Sei una figura schizoide o c’è una linearità in tutto ciò?
Mi hai scoperto! Il “21st Century Schizoid Man” dei King Crimson sono io!
A parte gli scherzi, c’è una sorta di linearità. Con Bini ho desiderato trattare l’argomento prima degli altri per evitare che qualcuno potesse puntare prevalentemente sugli aspetti “pittoreschi” dello YouTuber. Per quanto riguarda Szabó, invece, mi sono rifatto a un vecchio proverbio Klingon, gli alieni guerrieri di Star Trek. C’è un detto – citato nella saga – che dice: “In ultima istanza, solo un klingon può comprendere un klingon”. Sono fermamente convinto che solo una persona che abbia un profondo legame con l’Ungheria sia in grado di spiegare a dei “forestieri” figure come quella di Szabó. Il fatto di essere italoungherese mi ha aiutato non poco a “tradurre” Szabó a un pubblico italiano.
Sinceramente, avevo paura delle amenità che una persona aliena alla cultura magiara avrebbe potuto scrivere. Quindi, sia per Bini che per Szabó, sono voluto arrivare primo solo ed esclusivamente per non leggere cose che mi avrebbero provocato fortissimi bruciori di stomaco. E qualche imprecazione variopinta.
Questo è il primo libro italiano su Szabó. Come ti spieghi la storica assenza di interesse verso di lui?
Non è assenza d’interesse da parte dei potenziali lettori, ma da quella degli editori. Si rischia poco e si tende a massimizzare i profitti. Con proposte editoriali di sicuro incasso. Cosa che provoca un evidente appiattimento culturale. Ci si accartoccia su sé stessi così. Per carità, ci sono ancora delle indomite case editrici “illuminate”. Ma, in generale, si lavora “d’arroccamento” e non d’attacco. Un peccato. In molti, forse troppi, si sono dimenticati di quella vecchia pubblicità che diceva: “Se non giochi, non vinci”. Lasciando il gioco d’azzardo e tornando alla musica, Frank Zappa diceva: “Senza deviare (dalla norma) il progresso non è possibile”. Questa è sicuramente un’uscita editoriale che devia dalla norma. Non potrebbe essere diversamente, per quel che mi riguarda, visto che col “progresso” e il “progressivo” ho una lunga storia d’amore in corso. E, comunque, per quanto abbia “deviato” da sicure logiche commerciali, un buon riscontro preliminare c’è.
Per quale motivo è un jazzista dimenticato?
Szabó è stato dimenticato, nonostante avesse raggiunto il mainstream, per due ragioni. Il primo è che non è riuscito ad avere un fanbase attivo e costante, che ne ha perpetuato la memoria. D’altronde, è noto come gli artisti che hanno avuto la fortuna di avere dei fan fedeli, siano riusciti a “campare” anche quando sono materialmente scomparsi.
Poi ci sono altre ragioni, più specifiche, di cui parlo nel testo. Diciamo che Szabó è stata una figura a volte divisiva. Suo malgrado. Ha estimatori ma, allo stesso tempo, anche detrattori. E qui torniamo al punto di prima: se non hai una base di fan fedele, disposta a combattere per te, vincono i detrattori. A torto, visto che Szabó era un valido artista, ma vincono. Col libro cerco di riequilibrare un po’ le cose, senza però nascondere le criticità.
Szabó è anche una figura chiave per comprendere la musica ungherese del secondo Novecento. Benché sia ascrivibile all’universo jazz, quanto c’è delle sue radici nella musica che ha scritto?
Gábor Szabó è un jazzista ma è, allo stesso tempo, un “figlio musicale” diretto di Bartók e di Kodály. L’essenza di Szabó è la sua “ungheresità”. Il chitarrista magiaro ha amato profondamente la musica jazz. Forse, più di molti quotati jazzisti statunitensi. Tuttavia, nel corso della sua carriera, è dovuto scendere a patti tra la sua anima “ungherese” e il suo amore per il jazz. E, per nostra fortuna, lo ha fatto nel migliore dei modi. Fondendo i due aspetti. Nella maggior parte dei casi, la fusione è stata eccellente. Per il resto era un uomo pure lui. Non si può pretendere che tutte le uscite di un uomo siano perfette. E, anche Szabó, ha fatto i suoi sbagli. Qualche fusione fin troppo ardita è presente nella sua discografia.
