02/01/2016

Il magico tour del Sergente Pepe!

Martedì 5 gennaio a Roma un Beatles Show “tridimensionale” e unico nel suo genere, dedicato al 1967
Martedì 5 gennaio 2016 al Teatro Olimpico, in prima nazionale, gli Across The Beatles presenteranno Sgt. Pepper’s Magical Mystery Live. Più che un concerto, un originale spettacolo di rilettura beatlesiana che fonde i due capolavori del 1967, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e Magical Mystery Tour, in uno show che si preannuncia sensazionale. Ne parliamo con il batterista e motore della band, Alberto Maiozzi.
 
Lo scorso maggio avete riproposto Sgt. Pepper in versione integrale, la principale novità del 5 gennaio sarà l’aggiunta di Magical Mystery Tour. Un disco probabilmente meno “mitico” del suo predecessore ma composto da canzoni altrettanto straordinarie…
Quando ci è stato chiesto di replicare lo spettacolo dopo il successo dello scorso maggio, la prima cosa che abbiamo deciso è stata di non ripetere lo stesso show, vista anche la vicinanza con la data precedente. Al tempo stesso, pur essendo il concerto diviso in due tempi, volevamo comunque mantenere una omogeneità di fondo che legasse tutti i brani presenti in scaletta. Pensare a Magical Mystery Tour è stato quasi automatico, sia per il fatto che è stato registrato lo stesso anno di Sgt Pepper’s, sia per la presenza in entrambi gli album di molte sezioni orchestrali. Riguardo alle canzoni di Magical Mystery Tour non posso non concordare con te: si tratta di un disco composto da brani meravigliosi e immaginifici. Come ha dichiarato Paul McCartney, con Sgt Pepper’s era iniziata una nuova fase nella carriera dei Beatles in cui l’obiettivo dei quattro era quello di approcciare la scrittura musicale da un punto di vista più artistico e creativo, pur mantenendosi all’interno della forma canzone. In questo senso alcuni critici musicali all’epoca ritennero Magical Mystery Tour addirittura più riuscito di Sgt. Pepper’s.
 
Va sottolineata la presenza sul palco di molti musicisti oltre agli Across the Beatles: un gruppo di musica tradizionale indiana (diretto da Pejman Tadayon), il quartetto d’archi Sharareh, una sezione ottoni e la tromba solista di Mario Caporilli. Evidentemente per riproporre questo repertorio una rock band nuda e cruda non era affatto sufficiente…
Assolutamente no, del resto i due album furono arrangiati esattamente con quegli strumenti e quindi sarebbe stato impossibile farne a meno in sede live. I musicisti coinvolti, oltre che persone fantastiche, sono tutti professionisti di altissimo livello e creano davvero quel valore aggiunto che è imprescindibile in uno show del genere. Quasi tutti i tributi ai Beatles infatti per sopperire alla mancanza di alcuni strumenti utilizzano basi preregistrate o suoni sintetizzati, e il risultato è spesso scadente.
 
Gli spettacoli dei Musical Box dedicati ai Genesis hanno un forte referente visivo, ovvero i concerti genesisiani degli anni ’70, nel vostro caso invece manca il confronto con il live poichè i Beatles dal 1966 non tennero più concerti. Ipotizzerete cosa avrebbero fatto i Beatles dal vivo o è uno show libero da queste congetture?
Devo ammettere che a volte durante le prove c’è sembrato quasi di vedere davanti a noi Paul e John intenti a discutere su come eseguire i brani dal vivo. In realtà, non avendo come riferimento i concerti dell’epoca, abbiamo deciso di rispettare al massimo quanto si sente su disco: come diciamo spesso, il nostro obiettivo è quello di rendere “tridimensionale” la musica dei Beatles attraverso uno show curato che tocchi il cuore di ogni persona che abbia vissuto o avrebbe desiderato vivere quegli anni.
 
Uno dei motivi per i quali i Beatles si ritirarono dai live era la difficoltà di riproporre quanto realizzato in studio, cosa che invece voi fate allargando l’organico. Col senno di poi, quella preoccupazione era fondata?
Indubbiamente per i Beatles l’abbandono dell’attività live avvenne quasi in contemporanea con l’evoluzione nella scrittura dei brani, ma non si trattò solo di un problema legato al fatto che dal vivo le urla delle fan coprivano il suono degli strumenti impedendo ai musicisti di ascoltare quello che stavano suonando: non dovendo più fare concerti, i Beatles furono finalmente in grado di concentrarsi sul lavoro in studio. Non a caso per realizzare Sgt. Pepper’s rimasero in studio di registrazione per sei mesi.
 
Le tribute band non hanno sempre vita facile, dovendosi confrontare con repertori cari al pubblico oppure assai impegnativi. Quali sono le difficoltà di riprendere un canzoniere amatissimo come quello beatlesiano?
Dal punto di vista musicale, sicuramente la difficoltà più grande con il repertorio dei Beatles sta nel trovare il giusto equilibrio tra le voci. Anche dal punto di vista timbrico è necessaria una grande attenzione perché molto spesso la presenza a livello sonoro di uno strumento in un brano può risultare anomala per quelli che sono i nostri parametri di ascolto attuali, in cui si tende a livellare tutto. Ad esempio in un pezzo come Baby I’m a Rich Man il basso è assolutamente in primo piano, cosa inusuale per l’epoca, tanto che dopo averlo ascoltato molti bassisti di altre band si affrettarono a chiedere ai propri tecnici del suono di ottenere lo stesso tipo di dirompente presenza sonora.
 
Il vostro approccio al rifacimento è guidato dal rigore filologico o preferite prendervi qualche libertà?
Come dicevo, per ora stiamo seguendo la strada dello spettacolo tematico incentrato sull’esecuzione integrale degli album e in questo c’è poco spazio per la libertà dal punto di vista della performance musicale. La libertà però è totale nella scelta del programma: il prossimo album che eseguiremo potrebbe essere uno del primo periodo dei Beatles, come uno degli ultimi.
 
Oltre ai due Lp integrali proporrete anche classici beatlesiani: quali avete scelto e perché?
Posso solo dire che oltre a Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e Magical Mystery Tour ci saranno altre chicche da non perdere… e dare appuntamento a tutti i lettori al Teatro Olimpico il 5 gennaio!
 

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