06/10/2016

Ivan Graziani: il primo cantautore rock

Paolo Talanca approfondisce l’unicità dell’artista abruzzese in un testo per Crac
Chi segue percorsi, direzioni e approdi della saggistica sulla canzone d’autore italiana ha ben presenti la preparazione e la serietà di Paolo Talanca. Sia nell’esplorare i territori più noti e battuti del cantautorato italiano, sia nel porre all’attenzione del pubblico l’opera di colleghi “novissimi”, lo scrittore pescarese insiste costantemente sulla natura polimorfica del modulo “canzone d’autore”. Nello specifico, il suo ultimo lavoro con Crac (Ivan Graziani. Il primo Cantautore Rock – 90 pagg., 12 euro) analizza la canzone d’autore rock di Ivan Graziani, esempio più unico che raro nella storia della musica nostrana.
 
Ivan Graziani cantautore rock. Prima che i due elementi fossero uniti dal celebre tour De Andrè+PFM, l’abruzzese li incarnava in una sola persona…
Sì, la tesi principale del libro è questa. Più o meno in quegli anni c’era anche Bennato, ma Graziani lo faceva strutturalmente, da musicista e virtuoso dello strumento, per il quale la musica, l’assolo o l’accompagnamento dei brani venivano dalla creatività di un unico autore: spesso le canzoni venivano fuori dal fatto che Graziani ‘parolasse’ i riff di struttura dei pezzi (cioè li faceva diventare parole, in un tutt’uno inscindibile). Graziani fu il primo perché non era facile a quel tempo (e ancora oggi) trovare un chitarrista con la sua abilità, unita ovviamente a una felice capacità di scrittura delle canzoni.
 
Canzone e rock, ancor prima del citato tour del 1979 di Faber e Premiata, avevano visto un primo, originario connubio in alcuni episodi battistiani, dalla virata zeppeliniana di Insieme a te sto bene al concept in odore di prog Amore e non amore.
Sì, diciamo che la canzone italiana, soprattutto per ciò che riguarda la strada che portava verso l’art-rock, è stata sempre all’altezza della situazione. In genere in quest’ambito si citano a ragione la PFM, il Banco o gli Area, e di certo l’incontro tra la PFM e De André rappresenta l’incontro di due eccellenze espressive; ma si può benissimo restare al nome di Lucio Battisti: un fenomeno assoluto per la padronanza musicale della forma-canzone, per la dialettica tra sorprendente e conosciuto che è la vera sfida della popular music. Anche qui, non credo sia un caso se Battisti comprese immediatamente la grande capacità chitarristica di Graziani e lo volle spesso al suo fianco.
 
La canzone italiana aveva assorbito moltissimo dall’estero, basta pensare alla penetrazione dell’esistenzialismo, all’influenza di Brassens per De André, di Dylan per De Gregori. Ivan a quale estero guarda nei primi tempi?
Per Graziani era di certo più importante ciò che veniva dall’Inghilterra; su tutti i Beatles, soprattutto con gli Anonima Sound, il suo primo vero gruppo. Più avanti glam-rock, di Bowie ma non solo. Questo però è un punto molto importante: Ivan ebbe un apprendistato molto differente rispetto a quello dei cantautori classici. Veniva dalla provincia e i suoi riferimenti se li andava a cercare in musiche anche conosciutissime, come le sigle radiofoniche e televisive degli anni ’50 e ‘60, per farli passare dai polpastrelli, sul manico della chitarra: viveva molto più la musica e l’esecuzione, mentre la canzone d’autore più classica aveva in quel periodo un approccio di certo più intellettuale con i brani, e spesso melodie, accordi e strumentazioni servivano d’appoggio e d’atmosfera per il testo, vero padrone della situazione. Anche da questo viene l’unicità e l’assenza assoluta di omologazione di Ivan Graziani.
 
Prima dell’album di svolta – Ballata per 4 stagioni, 1976 – Ivan aveva pubblicato tre Lp “minori”, in Desperation (1973) addirittura faceva uso dell’inglese. Sono opere rilevanti nella costruzione della canzone d’autore rock o semplici prove giovanili?
Direi che sono opere indicative. Di artisticamente rilevante su tutti gli album bisogna citare La città che io vorrei, dal quale recuperò anche alcuni brani per i dischi successivi. L’unione di canzone d’autore e rock in maniera più strutturata avverrà più avanti, con I lupi del 1977 definitivamente, ma in generale in quei tre dischi c’è di tutto e sono indicativi proprio del fatto che Graziani con essi metteva in chiaro le cose: musicalmente e come approccio alla canzone non era affatto omologato. E lo avrebbe poi dimostrato dalla seconda metà degli anni ‘70 in poi.
 