A proposito di fusioni. Szabó ha riletto tanti artisti, dai Beatles a Burt Bacharach. In quale ambito credi si sia espresso meglio come interprete?
Personalmente amo molte riletture di Szabó. E bisogna far presente come, sui Beatles, artisticamente parlando, Szabó ci avesse visto giusto. Tuttavia, l’aspetto delle “cover jazz” è, per molti, una delle criticità di Szabó. Se non proprio LA criticità. Molti appassionati (musicisti e ascoltatori) di jazz – che io definisco scherzosamente “i puzzoni” – non hanno mai perdonato al chitarrista ungherese di aver fatto elaborazioni jazz di brani POP(olari) usciti a ridosso dei suoi lavori. Accusano Szabó di aver inseguito “le sirene” della popolarità. Di aver, in sostanza, “flirtato troppo” con la musica commerciale. Senza aspettare che un brano di successo “decantasse” a dovere. Le opinioni, per quanto non condivisibili, sono sempre degne di attenzione e di rispetto. Però… e qui c’è un però grosso come una casa… non puoi puntare il dito su Szabó con questa storia e poi sottacere il fondamentale contributo che Szabó ha portato al jazz. Ovvero, in estrema sintesi, la lezione di Bartók e Kodály. Perché, se lo attacchi per i (presunti) demeriti e non parli dei suoi meriti, non stai facendo una cosa pulita. Non bisogna incensare troppo Szabó. Ma nemmeno scaricarli tonnellate di fango addosso con la storia del pop. Bisogna giudicarlo per quello che è stato realmente. Forse Szabó non è degno di sedersi al tavolo dei grandi del jazz. Al tavolo dei vari Coltrane, Davis, Peterson, Mulligan, per intenderci. Ma è sicuramente presente a quel banchetto. Magari, seduto in un tavolo secondario. A capotavola.
L’America lo ha accolto, formato, lanciato. Szabó è stato prettamente americano o ha conservato qualcosa di est europeo nel suo modo di essere e di suonare?
Oserei dire che gli Stati Uniti lo hanno accolto e lanciato. Sul formato ci andrei cauto. La formazione di Szabó, una volta arrivato negli Stati Uniti, era già di alto livello. Se non fosse stato così, alla prestigiosa Berklee non lo avrebbero mai ammesso. Inoltre, voglio ricordare il fatto che, quando Szabó seguiva il “modello statunitense”, lo stile dei chitarristi statunitensi, non veniva particolarmente apprezzato. Nel bene e nel male, tornando a quanto detto prima, la chiave del suo successo è stata la sua “ungheresità”.
Nel bene perché era chitarrista virtuoso e di talento. Nel male perché, la campagna di marketing che gli hanno cucito addosso per lanciarlo come solista/leader, quella dell’essere “un mago”, “uno stregone della chitarra” o qualcosa di “esotico” per via del suo stile non convenzionale (leggasi: non statunitense), alla fine gli si è ritorta contro. Lui l’ha avallata perché riteneva utile farlo. Per sistemarsi e per garantire condizioni di vita dignitose ai suoi famigliari. Ma è stato, forse, il suo più grave errore. Il sospetto che sia stato visto da molti solo come una “curiosità”, e non come il colto musicista che era, c’è.
Il “caso” Breezin’. Che differenze ci sono tra la sua versione pionieristica del ’71 e quella trionfale di George Benson?
La differenza è una sola: la versione di Szabó – sebbene impeccabile e suonata assieme all’autore legale del brano – non ha avuto tanto successo. La cover di Benson, ha avuto molto successo. Nel libro smonto una “fake news” su questo brano. Alcuni, su internet, dicono che Szabó fosse invidioso del successo di Benson. In realtà non è così. Tanto che i due hanno pure suonato assieme, in seguito.
Inevitabile citare Gypsy Queen. Credi che la cover di Santana abbia fatto bene al suo autore o lo abbia offuscato?
Gypsy Queen è stata la manna dal cielo per Szabó. Gli ha permesso di alzare del danaro coi diritti d’autore. Potrebbe sembrare un discorso “brutto” vedere la cosa sotto l’ottica del profitto. Tuttavia, ricordo una cosa che, a volte, sfugge a molti. Gli artisti non campano d’aria. Gypsy Queen ha dato una mano non indifferente a Szabó per sistemarsi e per poter pensare con maggiore tranquillità alla sua arte. Certo, non lo ha reso ricco. E i diritti d’autore non sono stati sufficienti per aver un “peso” con le case discografiche.
