13/07/2025

Live Aid: Il suono di un’era. Gli anni Ottanta e il sogno di un mondo migliore

Gabriele Medeot ci parla del suo nuovo libro, edito da Tsunami, dedicato al doppio megaconcerto del 13 luglio 1985

 

È disponibile in libreria e negli store digitali il nuovo libro di Gabriele Medeot, Live Aid: Il suono di un’era. Gli anni Ottanta e il sogno di un mondo migliore (Tsunami Edizioni), un omaggio appassionato e documentato a uno degli eventi più iconici della storia della musica.

Pubblicato in occasione del 40° anniversario del Live Aid – lo storico concerto del 13 luglio 1985 ideato da Bob Geldof e Midge Ure – il volume celebra un evento senza precedenti: oltre 16 ore di musica no-stop, un palco a Londra e uno a Philadelphia, una trasmissione via satellite che raggiunse più del 90% delle televisioni mondiali e un cast stellare con artisti come Paul McCartney, Queen, David Bowie, Led Zeppelin, Madonna, U2 e molti altri.

Con la prefazione di Franco Zanetti, il libro ricostruisce l’impatto storico, culturale ed emotivo del Live Aid intrecciando cronaca, aneddoti e analisi. Un vero e proprio viaggio nel cuore degli anni Ottanta, tra idealismo, impegno sociale e la potenza collettiva della musica.

Gabriele Medeot – musicista professionista da oltre 30 anni e storyteller musicale – presenterà il libro in una serie di appuntamenti in tutta Italia, unendo al racconto degli aneddoti l’esecuzione al pianoforte di alcune celebri cover tratte dal Live Aid, accompagnato dalla voce di Laura Panetta.

Tra gli eventi da segnalare, il 16 luglio alle ore 19:00 Medeot dialogherà con Soulful Jules in occasione del 34° Pordenone Blues & Co Festival, proprio in apertura del concerto dei Boomtown Rats con Bob Geldof. Ingresso libero.

Prossime date di presentazione: 17 luglio – Libreria ItalyPost di Padova, ore 18:30; 18 luglio – Libreria Caffè San Marco di Trieste, ore 18:30; 29 luglio – Piazza Sestriere a Palmanova (UD), ore 18:30.

Gabriele Medeot è musicista, speaker radiofonico e divulgatore culturale. Con oltre 24.000 iscritti al suo canale YouTube, è conosciuto per il suo approccio innovativo alla musica, vissuta come linguaggio interculturale e sociale.

Diplomato in pianoforte con il massimo dei voti e la lode al Conservatorio G. Tartini di Trieste, alterna l’attività concertistica alla progettazione di percorsi educativi e multimediali, anche a livello europeo. Nel 2001 ha fondato Arte&Musica a Monfalcone (GO), centro dedicato alla promozione culturale.

Attualmente è in tour con Women in Rock, uno spettacolo che fonde musica e narrazione, e conduce su Rai Radio 1 Friuli Venezia Giulia il programma La Musica che non c’è. È autore anche dei volumi RockHistory: Suona la storia e Teoria in pratica, entrambi pubblicati da Tsunami Edizioni, per cui dirige la collana di manualistica musicale MEMO.

Abbiamo chiesto direttamente a Gabriele Medeot di parlarci del suo nuovo libro dedicato al Live Aid, ripercorrendo in sua compagnia anche alcuni dei momenti più importanti di quel doppio megaconcerto.

 

Gabriele Medeot
Monfalcone, 29/05/2025 – Gabriele Medeot – Foto Luca A. d’Agostino/Phocus Agency © 2025

 

Partiamo dalla fine: hai già incontrato Bob Geldof o alla presentazione del libro in programma il 16 luglio sarà la prima volta?

Quella sarà la prima volta in cui incontrerò in carne d’ossa questo riferimento umano oltre che artistico. È una cosa molto strana perché, avendone scritto tanto e avendone letto tanto, è come se uno conoscesse un pochino o pensasse di conoscere qualcosa di qualcuno, per cui è molto strana come sensazione, emotivamente molto bella e quindi sono contento di questa importante opportunità.

