22/06/2023

Lucio Battisti, Mogol e il nuovo arcobaleno

Gianfranco Salvatore affida a Diarkos la riedizione del suo storico libro

 

Nonostante il silenzio, le scelte controcorrente ancora oggi mai accettate né comprese del tutto, Lucio Battisti resta un fenomeno. Non nel senso di evento sbalorditivo, ma di oggetto degno di approfondimento scientifico e studio analitico. È per questo che esistono una cinquantina di libri su di lui, senza contare magazine, speciali televisivi o radiofonici, eventi di vario genere. Se volessimo selezionare cinque titoli imperdibili per comprendere l’importanza storica del musicista reatino, L’arcobaleno di Gianfranco Salvatore, originariamente pubblicato da Giunti, è uno di questi. Incontriamo il noto musicologo, che di recente ha ripubblicato il libro con Diarkos.

 

Nel 2000, a due anni dalla sua scomparsa, pubblicasti L’arcobaleno. Vera storia di Lucio Battisti. Vissuta da Mogol e da altri che c’erano. Ventitré anni dopo esce la versione “riletta ed editata” del testo. Che effetto ti ha fatto riprenderlo dopo così tanto tempo?

Vi ho riconosciuto una ricerca “sul campo”, non lontana dalla mia produzione etnomusicologica.  Recarsi “sul terreno”, interrogare gli informatori, quelli “che c’erano”: i collaboratori, gli intimi, gli spettatori della vita e del percorso creativo dell’artista. Nello stesso tempo, e lo dichiaro in apertura del libro, ho provato a scriverlo come un romanzo, una riflessione sull’uomo, e non solo sull’artista e la sua opera, come avevo fatto in altri miei interventi precedenti.

 

In questo ultimo ventennio gli studi battistiani sono cresciuti, almeno dal punto di vista quantitativo. Rileggere L’arcobaleno ti ha portato al confronto con i libri pubblicati dal 2000 a oggi o l’impianto era solido?

In Italia, nello studio della popular music, la pubblicistica musicale resta spesso ancorata a criteri compilativi, offrendo sintesi della letteratura precedente, con qualche commento d’autore. C’è un problema annoso e mai risolto, quello della natura delle fonti, con scarsa consapevolezza della loro distinzione in fonti “primarie” e “secondarie”, attinte all’origine o a rielaborazioni precedenti (sono entrambe importanti, ma vanno trattate diversamente, distinte e al tempo stesso coordinate criticamente). Tutto, specie in campo biografico, mi sembra orientato al florilegio degli aneddoti, che detesto, o all’affermazione apodittica, con intenti celebrativi. Perciò la domanda, per me, non ha senso. Il mio libro dichiara esattamente fin dal titolo l’oggetto e il metodo, come ci si dovrebbe aspettare da qualsiasi ricerca. Ed è, nello specifico, la ricerca su una tradizione orale, privatamente circolante in un determinato campo: uno dei molti approcci possibili. Un altro approccio, piuttosto frequentato in questi ultimi anni, sta nelle autobiografie di artisti e personaggi che sono stati vicini a Battisti. Ma sono, appunto, autobiografie, dove Battisti è uno dei personaggi di contorno.

 

Il libro è una storia “vera”, come recita il titolo. Vera perché raccontata da Mogol che è stato protagonista, più che testimone, e rafforzata da chi c’era. Rapetti all’epoca era ancora nel pieno del lutto per la morte del suo partner artistico: ci furono aspetti o argomenti che preferì evitare?

Giulio (Mogol) è un personaggio fuori dal comune, e quando parla, dichiara, racconta, sta sempre seguendo il filo del suo pensiero del momento, del principio etico dominante in quel determinato periodo della sua vita. Il suo è sempre un racconto in prima persona, estremamente soggettivo, mutevole, circostanziale. Ma per L’arcobaleno fece qualcosa di speciale e di insolito: semplicemente, mi affidò ai testimoni dell’epoca. A cui chiese di sciogliere una riserva, una specie di patto che si erano giurati a vicenda: non rivelare mai il “vero” Battisti, quello con cui avevano convissuto, all’opinione pubblica, alla stampa, ai curiosi. Mogol fece per me da “garante”, con loro. È stato questo il suo principale ruolo, nella raccolta del materiale orale che poi ha costituito il libro. Nel libro ho conservato perfino il loro lessico, la loro narratività personale. Tutto il resto, sullo sfondo, sta nella mia ricostruzione dei contesti: il rapporto tra testi (anche orali) e contesti è un’altra cosa che spesso manca alla pubblicistica “pop”.

 

Gli altri che c’erano furono in modo particolare alcune figure molto vicine a Lucio che però non vediamo quasi mai negli eventi di commemorazione, mi riferisco a Franco Daldello, Antonio Coni e Antonella Camera. Nomi che diranno poco ai più, ma che in realtà furono figure decisive per la crescita della popolarità battistiana. Che ricordo hai di questi testimoni?