Ora, a prescindere dal discorso economico, Gypsy Queen è un buon pezzo. Non il migliore di Szabó ma è un buon pezzo. Santana, che è stato pesantemente influenzato dallo stile di Szabó, ha deciso di “fare suo” il brano. Che, fuso con Black Magic Woman di Peter Green, ha fatto la storia della musica rock.
Sei per metà ungherese. Cosa ha rappresentato per te confrontarti con un tale gigante?
Ha rappresentato dover combattere per mesi con le accentazioni tipiche della lingua magiara. Un incubo. Infatti, qualche accentazione mi sarà scappata e me ne scuso. Tornando alla domanda iniziale, se qualche svista è capitata a me, non oso immaginare a cosa sarebbe potuto capitare ad altri. Ah, già… niente. Visto che, generalmente, gli autori che hanno parlato di Gábor Szabó hanno scritto il suo nome senza accenti. Ovvero, così come viene riportato sui dischi. Peccato che il suo vero nome era Gábor Szabó. Anzi, Szabó Gábor! In Ungheria si mette tradizionalmente prima il cognome e poi il nome.
Accentazioni a parte, vorrei soffermarmi sul fatto che, giocoforza, per far comprendere ai lettori italiani come, dove e quando il background culturale di Szabó si è formato, sono stato costretto a scrivere una sorta di Bignami della storia ungherese dal 1936 (data di nascita del chitarrista) al 1956 (data in cui Szabó ha riparato negli Stati Uniti). Ne avrei voluto fare volentieri a meno. Tuttavia, essendo la storia ungherese poco nota e complessa, era necessario mostrare a coloro che conoscono poco e niente dell’Ungheria, l’ambiente in cui Szabó è nato e ha vissuto per i suoi primi vent’anni di vita. Certo, avrei potuto tranquillamente cavalcare anch’io l’onda dell’esotico stregone venuto da una terra lontana. Ma non avrei reso un buon servizio alla memoria di un artista di talento che merita di essere ricordato.
L’anno scorso un saggio su Domenico Bini, ora passi a una leggenda della chitarra come Gábor Szabó. Sei una figura schizoide o c’è una linearità in tutto ciò?
Mi hai scoperto! Il “21st Century Schizoid Man” dei King Crimson sono io!
A parte gli scherzi, c’è una sorta di linearità. Con Bini ho desiderato trattare l’argomento prima degli altri per evitare che qualcuno potesse puntare prevalentemente sugli aspetti “pittoreschi” dello YouTuber. Per quanto riguarda Szabó, invece, mi sono rifatto a un vecchio proverbio Klingon, gli alieni guerrieri di Star Trek. C’è un detto – citato nella saga – che dice: “In ultima istanza, solo un klingon può comprendere un klingon”. Sono fermamente convinto che solo una persona che abbia un profondo legame con l’Ungheria sia in grado di spiegare a dei “forestieri” figure come quella di Szabó. Il fatto di essere italoungherese mi ha aiutato non poco a “tradurre” Szabó a un pubblico italiano.
Sinceramente, avevo paura delle amenità che una persona aliena alla cultura magiara avrebbe potuto scrivere. Quindi, sia per Bini che per Szabó, sono voluto arrivare primo solo ed esclusivamente per non leggere cose che mi avrebbero provocato fortissimi bruciori di stomaco. E qualche imprecazione variopinta.
Questo è il primo libro italiano su Szabó. Come ti spieghi la storica assenza di interesse verso di lui?
Non è assenza d’interesse da parte dei potenziali lettori, ma da quella degli editori. Si rischia poco e si tende a massimizzare i profitti. Con proposte editoriali di sicuro incasso. Cosa che provoca un evidente appiattimento culturale. Ci si accartoccia su sé stessi così. Per carità, ci sono ancora delle indomite case editrici “illuminate”. Ma, in generale, si lavora “d’arroccamento” e non d’attacco. Un peccato. In molti, forse troppi, si sono dimenticati di quella vecchia pubblicità che diceva: “Se non giochi, non vinci”. Lasciando il gioco d’azzardo e tornando alla musica, Frank Zappa diceva: “Senza deviare (dalla norma) il progresso non è possibile”. Questa è sicuramente un’uscita editoriale che devia dalla norma. Non potrebbe essere diversamente, per quel che mi riguarda, visto che col “progresso” e il “progressivo” ho una lunga storia d’amore in corso. E, comunque, per quanto abbia “deviato” da sicure logiche commerciali, un buon riscontro preliminare c’è.