 

Bene, sempre riguardo alla fine, in questo caso però del libro, sul retro della copertina si legge: “Gli Anni Ottanta hanno cambiato tutto, il Live Aid ha cambiato gli Anni Ottanta”. È una frase che mette in risalto l’importanza dell’evento e spiega che il Live Aid è stato molto di più di quel doppio concerto del 13 luglio in contemporanea a Londra e a Philadelphia di 40 anni fa.

Il Live Aid è un’azione collettiva, è un’azione di esempio, è un punto di riferimento sociale, culturale, prima ancora che artistico e musicale. Io credo che la valenza e la rilevanza del Live Aid, se da un punto di vista popolare ha una portata che ha a che fare con la musica e con la notorietà di quella musica, da un altro punto di vista va analizzato per il suo scopo ultimo, dato proprio dall’idea che c’è alle spalle di quell’iniziativa, dalla volontà di realizzarla e dalla determinazione con la quale quella volontà è stata portata avanti al fine di rendere il tutto in maniera concreta.

 

A questo proposito da Do They Know It’s Christmas?, che fu proprio l’inizio, e anche un po’ da We Are The World, subito dopo, è maturata l’idea di dover fare qualcosa di più di semplici brani registrati da tante star tutte insieme, no?

Certo. Innanzitutto hai detto una frase importante: “fare qualcosa di più”; Sting dice la stessa cosa almeno due volte: ad esempio, quando lo intervistano proprio mentre stanno realizzando Do They Know It’s Christmas?, gli chiedono “perché sei qua?” e lui dice proprio “perché dobbiamo fare qualcosa di più” e poi lo dirà di nuovo anche sul palco del Live Aid. Quindi sicuramente Do They Know It’s Christmas? è la scintilla che accende la miccia, poi quella miccia corre veloce e We Are The World è una risposta… una risposta particolare in quel momento storico, no? Perché arriva sì dalla comunità americana, ma nasce dall’input di Harry Belafonte; è lui che chiama Quincy Jones, che chiama Lionel Richie, che chiama queste persone e dice loro: “Guardate che in Europa l’operazione Band Aid sta funzionando: ci sono dei bianchi che stanno salvando dei neri, dobbiamo fare qualcosa”. E lì scatta l’idea, appunto, di USA For Africa. Poi quelle due canzoni sono un naturale preludio, se così vogliamo, ma quando c’è la registrazione del primo pezzo e anche del secondo, Geldof non ha ancora mai parlato dell’idea, né l’idea stessa si poteva considerare matura… ne parlerà nei primi mesi del 1985 in tour, quando chiede aiuto per cominciare a realizzarla.

 

Un’idea che andava realizzata comunque con un cast di artisti famosi che avessero venduto milioni di dischi nel mondo, giusto? Era pur sempre un evento al quale si voleva dare una portata televisiva importante, trasmettendolo in tutto il mondo.

Sì, la scelta fu “obbligata”, fu voluta e non fu mai messa in discussione da Geldof e questa stessa scelta gli costò diverse accuse. Fu accusato anche di razzismo, perché non c’erano artisti afroamericani di un certo livello o di un certo spessore che accettavano e quindi magari c’erano altre proposte, no? E Stevie Wonder disse: “Non sarò io a raccogliere su di me le colpe di altre persone”, ma proposero gruppi minori che Geldof non voleva per il Live Aid e per questo lo accusarono. Lì ci fu anche una discussione bella violenta da un punto di vista verbale, perché Geldof disse che non gliene importava nulla e ci dovevano essere solo grandi artisti per muovere grandi masse e quindi grandi coscienze.

 

Sempre per rimanere su questo discorso, ci dovevano essere grandi artisti che dovevano suonare “semplicemente” le loro hit più famose.

