23/02/2015

Intervista a Roberto Jonata

Il pianista vicentino ha pubblicato il suo nuovo album “Infinity”: dipingere l’infinito con i colori della musica
Forse non ci stancheremo mai di notare come a Roma, d’inverno, certe giornate sembrino giungere miracolosamente dall’estate. Solare come la mattinata di largo Argentina, Roberto Jonata è arrivato direttamente da Vicenza per parlarci del suo nuovo album, Infinity, recentemente pubblicato da Velut Luna con la distribuzione di Egea. Pianista vicentino di formazione classica ma dagli ampi orizzonti, negli ultimi tempi ha accompagnato – e continuerà a farlo ancora a lungo – il compositore asturiano Hevia nel suo tour di concerti. Con Infinity, il suo quinto lavoro solista, torna a concentrarsi esclusivamente sul suo strumento, quel pianoforte che probabilmente rappresenta la sua vera voce. In esso, ha raccolto dodici sue composizioni, dodici racconti in musica che sospendono l’ascoltatore in una dimensione “altra”, comunicando sinesteticamente un’immagine visiva attraverso i suoni.
 
Partiamo dal titolo del disco. Si tratta di un album che hai dedicato alla musica stessa. Siccome è impossibile dire cosa sia la musica tout court, qual è il tuo approccio a essa, il tuo metodo per crearla e suonarla?
Ho avuto ottimi insegnanti e loro mi hanno sempre spronato ad ascoltare prima di suonare. Leggere le note, pensarle, e tramite questi ascolti – che dovrebbero essere quanto più vasti possibile – costruire la propria visione della musica. Assorbire i vari stili, nel mio caso, porta a rielaborarli in uno nuovo, personale. Prima ascolto: me stesso, il mondo che mi circonda; solo dopo entra in gioco la composizione che nasce col pensiero. Non provo le melodie al pianoforte, le ho in testa. Poi mi siedo allo strumento e le fisso, ma se sono fuori casa le canticchio, registrandole sul telefonino per non perdere il momento. Può trattarsi anche di piccoli frammenti, magari di due note: le metto da parte, e prima o poi tornano.
 
Ogni brano sembra quasi un’istantanea: “dipingi” tramite il pianoforte. La tua intenzione era proprio quella di creare col tuo strumento delle immagini che venissero rappresentate da un titolo, quello dei brani corrispondenti?
Certo. A partire da Infinity, il titolo stesso della raccolta: la musica è infinita perché è sempre esistita, fin da quella solo percussiva degli uomini primitivi, e si è evoluta con la nostra specie. Ma è infinita anche perché immortale: oggi ascoltiamo ancora Mozart e Beethoven, e così faranno le generazioni future. Persino quando l’universo finirà, le pulsar continueranno a emettere segnali sonori.
Ma l’infinito si esprime anche attraverso le varie forme sotto le quali si presenta, le singole immagini, le singole atmosfere. Dal momento in cui ho iniziato a comporre, mi sono posto come obiettivo proprio il riuscire a raccontare un’immagine, una situazione, un evento, cosicché la musica avesse la possibilità di sottolineare l’importanza di quella singola immagine. Un po’ come negli autori impressionisti: ai tempi del conservatorio, uno dei miei preferiti era Debussy, che nei Preludi descriveva musicalmente, ad esempio, i fuochi d’artificio. Per mio conto, cerco di sdoganare un po’ il pianoforte dalla situazione “sul burrone” che vive oggi: musicisti come Giovanni Allevi, ad esempio, rischiano di valicare il confine della banalità e trasformare questa musica in “musichetta”. Comporre, oggi, è difficile anche per questo motivo. Allo stesso tempo, però, cerco di mantenere un rapporto con autori come Philip Glass, che invece continuano a ricercare. Come dicevo in precedenza, prima penso a un’immagine, poi cerco il modo di comunicarla tramite le note. E non ci sono limiti: sono sempre stato abituato a guardare tanto al mondo classico quanto al jazz e addirittura al pop. Tenere presente tutto questo è il miglior modo per ampliare le proprie possibilità espressive.
 
Ci troviamo di fronte a un mondo in cui la qualità della musica subisce una progressiva svalutazione. Infinity, però, è disponibile sul sito HDtracks, che offre download di brani ad altissima risoluzione. Si tratta di una tua scelta? Te lo chiedo anche perché hai voluto registrare l’album con la massima attenzione per la qualità del suono. E poi: pensi che iniziative come questa possano rappresentare una risposta allo strapotere dello streaming e del famigerato formato mp3?
L’idea di HDtracks viene da Marco Lincetto, il mio discografico, che ricerca una qualità sonora superiore in tutti i lavori che cura. Negli ultimi anni ho avuto l’opportunità di registrare in vari studi, servendomi di diversi pianoforti; a me piace moltissimo lavorare sul suono, scegliere lo strumento da utilizzare e studiare come l’acustica di una stanza influisce su di esso. L’attenzione al particolare è, dunque, massima. Io penso che la musica abbia ancora bisogno di questo; è sbagliato pensare che si possa lavorare in modo approssimativo, perché non educa le persone a pretendere di più dalle possibilità espressive della musica. Negli anni ’60 e ’70 c’era una cura meticolosa per le tecniche di studio e la loro innovazione; sembra che non sia più così, probabilmente anche perché l’ascoltatore stesso non vi presta più la medesima attenzione. Peccato, perché in questo modo non si sfruttano le grandi possibilità tecnologiche che oggi abbiamo a disposizione. Siti come HDtracks sono una grande opportunità, eppure vengono ancora percepiti come riservati a una nicchia. Viviamo in una società di consumismo sfrenato, e ciò si riflette nei gusti e nel mercato musicale.
 
