14/04/2015

Joel Rafael, il cantore di ballate

Intervista al singer/songwriter californiano per parlare del suo nuovo album “Baladista” e…
“Amo il titolo che ho scelto per il mio nuovo album perché è semplice. È una parola spagnola che significa solamente cantante di ballate o trovatore, ma ha un bel suono, e può essere compresa anche da chi parla diverse lingue. Negli ultimi tre anni inoltre ho viaggiato in Spagna parecchie volte, quindi sembrava davvero il titolo giusto al momento giusto”. È con voce estremamente calma e gentile che Joel Rafael ci racconta al telefono del suo nuovo disco, Baladista. In uscita oggi, 14 aprile, il nono album del singer/songwriter californiano vorrebbe rappresentare una sintesi del suo percorso, un viaggio artistico lungo mezzo secolo.
Ci sta parlando dal suo Ranch di San Diego, il luogo dove ha composto e inciso tutte le tracce di Baladista. “Andare in uno studio sarebbe costato molto”, dice. “D’altro canto, scegliendo di incidere a casa mia, non solo ho risparmiato, ma mi sono anche trovato in un ambiente confortevole e familiare. Amo davvero il luogo nel quale vivo; non riesco a starci molto perché sono spesso in tour, e quando posso lavorare qui sono contento.
Nel corso degli anni sono riuscito a creare uno studio ben attrezzato e sono stato in grado di fare a casa tutto ciò del quale avevo necessità. Essere in un luogo confortevole, dove è piacevole lavorare, trasmette energia e ispirazione e mi ha dato la possibilità di comunicare questa sensazione anche alle altre persone”.
 
Tra i brani di Baladista, un certo spazio è riservato alle ballate amorose. Una delle più belle è Love’s First Lesson, scritta insieme a Jack Tempchin degli Eagles, un vecchio amico di Rafael.
“Il mio primo incontro con Tempchin dev’essere stato durante la primavera del 1972, più o meno lo stesso periodo nel quale ho scoperto Jackson Browne.
Per un breve periodo ho vissuto nel nord ovest a Portland, nella zona delle Cascade Mountains. Quando sono nuovamente sceso in California era da parecchio tempo che non assistevo a un concerto e ho colto l’occasione per andare a sentire uno show di Joni Mitchell a Los Angeles. Prima di lei si è esibito Jackson Browne. Mi sono procurato il suo disco che era appena uscito e pochi mesi dopo, saputo che avrebbe suonato al McCabe’s Guitar Shop, un negozio di chitarre piccolo ma molto conosciuto a Santa Monica dove si tenevano anche dei concerti, ci sono andato con mia moglie.
In apertura suonava Jack Tempchin ed è lì che l’ho incontrato. Giusto un paio di mesi dopo ho scoperto che viveva vicino a me e che organizzava un palco aperto in un altro negozio di chitarre della mia zona. Ho incominciato ad andarci anch’io e a provare lì alcune delle mie canzoni, così siamo diventati amici”.
 
In Oregon, Rafael ci era finito in fuga dalla leva militare quando, negli anni in cui proprio Joni cantava il suo lamento contro gli Stati Uniti colpevoli di aver barattato il violino con i tamburi della guerra, lui aveva invece venduto un fucile per comprarsi una buona chitarra. Partito verso il nord insieme ad artisti, musicisti e altri variopinti personaggi, era poi approdato alla Old Portland Town, dove si era scontrato contro il pregiudizio e l’intolleranza della gente. “È difficile raccontare una storia in una canzone, perché per forza di cose è necessario tralasciare un sacco di dettagli, anche se in questo caso l’intera vicenda non è molto più complessa”, ricorda. “Per farla breve, io e mia moglie abbiamo avuto dei guai mentre eravamo a Portland, nel corso di una grossa retata svolta su tutta la superficie cittadina contro i giovani della controcultura. Alcuni ci chiamavano hippie, ma eravamo solo persone che non volevano conformarsi con quello che la società imponeva in quel periodo, i tardi anni Sessanta. Hanno imprigionato tutti coloro che consideravano sospetti o non conformi, anche senza alcuna accusa. Non riuscivano a capire quello che facevamo, perché ci vestivamo in quel modo, perché i maschi si facevano crescere i capelli e le ragazze li ornavano con dei fiori.
Anche io e mia moglie siamo stati catturati, ma lei è stata rilasciata in fretta. Appena uscita, è andata da tutti gli amici che avevamo in quella zona ed è riuscita a raccogliere i soldi necessari per tirarmi fuori di prigione. Aveva solo 19 anni, ed è una cosa che mi ha sempre stupito; era davvero giovane, ma quando ho avuto bisogno del suo aiuto è stata tanto forte e tanto piena di risorse da sapermi soccorrere”.
 
