Il ritmo e l’anima di Peter Gabriel
Alfredo Marziano e Luca Perasi pubblicano un nuovo libro sulle canzoni del celebre musicista inglese
Conosciamo bene la storia di entrambi, giornalisti navigati ed esperti, con specifiche aree di competenza. Quella dell’universo beatlesiano di Luca Perasi, che abbiamo intervistato di recente per il suo Music Is Ideas dedicato a Paul McCartney; quella dell’area classic rock di Alfredo Marziano, che i più attenti ricordano autore, tra gli altri, di un bel libro su Peter Gabriel per Auditorium qualche anno fa. La storia dell’ex Genesis – le sue canzoni, il suo mondo tematico, visivo e sonoro, la sua filosofia – ha fatto incontrare i due autori, che hanno realizzato The Rhythm Has My Soul: The Stories Behind The Songs (Lily Publishing) in inglese; l’edizione italiana sarà disponibile dal 30 aprile. La conversazione che segue è un’anteprima tutta per Jam.
Non poteva esistere un sottotitolo migliore per il vostro libro, che coglie il binomio caro alla musica di Peter Gabriel: ritmo e anima. È da questi due elementi che dobbiamo partire per comprendere un artista così complesso?
LP: Intanto ti svelo un curioso aneddoto. Per molto tempo il libro aveva come titolo solo The Stories Behind the Songs ma ero alla ricerca di un sottotitolo che si legasse al concetto della musica di Gabriel. Ho scandagliato la discografia alla ricerca di qualcosa e questo verso da The Rhythm of the Heat mi sembrava adatto. Piaceva anche ad Alfredo, ma abbiamo comunque stilato una shortlist e l’abbiamo sottoposta ad alcuni fan di lingua anglosassone. Ecco il risultato del sondaggio! Venendo a noi: il ritmo è una componente fondamentale del processo creativo di Gabriel, forse non in via esclusiva ma comunque in percentuale preponderante. Per quanto riguarda “soul”, possiamo interpretare questa parola in vari modi. È la sua anima, spesso messa a nudo nelle sue canzoni senza filtri, ma è anche la sua passione per la musica soul.
AM: Come sappiamo, Gabriel stesso si definisce un batterista mancato e in passato si è anche tolto lo sfizio di sedersi ogni tanto dietro i tamburi, durante i suoi spettacoli. Altrettanto noto è il suo amore per Otis Redding (vederlo in concerto, ha raccontato, è stata per lui una illuminazione) e per i dischi della Tamla Motown. Passioni musicali che nei Genesis erano rimaste in qualche modo sopite e che nella carriera solista sono tornate a galla, fin dai primissimi tour, estendendosi poi a una esplorazione dei ritmi di altri continenti, Africa, Asia, Sud America.
Ai tempi dei Genesis Peter dichiarò che la band si considerava “una cooperativa di compositori”, a voler sottolineare la centralità della canzone nella sua storia. Il libro narra le storie dietro le canzoni: quale punto di vista avete adottato nel ricostruire il canzoniere?
LP: Per comprendere meglio l’approccio che abbiamo utilizzato, bisogna inscrivere questa opera all’interno della collana dell’editore che ho fondato, L.I.L.Y. Publishing, che è dedicata alle storie dietro le canzoni di grandi artisti. Questo volume segue infatti il mio Music Is Ideas su Paul McCartney e adotta una prospettiva storica. Dunque: un grande lavoro di ricerca e raccolta delle fonti primarie (interviste d’epoca, sia tratte dai magazine sia da trasmissioni tv o radiofoniche), poi il (ri)ascolto dei dischi e del materiale raro, e le interviste che abbiamo condotto sia io sia Alfredo con diversi collaboratori di Gabriel. Il libro include una scheda per ogni canzone, nella quale procediamo all’anglosassone, per così dire: lasciando la parola al diretto interessato (Gabriel stesso) e a chi era in studio a realizzare la canzone, per arricchire il tutto con l’analisi delle strutture armoniche dei brani, accenni al significato dei testi, e dare conto di versioni alternative o live dei pezzi. Abbiamo inserito anche una ventina di brani inediti. È un lavoro che mancava: ci voleva questo reference book. La storia della musica e la storia della musica registrata hanno un tremendo bisogno di queste opere. Ne approfitto: il prossimo sarà dedicato a Sting.