Per quale motivo è un jazzista dimenticato?
Szabó è stato dimenticato, nonostante avesse raggiunto il mainstream, per due ragioni. Il primo è che non è riuscito ad avere un fanbase attivo e costante, che ne ha perpetuato la memoria. D’altronde, è noto come gli artisti che hanno avuto la fortuna di avere dei fan fedeli, siano riusciti a “campare” anche quando sono materialmente scomparsi.
Poi ci sono altre ragioni, più specifiche, di cui parlo nel testo. Diciamo che Szabó è stata una figura a volte divisiva. Suo malgrado. Ha estimatori ma, allo stesso tempo, anche detrattori. E qui torniamo al punto di prima: se non hai una base di fan fedele, disposta a combattere per te, vincono i detrattori. A torto, visto che Szabó era un valido artista, ma vincono. Col libro cerco di riequilibrare un po’ le cose, senza però nascondere le criticità.
Szabó è anche una figura chiave per comprendere la musica ungherese del secondo Novecento. Benché sia ascrivibile all’universo jazz, quanto c’è delle sue radici nella musica che ha scritto?
Gábor Szabó è un jazzista ma è, allo stesso tempo, un “figlio musicale” diretto di Bartók e di Kodály. L’essenza di Szabó è la sua “ungheresità”. Il chitarrista magiaro ha amato profondamente la musica jazz. Forse, più di molti quotati jazzisti statunitensi. Tuttavia, nel corso della sua carriera, è dovuto scendere a patti tra la sua anima “ungherese” e il suo amore per il jazz. E, per nostra fortuna, lo ha fatto nel migliore dei modi. Fondendo i due aspetti. Nella maggior parte dei casi, la fusione è stata eccellente. Per il resto era un uomo pure lui. Non si può pretendere che tutte le uscite di un uomo siano perfette. E, anche Szabó, ha fatto i suoi sbagli. Qualche fusione fin troppo ardita è presente nella sua discografia.
A proposito di fusioni. Szabó ha riletto tanti artisti, dai Beatles a Burt Bacharach. In quale ambito credi si sia espresso meglio come interprete?
Personalmente amo molte riletture di Szabó. E bisogna far presente come, sui Beatles, artisticamente parlando, Szabó ci avesse visto giusto. Tuttavia, l’aspetto delle “cover jazz” è, per molti, una delle criticità di Szabó. Se non proprio LA criticità. Molti appassionati (musicisti e ascoltatori) di jazz – che io definisco scherzosamente “i puzzoni” – non hanno mai perdonato al chitarrista ungherese di aver fatto elaborazioni jazz di brani POP(olari) usciti a ridosso dei suoi lavori. Accusano Szabó di aver inseguito “le sirene” della popolarità. Di aver, in sostanza, “flirtato troppo” con la musica commerciale. Senza aspettare che un brano di successo “decantasse” a dovere. Le opinioni, per quanto non condivisibili, sono sempre degne di attenzione e di rispetto. Però… e qui c’è un però grosso come una casa… non puoi puntare il dito su Szabó con questa storia e poi sottacere il fondamentale contributo che Szabó ha portato al jazz. Ovvero, in estrema sintesi, la lezione di Bartók e Kodály. Perché, se lo attacchi per i (presunti) demeriti e non parli dei suoi meriti, non stai facendo una cosa pulita. Non bisogna incensare troppo Szabó. Ma nemmeno scaricarli tonnellate di fango addosso con la storia del pop. Bisogna giudicarlo per quello che è stato realmente. Forse Szabó non è degno di sedersi al tavolo dei grandi del jazz. Al tavolo dei vari Coltrane, Davis, Peterson, Mulligan, per intenderci. Ma è sicuramente presente a quel banchetto. Magari, seduto in un tavolo secondario. A capotavola.
L’America lo ha accolto, formato, lanciato. Szabó è stato prettamente americano o ha conservato qualcosa di est europeo nel suo modo di essere e di suonare?