Bandito dall’Oregon, Rafael torna dunque con la moglie in California, lo stato dove era cresciuto. Qui partecipa alla vita artistica della zona, ma si deve anche confrontare con uno dei problemi sociali maggiormente sentiti da quelle parti, quello dei lavoratori messicani. Due anni fa, all’inaugurazione della Bracero Memorial Highway, tratto di strada dedicato alle vittime dello schianto tra un treno e un autobus pieno di lavoratori messicani avvenuto nel settembre del ’63, Rafael ha suonato in loro onore il brano di Woody Guthrie Deportee (Plane Wreck at Los Gatos), che parla di un’altra tragedia simile. Entrambe vengono ricordate in Baladista con il brano El Bracero. “Sono stato coinvolto e influenzato personalmente nella questione dei lavoratori messicani qui in California, infatti l’area nella quale vivo è solo a quarantacinque o cinquanta miglia dal confine. Qui c’è sempre stata una presenza di lavoratori messicani in cerca di lavoro con un salario onesto, come cantava Guthrie in Going Down The Road (I Ain’t Gonna Be Treated This Way). I messicani invece facevano i lavori più duri con i pagamenti più bassi. La mia è una zona prevalentemente rurale e tutti hanno tratto vantaggio dall’opportunità di sfruttare queste persone, così per più di quarant’anni ho percepito la loro presenza negli Stati Uniti, le varie posizioni e opinioni politiche a riguardo. Ho sentito parlare per la prima volta del programma Bracero, istituito negli Stati Uniti dal 1942 fino al 1964, quando mi sono ritrasferito in quest’area negli anni ’70. Molti in quel periodo sembravano pensare che fosse stata una buona cosa e che riavere di nuovo il programma Bracero potesse calmare l’opinione politica.
Poco più di un anno fa alcuni miei amici della California centrale, Timothy Hernandez e il songwriter Lance Canales, hanno deciso di scoprire i nomi delle vittime ricordate in Deportee (Plane Wreck at Los Gatos), sepolte fino ad allora in un monumento con un’unica scritta: ’28 cittadini messicani sono morti in un incidente aereo vicino al Canyon di Los Gatos’. Attraverso una ricerca sui giornali e le registrazioni nei cimiteri sono riusciti a identificarli, e circa un anno fa gli hanno dedicato una bella lapide a Fresno con tutti i nomi delle vittime e alcuni versi di Deportee. Quando sono andato ad assistere alla cerimonia ho poi conosciuto Juan Martinez, che mi ha raccontato dei suoi sforzi per far sì che la California Us 101 Highway diventasse la Bracero Memorial Highway, e, quando è stata finalmente inaugurata, mi sono esibito suonando Deportee. Grazie a questa esperienza ho imparato di più sul programma Bracero, scoprendo che nel 1942, quando così tanti uomini erano stati chiamati alle armi per combattere la Seconda guerra mondiale, era attivo un grande movimento per portare dei lavoratori messicani in California e in Texas per recuperare la forza lavoro scomparsa. Loro hanno letteralmente fatto crescere il Sud per le truppe, sono stati nostri alleati, quindi i Braceros dovrebbero essere considerati come parte di una grande generazione di quell’epoca”.
 