In realtà sono stati fondamentali anche i fratelli Montalbetti: Pietruccio, prima che scrivesse la sua propria “autobiografia battistiana”, e Caesar Monti, che rimpiango fortemente. Una voce critica, a dissenso, rispetto a tutto, perfino rispetto a Mogol. Oggi l’opera di Cesare, come artista e come “coscienza critica” dell’entourage battistiano, andrebbe studiata a sua volta. La sua presenza nel libro, caldeggiata dallo stesso Mogol, è la prova che non si tratta di un’operazione “mogoliana”. Chi lo pensa – avendo forse solo sfogliato il libro – è semplicemente uno stupido.

 

Nel 1997, un anno prima della sua morte, ti eri già interessato a Battisti con un lavoro cruciale per Castelvecchi: Mogol-Battisti – L’alchimia del verso cantato. Arte e linguaggio della canzone moderna. Probabilmente si è trattato del primo studio analitico del canzoniere mogolbattistiano, sfrondato da aneddoti, gossip e superficialità varie. Oggi è più “accettabile” che la musica leggera sia affrontata sotto la lente della musicologia, ma all’epoca fu una bella sfida…

Era quella, venticinque anni fa, la mia idea di metodologia critica: la consapevolezza delle forme, i meccanismi di produzione del senso, l’analisi di quanto è oggettivabile nel processo creativo e interpretativo degli artisti (che in parte, comunque, resta imperscrutabile: alchimia, un po’ scienza e un po’ magia…). L’idea ebbe fortuna, il libro – scritto per i miei allievi dell’Accademia della Critica – è stato adottato in molte scuole e perfino “imitato” applicandone l’approccio alla produzione di altri artisti. Lo ristamperà a fine anno Mimesis, con alcune nuove appendici.

 

Mi ha colpito molto, in entrambi i tuoi libri, il modo con cui hai affrontato Battisti, a mio avviso vincente. Non esiste un Battisti, ma “tanti” Lucio: quello soul, quello psichedelico, quello disco/funk, quello elettronico. E non solo: è stato anche chitarrista, produttore, insomma un musicista a tutto tondo, tanto istintivo quanto completo. È stato una figura isolata nella storia della musica nostrana?

È stato una figura a tutto tondo, tra tante figurine e figurelle.

 

Proviamo a individuare alcune fasi chiave della sua produzione. Dopo la nidiata di primi singoli, che servono sia a far conoscere il giovane Lucio che a dargli un’iniezione di fiducia, arrivano pezzi capitali come Mi ritorni in mente e Fiori rosa fiori di pesco. Tra 1969 e 1970 Battisti definisce la sua poetica R&B all’italiana: quali sono stati gli ingredienti principali di quella ricetta?

Provo a ribaltare la domanda: la sua principale innovazione stava nel giustapporre (non semplicemente mescolare) i generi, anche sul piano formale. Le sue principali canzoni dell’epoca sono multistilistiche, con sconcertanti differenze “di genere”, ad esempio, tra strofe e ritornelli. E l’altra caratteristica forte (già sperimentata da Bacharach e dai Beatles) era quella di rompere le regolarità e le simmetrie strofiche: è questa procedura a dare spesso un impatto “drammaturgico” a molte sue canzoni, un effetto perfettamente percepibile anche dagli ascoltatori più istintivi. Ed è un altro aspetto della sua alchimia: il lavoro sulla materia, la sua inusuale trasformazione.

 

Gli anni ’70 di Battisti sono l’era dei grandi album. La coppia si esprime in modo compiuto nella lunga durata del 33 giri, insomma i due elaborano di volta in volta un discorso compiuto, come accadeva all’estero, ad esempio, per Pink Floyd, David Bowie e Led Zeppelin. Il Battisti dell’epoca riusciva a essere competitivo con gli artisti stranieri?

Per me la domanda non ha senso. Ma hai fatto bene a porla.

 

E se restiamo sul tema italianità e sul flop di Images, pensi che Battisti fosse realmente vendibile all’estero?

Questo genere di “vendibilità” dipende da tanti fattori eterogenei, che per giunta cambiano nel tempo. In merito all’“italianità” di Battisti, penso che questo sia un tema importante, poco frequentato, da tenere in considerazione.

 

Il libro inevitabilmente dà maggiore spazio alla produzione con Mogol, ma Battisti è stato anche autore di album enigmatici, di rottura, che col passare del tempo hanno acquisito un gusto speciale. Qual è, col senno di poi, la tua valutazione dei dischi bianchi?

È un altro Battisti, che personalmente adoro. È la dimostrazione della sua capacità di ribaltare perfino i princìpi che lui stesso si era imposto nella prima parte della sua carriera. È il frutto di una riflessione critica, e credo anche amara, sul concetto di “comunicazione col pubblico”: l’ultimo Battisti bastava a sé stesso, senza mediazioni. Ed era una scelta meditata, consapevole.

 

Secondo te Lucio Battisti è stato affrontato in modo corretto ed esaustivo o la letteratura in materia deve ancora colmare delle lacune?

Secondo me su Battisti si è scritto molto e si è detto poco. Resta un artista misterioso e controverso, in tutte le sue fasi creative. La sua ricchezza sta anche in questo.

Lucio Battisti libro Salvatore

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!