AM: Per me è stato un modo di lavorare stimolante e diverso dal solito. I miei libri precedenti avevano tutti un taglio diverso, e così gli articoli che avevo scritto nel corso degli anni. Il “reference book” è un formato con cui non mi ero mai confrontato, e che nel caso di Gabriel mi ha dato grandi soddisfazioni anche grazie alla ricchezza di informazioni di prima mano che abbiamo potuto raccogliere da collaboratori ed ex collaboratori di Peter.
La vicenda solista di Peter parte da una separazione. Finita l’esperienza con i Genesis, ha affrontato una fase di “deserto visivo” per poi ripartire. Cosa ha preso dal gruppo e in cosa si distacca la sua musica?
LP: Di solito quando un artista lascia un gruppo, o comunque quando si verifica una frattura che porta a una separazione, questo accade perché c’è la necessità di esprimere qualcosa che all’interno di quelle dinamiche non riesce ad emergere. Gabriel sfogava tutto sé stesso soprattutto nelle performance da vivo, ma al di là dell’apparato dei costumi c’era un artista e un compositore che aveva bisogno più spazio. Nessuno, all’epoca dell’uscita del suo primo album, sapeva davvero quali fossero le capacità compositive di Peter. Le canzoni sui dischi dei Genesis sono accreditate collettivamente, ma in diversi casi il contributo di Gabriel era solo lirico. Si prende in pratica tre anni per arrivare al suo disco d’esordio, e io credo che quel periodo gli sia servito davvero per capire chi fosse. A giudicare dai risultati, ci è riuscito. Personalmente, vedo una cesura netta tra la sua musica e quella dei Genesis, ma forse è un paragone fuorviante. Qua e là, nei primi due album, troviamo qualche accordo e qualche racconto reminiscenti di quello stile, ma in definitiva io direi che la carriera di Gabriel esplora territori nuovi.
AM: Nel testo e nell’atmosfera di una canzone come Moribund the Burgemeister, che apre il suo primo album solista, sembra sopravvivere in qualche modo il mondo dei Genesis, ma quello stesso disco contiene anche brani come Solsbury Hill, Humdrum e Here Comes the Flood che ne rappresentano un netto distacco. Concordo con Gabriel quando dice di averci messo tre album per trovare definitivamente fiducia in sè stesso come artista solista. Da quel momento il distacco è ancora più netto, sottolineato dalla (per me giusta) decisione di non interpretare più dal vivo brani del vecchio gruppo (come aveva fatto invece, pur limitandosi a un paio di pezzi, nel primo tour del ’77).
Proviamo ad andare oltre i singoli dischi per trovare delle linee guida nella sua discografia. La prima che mi viene in mente riguarda il lavoro di incisione e la ricerca del suono: possiamo considerare Peter un artigiano da studio di registrazione?
LP: Peter lo è certamente, e in questo senso lo paragono a McCartney, anche se Paul è un multistrumentista che spesso e volentieri suona da solo, mentre Peter ama forse più dell’ex-Beatle la collaborazione in studio e compone prevalentemente al pianoforte. Direi che abbiamo due filoni del Gabriel compositore: quello che scrive partendo proprio dalle tastiere e trova melodie in base agli accordi e quello che si appoggia al ritmo. Forse quest’ultimo filone è preponderante (o lo è stato) e in questo senso il titolo del libro credo sia azzeccato. Non lo abbiamo riproposto nella versione italiana che uscirà in aprile e si chiamerà semplicemente Peter Gabriel. Le storie dietro le canzoni solo per non generare confusione. Non è comune pubblicare un volume prima in lingua inglese!
Poi, nel suo canzoniere troviamo davvero di tutto dal punto di vista degli stili musicali. Ballate soffici, soul, un occhio sempre attento alle culture extraeuropee, specie nelle ritmiche, atmosfere epiche o minimaliste. C’è un Gabriel per ognuno di noi. A me colpisce in particolare proprio l’aspetto multiculturale. Se proviamo a fare un elenco degli strumenti etnici che troviamo nei suoi dischi (e che abbiamo riportato tutti quanti nel libro) rimarremmo sbalorditi. In molti casi abbiamo dovuto cercarli per capire di che cosa si trattasse e parlarne con cognizione di causa.
AM: Con la modestia e l’autoironia che lo contraddistinguono, Gabriel dice spesso che il segreto nella vita sta nel circondarsi di persone più intelligenti di te. Magari non sempre più intelligenti, ma sicuramente molto dotate nel loro campo come sono stati i musicisti (uno per tutti: il bassista Tony Levin) e i produttori – Bob Ezrin, Robert Fripp, Steve Lillywhite, Daniel Lanois ecc – di cui si è circondato e che sono stati capaci di tramutare in suoni e in “textures” le atmosfere e le idee che aveva in mente. Da sempre, e non solo nella musica, è un grande sostenitore del confronto, dello scambio, dei think tank e degli incubatori di idee.