Esattamente, anche se su questo punto ci sono almeno un paio di di aneddoti curiosi: gli Spandau Ballet ad esempio non fecero True oppure gli U2 non suonarono Pride (In The Name Of Love) e quindi furono considerate occasioni sprecate, ma in realtà non è così, perché poi, questo lo dico spesso, loro sapevano cosa avrebbero potuto o dovuto fare, ma il pubblico no. Il pubblico, soprattutto quello presente lì e quello davanti alla TV, non si è mai soffermato sulla qualità artistica delle performance. Non è stata rilevante quella cosa lì, sono state rilevanti la notorietà degli artisti e l’azione stessa per muovere anche donazioni di un certo tipo.

 

Quella degli U2 che hai appena citato rimane una delle performance migliori e più importanti di quell’evento, per non parlare ovviamente di quella dei Queen, votata come la migliore esibizione del Live Aid. Ci sono però delle performance secondo te sottovalutate o meno ricordate, considerando che magari proprio quella dei Queen ha offuscato un po’ quelle degli altri nella ricostruzione storica che si fa oggi dell’evento a distanza di 40 anni?

Sì, ci sono state una quantità di esibizioni che vale la pena, secondo me, andare a guardare o citare o di cui andare a leggere all’interno del libro. Fra le tante, per me è da segnalare l’esibizione degli Who che non fu memorabile da un punto di vista qualitativo, ma secondo me fu una performance epocale perché si riunirono dopo alcuni anni nei quali Townshend e Daltrey non si parlavano fra loro, eppure il potere della musica può questo e altro e allora il giorno della conferenza stampa Townshend chiamò l’ufficio di Geldof per dirgli che avrebbero partecipato al Live Aid e lo avrebbero fatto come The Who. Sicuramente è stato rilevante quello che fece Phil Collins, usando il Concorde, che rappresentava lo sviluppo tecnologico ai massimi livelli di quel momento, per volare da una parte all’altra dell’oceano e salire su entrambi i palchi del Live Aid, creando quindi contrapposizione e contraddizione con quello che era lo scopo di quell’evento, cioè raccogliere soldi per far arrivare aiuti a 30 milioni di persone che stavano morendo di fame e di sete in un momento in cui potevi prendere quel particolare aereo e attraversare l’oceano in tre ore e mezza. Quindi bisogna leggere lì dietro, secondo me, il senso delle cose.

 

C’è qualche curiosità, aneddoto, storia che hai scoperto e che non conoscevi quando hai fatto le ricerche per questo libro?

Sicuramente ci sono tante storie nel libro e ne ho messe un bel po’ insomma. Una cosa che mi aveva colpito è stata scoprire che il Live Aid, famoso in tutto il mondo per essere andato così in scena il 13 luglio 1985, ha in quella data il piano B, nel senso che doveva svolgersi in un’altra giornata. È interessante anche quello che dissero in tanti riguardo all’aspetto tecnico. C’è Bryan Ferry che non voleva andare a suonare lì perché aveva paura che tecnicamente non fosse sostenibile la cosa, in quanto non ci furono le prove, non ci fu il soundcheck, non ci fu niente, eppure alla fine decise di andarci e, appena cominciò a esibirsi, il batterista bucò la pelle della batteria, poi mancava la corrente, poi non funzionava un microfono e allora il roadie gli portò il secondo microfono e Bryan Ferry non sapeva quale dei due usare, però andò avanti a cantare. Ci sono tante cose e quello che mi ha colpito è stato il fatto di leggere tanti appunti da parte degli artisti su ciò che non ha funzionato, anche se non importa… perché allo stesso tempo tutti dicono che poteva andare meglio, ma se avessero immaginato la portata forse si sarebbero preparati ancora meglio, Status Quo in primis, considerando che aprirono il lungo evento allo Stadio di Wembley.

 

Prima lo accennavi e c’è addirittura un capitolo in cui parli delle accuse di razzismo nei confronti di Bob Geldof, ma il Live Aid non fu anche un evento controverso soprattutto per la successiva gestione delle donazioni?