I lavori che escono a tuo nome sono composti esclusivamente di musica “pura”, strumentale, che evidentemente è quella che pensi ti rappresenti maggiormente. Tu, però, lavori anche nel campo della musica applicata: immagini, televisione, cortometraggi… Qual è il tuo approccio a quest’ambito sonoro?
Nel mio caso, il concetto di “applicazione” funziona spesso al contrario: ovvero, capita che altri artisti prendano le mie musiche e ci costruiscano intorno le proprie immagini, proprio perché le mie composizioni, come dicevamo, partono già da un’idea di rappresentazione e quella vogliono comunicare. Certo, avviene anche che l’opera sonora mi venga commissionata, magari da un regista: il procedimento è lo stesso di sempre, solo che in questo caso l’immagine non è nella mia testa, ce l’ho davanti agli occhi. Guardo, penso, cerco di farmi venire in mente quale possa essere il corrispettivo discorso musicale, dando sempre priorità al racconto, a quello che ho di fronte. D’altronde, in questi casi è sempre il regista ad avere l’ultima parola; ma se è lui ad avere grande fiducia nel compositore, quest’ultimo ha senz’altro a disposizione una gamma di possibilità molto più ampia. Nel caso specifico, per Marionetka, il cortometraggio del regista polacco Mariusz Wojtowicz, ho avuto carta bianca: lui mi ha detto solo di volere una musica “circolare”, pensando al mio vecchio pezzo Il volo; perciò ho lavorato sull’idea di ritorno, utilizzando un basso ripetitivo su cui ho costruito il tema del brano. Il risultato, Netka, è stato inserito anche in Infinity perché faceva parte dello stesso momento di ricerca, e la sua essenza rimaneva comunque quella di voler comunicare un messaggio visivo tramite il canale uditivo.
 
Lavori spesso anche nella musica leggera; hai suonato al fianco di artisti del calibro di Antonella Ruggiero e Giò Di Tonno. Come concili questi due mondi?
In modo del tutto naturale: la mia propensione principale è sempre stata per la musica classica, ma fuori dal conservatorio ascoltavo, ad esempio, i Deep Purple e in particolare il loro tastierista Jon Lord, dal quale discende un grande amore per l’organo Hammond e la voglia di suonare in gruppi musicali che si rifacevano a quel rock. Lord era comunque un musicista d’impostazione classica, proprio come me, e tramite il suo insegnamento ho capito come amalgamare le due realtà musicali. Questa mia sensibilità mi ha portato a lavorare spesso e volentieri con artisti di musica leggera; non sono uno di quei musicisti che, anche al di fuori del conservatorio, suonano solo classica, disprezzando tutto il resto. Ne esistono moltissimi e, spesso, non avere quest’apertura mentale li porta a fossilizzarsi, senza progredire nemmeno nel loro stesso ambito. Tanti grandi artisti del passato pescavano nel popolare e lo utilizzavano nelle proprie composizioni: pensiamo a Bartok (autore che Jonata ha interpretato nel suo primo album, Roberto Jonata Plays…, Videoradio Records, 2002, ndr).
 
La tua ultima collaborazione importante, cronologicamente parlando, è quella con Hevia, che ha dato vita ad un bel tour.
Un tour che continuerà a lungo, visto che lui sta attraversando un periodo di ritorno ai fasti di inizio millennio. Ho avuto l’occasione d’incontrarlo e confrontarmi con lui, occasione da cui è nata una reciproca stima professionale. Si tratta di uno di quei personaggi d’alto profilo che più mi ha arricchito, vista soprattutto la sua grande conoscenza della tradizione musicale asturiana.
 
Hai suonato in moltissime date con Hevia; adesso hai intenzione di portare anche la tua musica sul palco?
Senz’altro. In quest’ultimo periodo ho dovuto occuparmi soprattutto della realizzazione del disco e dei relativi spartiti – un lavoro che porta via molte energie e, ovviamente, molto tempo; ho avuto la possibilità di suonare da solo in poche occasioni, ad esempio nella mia città, Vicenza. Per questo nuovo anno, però, si sta cercando di organizzare alcune date. Vorrei portare questo lavoro in giro e farlo conoscere anche attraverso le mie interpretazioni dal vivo.

 
 

 

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