Un capitolo importante riguarda i concerti. All’epoca dei Genesis Peter fu l’artefice di un originale e emozionante “rock theatre”, ma anche da solista ha rivolto un’attenzione maniacale allo spettacolo. Quali sono le peculiarità dei suoi stage show?
LP: Gabriel ha una personalità straripante sul palco. Dai suoi show sono spariti i costumi ma si sono fatte largo una serie di trovate spettacolari che hanno reso nel corso degli anni i suoi concerti qualcosa di cui sorprendersi. L’elemento teatrale rimane una componente fondamentale: pensiamo alla cabina telefonica di Come Talk to Me nel 1993-1994, alla Zorb Ball o alle canzoni cantate in bicicletta nel tour 2003-2004.
AM: Anche in questo caso, collaborando con grandi stage director come Robert Lepage, ha alzato il livello dello spettacolo dal vivo e del “teatro musicale”: mi colpisce e mi emoziona il fatto che non sono mai trovate spettacolari fini a sè stesse, ma sempre funzionali al racconto di una storia, all’esposizione di un filo narrativo che alterna sapientemente pathos drammatico e senso dello humour.
Benché ogni canzone abbia una storia e una genesi diversa, un altro perno sono i testi. Dai diritti civili alle relazioni, dall’introspezione psicologica al simbolismo, Peter ha cantato argomenti non di facile presa. Se volessimo fare un paragone con colleghi come, ad esempio, Roger Waters, David Bowie, Bruce Springsteen e Lou Reed, quali sarebbero le tipicità del Peter songwriter?
LP: L’universo delle tematiche di Gabriel è per certi versi sconcertante. Senza dubbio Peter ha una certa fascinazione per soggetti “difficili” o profondi: dalla depressione alla cronaca nera, dalla comunicazione in tutte le sue forme all’isolamento sociale, dal sesso a esperienze spirituali, io direi che Gabriel sa mischiare immaginazione e realtà, vita e morte, alto e basso, spirito e materia, con abilità straordinarie. Il modo in cui, ad esempio, riesce a ritrarre personaggi e/o storie agghiaccianti all’interno di canzoni da tre-quattro minuti (penso a Indigo da Peter Gabriel II, a Lead a Normal Life o Not One of Us da Peter Gabriel III o a Milgram’s 37 da So), ne fanno un autore che lascia una traccia indelebile nel mondo del rock.
AM: Tra quelli che hai citato il più paragonabile a lui, con i dovuti distinguo, mi sembra Bowie: anche Gabriel ha sempre avuto un approccio multidisciplinare che lo induce a tenere gli occhi aperti le orecchie diritte su ciò che accade nel mondo dell’evoluzione tecnologica, della società, dell’arte e delle forme espressive contemporanee. Pensa a quanto sono importanti per lui le immagini, i video, la scultura e la pittura, che anche nell’ultimo I/O diventano parte integrante del progetto.
Inevitabile parlare anche dei videoclip, forse la punta dell’iceberg della sua visione crossmediale. Quanto sono stati importanti nella sua filosofia?
LP: Se diciamo che Gabriel è un visionario, lo possiamo ben dire in senso letterale, perché l’importanza dell’aspetto visuale o visivo è strettamente connesso alla sua musica e a molti suoi progetti. Sin dagli anni Novanta Peter ha visto nella tecnologia dell’epoca (il Cd Rom vi dice qualcosa?) un modo più completo di presentarsi al pubblico. Persino il suo rinomato studio Real World è imperniato su questo concetto, perché musicisti e fonici lavorano nello stesso spazio, si possono guardare in faccia mentre lavorano. Niente separazioni. Anche l’ultimo disco I/O non può prescindere da questo aspetto per essere gustato al meglio, I “Deep Dive Video” che hanno accompagnato le singole canzoni dell’album, proposti per gli iscritti al suo Bandcamp e di cui parliamo diffusamente nel libro, raccontano il lavoro passo dopo passo, e sono fondamentali per capire questo suo recente progetto.