Oserei dire che gli Stati Uniti lo hanno accolto e lanciato. Sul formato ci andrei cauto. La formazione di Szabó, una volta arrivato negli Stati Uniti, era già di alto livello. Se non fosse stato così, alla prestigiosa Berklee non lo avrebbero mai ammesso. Inoltre, voglio ricordare il fatto che, quando Szabó seguiva il “modello statunitense”, lo stile dei chitarristi statunitensi, non veniva particolarmente apprezzato. Nel bene e nel male, tornando a quanto detto prima, la chiave del suo successo è stata la sua “ungheresità”.
Nel bene perché era chitarrista virtuoso e di talento. Nel male perché, la campagna di marketing che gli hanno cucito addosso per lanciarlo come solista/leader, quella dell’essere “un mago”, “uno stregone della chitarra” o qualcosa di “esotico” per via del suo stile non convenzionale (leggasi: non statunitense), alla fine gli si è ritorta contro. Lui l’ha avallata perché riteneva utile farlo. Per sistemarsi e per garantire condizioni di vita dignitose ai suoi famigliari. Ma è stato, forse, il suo più grave errore. Il sospetto che sia stato visto da molti solo come una “curiosità”, e non come il colto musicista che era, c’è.
Il “caso” Breezin’. Che differenze ci sono tra la sua versione pionieristica del ’71 e quella trionfale di George Benson?
La differenza è una sola: la versione di Szabó – sebbene impeccabile e suonata assieme all’autore legale del brano – non ha avuto tanto successo. La cover di Benson, ha avuto molto successo. Nel libro smonto una “fake news” su questo brano. Alcuni, su internet, dicono che Szabó fosse invidioso del successo di Benson. In realtà non è così. Tanto che i due hanno pure suonato assieme, in seguito.
Inevitabile citare Gypsy Queen. Credi che la cover di Santana abbia fatto bene al suo autore o lo abbia offuscato?
Gypsy Queen è stata la manna dal cielo per Szabó. Gli ha permesso di alzare del danaro coi diritti d’autore. Potrebbe sembrare un discorso “brutto” vedere la cosa sotto l’ottica del profitto. Tuttavia, ricordo una cosa che, a volte, sfugge a molti. Gli artisti non campano d’aria. Gypsy Queen ha dato una mano non indifferente a Szabó per sistemarsi e per poter pensare con maggiore tranquillità alla sua arte. Certo, non lo ha reso ricco. E i diritti d’autore non sono stati sufficienti per aver un “peso” con le case discografiche.
Ora, a prescindere dal discorso economico, Gypsy Queen è un buon pezzo. Non il migliore di Szabó ma è un buon pezzo. Santana, che è stato pesantemente influenzato dallo stile di Szabó, ha deciso di “fare suo” il brano. Che, fuso con Black Magic Woman di Peter Green, ha fatto la storia della musica rock.
Sei per metà ungherese. Cosa ha rappresentato per te confrontarti con un tale gigante?
Ha rappresentato dover combattere per mesi con le accentazioni tipiche della lingua magiara. Un incubo. Infatti, qualche accentazione mi sarà scappata e me ne scuso. Tornando alla domanda iniziale, se qualche svista è capitata a me, non oso immaginare a cosa sarebbe potuto capitare ad altri. Ah, già… niente. Visto che, generalmente, gli autori che hanno parlato di Gábor Szabó hanno scritto il suo nome senza accenti. Ovvero, così come viene riportato sui dischi. Peccato che il suo vero nome era Gábor Szabó. Anzi, Szabó Gábor! In Ungheria si mette tradizionalmente prima il cognome e poi il nome.
Accentazioni a parte, vorrei soffermarmi sul fatto che, giocoforza, per far comprendere ai lettori italiani come, dove e quando il background culturale di Szabó si è formato, sono stato costretto a scrivere una sorta di Bignami della storia ungherese dal 1936 (data di nascita del chitarrista) al 1956 (data in cui Szabó ha riparato negli Stati Uniti). Ne avrei voluto fare volentieri a meno. Tuttavia, essendo la storia ungherese poco nota e complessa, era necessario mostrare a coloro che conoscono poco e niente dell’Ungheria, l’ambiente in cui Szabó è nato e ha vissuto per i suoi primi vent’anni di vita. Certo, avrei potuto tranquillamente cavalcare anch’io l’onda dell’esotico stregone venuto da una terra lontana. Ma non avrei reso un buon servizio alla memoria di un artista di talento che merita di essere ricordato.