Con il sesto album Pigro, il capolavoro del 1978, Ivan definisce una volta per tutte la propria personalità artistica. È un disco al quale anche tu dedichi particolare attenzione.
Sì, dici molto bene. Pigro è il nucleo centrale di tre dischi riuscitissimi. Nel libro indico la svolta linguistica – con la quale Ivan inventa letteralmente il rock d’autore – con I lupi. Con Pigro e Agnese, dolce Agnese del 1979 la consapevolezza diventa ancor maggiore. Il brano Pigro, in particolare, è proprio qualcosa di innovativo e diverso rispetto alla canzone d’autore più classica: brano divertente, rock addirittura ballabile, ma soprattutto un pugno allo stomaco di qualunque tipo di omologazione e di ‘pigrizia mentale’.
Ci sono canzoni di Ivan che lo rappresentano molto di più di Firenze o Agnese, che sono le più conosciute: Taglia la testa al gallo, Il topo nel formaggio, Fuoco sulla collina, è di questo tipo di brani che bisogna tener presente se si vuole capire la cifra artistica rivoluzionaria di Ivan Graziani.
 
Ivan e la politica: cantautore-rock impegnato?
Mai. A Ivan la politica proprio non interessava. Interessava il sociale, e nelle sue canzoni ha cantato praticamente ogni vicenda umana del suo periodo. Ma quando le storie della gente diventavano slogan, quando la canzone rischiava di diventare inno strumentalizzato di questa o quella parte, Ivan si smarcava. Sempre. Era di certo un cantautore-rock impegnato: impegnato soprattutto a salvaguardare la sua libertà, a cantare di cose umanamente importanti, perché cantare lo slogan di questo o quell’ideologia avrebbe rappresentato un appiattimento, la stessa pigrizia mentale che lui esorcizzava in Pigro.
 
Per Ivan Teramo fu come Genova, Milano e Roma per i suoi colleghi di quelle città?
Direi di no, anzi fu il contrario. Io credo che l’unicità di Graziani, che come abbiamo visto era unicità sia formale che di contenuti, derivava proprio dal fatto di venire da una piccola città come Teramo. Perché è più facile che la grande città crei omologazione, mentre dai margini – soprattutto a quel tempo, negli anni ‘60 – riuscivi a captare meglio il peso del tempo che passa, l’enorme carica simbolica delle storie minime da restituire musicalmente tramite competenze e gusti che sono davvero i tuoi. Il guaio viene quando l’essere di provincia sfocia in provincialismo: viene fuori la valenza magmatica di certe zone, che ti invischiano e spesso non ti fanno credere in te stesso. Ivan lo canta in Lugano addio, per esempio. Quando nell’esordio da cantautore, con La città che io vorrei, dovrà cantare un luogo desiderato, canterà sempre una città di provincia: Teramo trasfigura in Novafeltria, la città di Anna, la donna amata. Niente, nelle canzoni dei più grandi, succede per caso. Come vedi, comunque, Teramo per Ivan rappresenta qualcosa di completamente diverso delle grandi città dei cantautori classici.
 
Altra peculiarità di Ivan – importante quanto la canzone, benché probabilmente meno nota – fu il disegno. La rock song di Ivan aveva un’evidente “derivazione visiva”.
Certamente, Ivan aveva proprio una capacità evidente di andare avanti per immagini. Ti raccontava la storia tramite bozzetti che si susseguivano, e certamente i suoi studi all’Accademia di Belle arti di Urbino e il suo lavoro da disegnatore c’entrano molto. In particolare, i disegni di Ivan hanno uno stile dinamico: in campo vediamo spesso personaggi grandissimi assieme ad altri piccolissimi; alcuni disegni sono vere e proprie evoluzioni di corpi in movimento: anche lì la stagnazione, la fissità e l’idillio non erano certamente la sua cifra stilistica. Ivan scuoteva, sempre, anche nel disegno.
 
All’indomani di Ivan Graziani (83) e Nove (84) l’elemento rock della canzone di Ivan comincia ad affievolirsi, l’anno seguente porta Franca ti amo a Sanremo: si può parlare di “normalizzazione”?
Più che altro era la casa discografica che gli chiedeva cose più ‘normalizzate’. Gli anni ‘80 furono un periodo difficile per la canzone d’autore italiana. Ivan chiamava ‘impiccioni a pagamento’ quelli della casa discografica che gli dicevano cosa fare e come farlo, come scrivere o non scrivere le canzoni. Se a Ivan togli la libertà artistica, togli tutto. Quel periodo coincide con gli ultimi dischi del contratto con la Numero Uno. Poi passa alla Carosello, da Ivangarage in poi, e si sente che i brani tornano graffianti. Anche la prima partecipazione a Sanremo con Franca ti amo non lo rappresenta. Ma Ivan si prende la sua ‘vendetta’, nel 1994, quando torna al Festival con Maledette malelingue: una denuncia al perbenismo borghese nel posto più perbenista d’Italia, per le canzoni.
 
Tu sei un attento osservatore della canzone d’autore italiana: quale artista pensi abbia preso la strada di Ivan rinnovando la canzone rock?
È difficile da dire. Per fare ciò che ha fatto Ivan devi suonare in maniera egregia e avere capacità di scrittura altrettanto valide. Prendi un artista come Alex Britti: grande chitarrista, ma la sua scrittura di certo non è all’altezza della situazione. No, credo che Ivan rimanga ancora un unicum nella discografia italiana. Sia chiaro: per tutto quello che abbiamo visto, e servendoci della terminologia venuta fuori da quello che abbiamo appena detto, quando parlo di canzoni rock non mi riferisco minimamente al genere di Vasco o Ligabue, che semmai fanno pop-rock, hanno altre peculiarità e altri pregi, sicuramente differenti.

 
 

 

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