Sì, credo che controverso potrebbe essere correttamente definito il dopo, l’azione stessa nel durante, nella preparazione, tutto questo no. Credo ci sia stata molta autenticità, molta genuinità, soprattutto da parte di Bob Geldof, di Harvey Goldsmith, di Michael C. Mitchell, di tutti. Dopo, invece, quando è emerso che non tutti i soldi sono finiti in cibo, viveri e acqua sì, ma bisogna anche capire, io di questo ne parlo nel libro, perché: cioè non c’è stata una malafede, una malizia o un’incuria, c’è stata una impossibilità di gestire delle cose perché alcuni di quelli che ricevevano i soldi in Africa e poi li gestivano in maniera diversa, erano gli stessi che tenevano l’Etiopia e il Sudan in in guerra civile, in piena carestia, perché fa comodo: cioè affamare un popolo, tenerlo nell’ignoranza e nella povertà fa comodo a chi dirigeva e a chi dirige un certo tipo di politica. Per questo quei soldi non sono finiti tutti dove dovevano.

 

Del dopo ne hai appena parlato, ma nel tuo libro si parla anche di prima del Live Aid, a testimonianza del fatto che, come dicevamo prima, non è stato solo il doppio concerto del 13 luglio 1985 a Londra e a Philadelphia.

Certo, io credo che sia importante capire il contesto, per quale motivo accadono delle cose, quali sono le conseguenze, qual è l’eredità, quali sono le difficoltà. Siamo tutti bravi a riconoscere quanto bello sia stato il Live Aid dal punto di vista musicale, emotivo ecc… bene, ma perché lo hanno fatto? Per quale motivo Geldof è andato contro tutti i mulini a vento che soffiavano contro di lui? Per quale motivo nel momento in cui Goldsmith gli ha chiesto perché bisogna farlo o quali sono le difficoltà, le risposte di Geldof erano disarmanti e gli diceva: “Perché no? Non è mai stato fatto? Beh, facciamolo”.

 

Nel 2005, vent’anni dopo il Live Aid, ci fu il Live 8. Oggi, quarant’anni dopo, sarebbe stato impossibile replicare un evento del genere?

Nel 2020 io ho organizzato un evento celebrativo per i trentacinque anni del Live Aid con il doppio palco, le performance eccetera, e in quell’occasione era nata proprio la concreta e definitiva idea di arrivare nei successivi cinque anni con un libro il più completo possibile. E quindi all’epoca mi misi in contatto con tanta gente, organizzai un sacco di call, mail eccetera e nel corso degli anni ho scoperto che Geldof non ha mai voluto in qualche maniera autorizzare delle cose, perché non ha mai voluto che quel brand “arricchisse” qualcuno da un punto di vista proprio economico o fosse usato in maniera “impura”, mettiamola così. Ora, per questo quarantennale, in realtà, lo stesso Geldof ha autorizzato una serie di cose, come per esempio il musical di scena a Londra Just for One Day, così come sono di questi giorni una serie di sue interviste ufficiali insieme a Midge Ure o ad altri che hanno contribuito alla realizzazione del Live Aid. Quindi c’è stata una sorta di sdoganamento di quell’evento, per cui, nell’istante in cui avevo capito che lui stesso per primo ne parlava, mi sono sentito autorizzato nel mio piccolo, col massimo rispetto nel farlo, a scrivere questo libro come omaggio nei suoi confronti e di quello che ha fatto.

 

Non so se ce lo puoi anticipare, ma il 16 luglio qual è la prima cosa che chiederai a Bob Geldof quando lo incontrerai?

Una cosa di cui mi piacerebbe discutere è: oggi troveresti il senso, la voglia o lo scopo per un’iniziativa del genere? Non per forza il Live Aid, ma un’iniziativa pensando che questa possa davvero cambiare le cose, perché quando lui ha realizzato l’evento nell’85 era convinto che potesse cambiare le cose. Gli vorrei proprio chiedere: oggi avresti questa stessa convinzione? Ripeto, non dico un concerto, ma qualsiasi cosa… vorrei chiedergli questo: “Avresti la stessa convinzione che con l’arte, con la musica o con qualsiasi altra cosa del genere possiamo davvero provare a cambiare le cose?”

Live Aid: Il suono di un'era. Gli anni Ottanta e il sogno di un mondo migliore - di Gabriele Medeot

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