AM: Come sappiamo a Gabriel si deve uno dei videoclip più rivoluzionari della storia, quello creato da Stephen R. Johnson per Sledgehammer con tecniche allora quasi sconosciute. Anche nel suo periodo da pop star, non ha mai considerato i video come dei semplici strumenti promozionali con cui imporre una immagine accattivante e seducente ma come una forma d’arte a se stante che gli permetteva ulteriori esplorazioni del rapporto musica-immagine, con risultati altrettanto esaltanti e stupefacenti in video come quelli realizzati per Shock the Monkey, I Don’t Remember, Kiss That Frog, Digging in the Dirt o Lovetown: i primi che mi vengono in mente e in cui introduce spesso elementi disturbanti e non ordinari nella narrazione.
Le influenze care a Peter sono note, ma un album come Scratch My Back ce lo ha consegnato attento ascoltatore di Radiohead, Magnetic Fields e Elbow. Il sequel And I’ll Scratch Yours ha rivelato anche quanto sia amato da nomi come Bon Iver e Arcade Fire. Per quale motivo Peter è così influente su tanti artisti contemporanei?
LP: Gabriel è giocoforza un punto di riferimento. Perché ha dimostrato di non accontentarsi, perché è fuori dagli schemi, perché va in profondità e guarda le cose a tutto campo. Un musicista che ha avuto l’ardire, come ben sappiamo, di produrre dischi dove la batteria è suonata senza piatti, rivoluzionando in questo senso l’approccio classico all’arrangiamento delle canzoni… be’, solo per questo merita un posto dell’Olimpo della musica rock. Non è facile “vedere” ciò che non c’è. Peter ci riesce.
AM: A me pare anche che quel disco dimostri come – poche eccezioni a parte: mi viene in mente la splendida Biko reinterpretata da Robert Wyatt – Gabriel sia un artista difficilmente “coverizzabile”. Diventa difficile conservare lo spirito, la peculiarità e l’essenza della sua musica, se si tolgono la sua incredibile voce e i suoi inconfondibili “textures”.
A differenza di altri album, ampiamente storicizzati, I/O è ancora fresco. A pochi mesi di distanza dall’uscita che parere avete dato a questo suo decimo album?
LP: A me questo disco piace. Non perché sia il suo migliore, ma perché è il suo album più sereno. Se prima, facendo l’elenco dei temi che Gabriel tratta nelle sue canzoni, ho messo l’accento su quelli più impegnativi, in I/O abbiamo un autore e un musicista che sa ancora guardare avanti ma che sembra aver trovato in qualche modo un approdo. Come ho scritto in una mia recensione: «I/O è un disco pop a tutti gli effetti, fatto di melodie, hook e ritmi, strofe, ritornelli e bridge, polifonia». Essendo io di “scuola” mccartneyiana, si capisce perché trovo questo aspetto molto attraente. Insomma, Gabriel è anche un songwriter. Lo aveva già dimostrato con dischi dal taglio più “commerciale” come So e US, e lo riconferma oggi.
AM: Il mio giudizio è un po’ meno positivo di quello di Luca: I/O mi sembra forse il primo disco in cui Gabriel ricicla in maniera evidente ciò che ha fatto in passato senza introdurre grandi novità o brani dirompenti (come Signal to Noise o Darkness in UP). Mi affascinano i suoni, costruiti strato per strato con la solita, certosina minuzia e alcuni testi, nel loro riflettere con dolente serenità sul trascorrere del tempo, sulla vecchiaia e sulla morte, oltre che per certi, familiari slanci utopici e certe visioni futuristiche. Meno la qualità melodica delle canzoni, a parte certi picchi come Four Kinds of Horses, Love Can Heal o And Still. A questo punto della carriera, lo considero comunque un lavoro dignitoso.
Dopo una carriera così densa e piena di risvolti, è arrivato per lui il momento del pensionamento o pensate abbia ancora qualche obiettivo da raggiungere?
LP: Secondo me con I/O ci ha preso gusto. Io vedo all’orizzonte un Gabriel ancora attivo. Che sia attraverso un nuovo album, altri live o l’apertura dei suoi archivi, ho la sensazione che Peter voglia fare ancora molto. È vero, la sua concezione del tempo è molto dilatata rispetto a quanto la società odierna propone, ma io credo che abbia ragione lui.
AM: Non so rispondere. Stando a quanto trapela dalle sue comunicazioni ufficiali e via social, in effetti, Gabriel sembra desideroso di continuare a essere un musicista. Sta per compiere 74 anni, ma gli esempi di artisti più vecchi di lui che anche nell’ultima fase della carriera – da Bob Dylan e Leonard Cohen, per citarne due – sono stati in grado di scrivere pagine importanti della loro storia dimostra che nulla è precluso. Mi auguro valga anche per Peter ma se così non dovesse essere il suo resterà un lascito artistico ricco e di altissimo livello.