Tra i diversi folk singer che hanno ispirato Rafael, Woody Guthrie ha rivestito un ruolo di particolare importanza; a lui il californiano ha dedicato numerosi concerti in giro per gli Stati Uniti e da anni si esibisce al Woody Guthrie Folk Festival. In omaggio al singer/songwriter di Okemah, Rafael ha inoltre inciso due album contenenti la rivisitazione dei suoi brani, intitolati Woodeye e Woodyboye, poi confluiti nel 2009 in The Songs Of Woody Guthrie Vol. 1 & 2. Tra i pezzi inclusi nella raccolta, anche cinque canzoni scritte “in collaborazione” dai due.
“Avevo un libro con molto materiale di Guthrie, testi che ero convinto non fossero ancora stati musicati. Ho deciso di scrivere a Nora Guthrie, sua figlia e la responsabile di questo materiale, dicendole che avevo partecipato per molti anni al Woody Guthrie Folk Festival, che conoscevo Arlo e che volevo provare a concludere una di queste canzoni. Lei mi ha risposto che non aveva trovato nessuna partitura associata a questi testi e che quindi mi dava il permesso di pubblicare il pezzo, invitandomi anzi a mettere in musica altri quattro brani.
Sono veramente felice di poter dire che alcune canzoni, come Ramblin’ Reckless Hobo, le ho fatte quasi istantaneamente. Anche Don’t Kill My Baby And My Son è stata inserita in questo songbook”.
 
È stata quest’ultima canzone a fornire indirettamente lo spunto per la splendida Stick And Stones, che narra una vicenda accaduta al singer/songwriter durante il festival dedicato a Guthrie. “Don’t Kill My Baby And My Son è uno dei primi pezzi che ho eseguito al Woody Guthrie Folk Festival. Scritto da Guthrie nel ’40, il brano racconta di un linciaggio avvenuto ad Okemah più o meno nel 1911, l’anno prima che Woody nascesse. Uno sceriffo era stato ucciso mentre cercava di arrestare un uomo di colore, dal figlio adolescente di quest’ultimo. Padre, madre e figli vennero allora messi tutti in prigione. Mentre aspettavano che il giudice passasse dalla cittadina per emettere la sua sentenza, la donna e i figli, che erano stati separati dall’uomo e messi nella stessa cella, vennero presi da una folla che si era radunata fuori dal carcere. La donna e il più grande vennero portati su un ponte e da lì impiccati, il figlio ancora in fasce invece venne lasciato a morire, abbandonato lungo la riva del fiume sottostante.
Per molti anni ho suonato questa canzone e per molti anni ho cercato il ponte per sapere esattamente dove si era svolta la vicenda. Il concerto del quale parlo nella canzone si è tenuto proprio il giorno nel quale sono riuscito a trovarlo. Era una domenica e ciascuno degli artisti presenti doveva eseguire un solo brano, così ho scelto Don’t Kill My Baby And My Son.
Al termine del pezzo, una giovane signorina di colore è venuta da me e mi ha detto ‘grazie per aver cantato quella canzone. C’erano tre persone dietro di me e hanno detto delle cose così dolorose che non riesco nemmeno a ripeterle, ma dopo la tua esibizione è sembrato che tutto tornasse a posto’. Quei tre si sono sentiti insultati, la mia canzone li ha fatti sentire fuori posto e così sono usciti. Ho fatto stare meglio quella donna, come se fossi riuscito a redimere la situazione. Nel Sud rurale non ci sono più la segregazione e le leggi razziali, ma culturalmente i loro strascichi sono ancora presenti, anche se è così praticamente in tutto il nostro Paese, e lei era l’unica persona di colore nel teatro, quel giorno. La cosa mi ha fatto riflettere. Ho pensato al suo coraggio, alla forza che ha dimostrato nel venire in quel teatro perché voleva celebrare con noi Woody Guthrie”.
 
A sorpresa, l’ultima tappa di Baladista è segnata da una cover, il brano 500 Miles di Hedy West. “500 Miles è una delle prime canzoni che ho imparato quando ho cominciato a suonare la chitarra ma non è stata nel mio repertorio per molto tempo. L’ho riscoperta quando mi sono messo a cercare dei vecchi pezzi da eseguire e ho deciso di riproporla. Ho realizzato subito che il brano diceva molto di più di quello che avevo colto all’inizio e che conteneva una bella storia. Ho quindi cominciato a suonarlo e il pubblico ha risposto molto bene, soprattutto le persone più giovani che non l’avevano mai sentito. Quando poi ho cominciato a scrivere i pezzi per il mio album e mi sono reso conto che rappresentavano un viaggio lungo e veramente personale, sono stato sicuro che 500 Miles sarebbe stata la maniera perfetta per concludere l’album, per la sua capacità di catturare le sensazioni di un lungo cammino”.

 
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