02/07/2015

Maka: Simone Agostini e le sue chitarre

Il secondo album del giovane chitarrista tra world music e fingerpicking
Rispetto alle torrenziali e inesauribili cascate di note alle quali ci hanno abituato tanti chitarristi, Simone Agostini preferisce due cose. La prima è la misura, un’idea signorile e raffinata di guitar playing, probabilmente l’elemento più significativo del nuovo album Maka. La seconda è una certa eterogeneità di fondo, dalla world music al fingerpicking virtuoso, che fortunatamente non tradisce crisi di ispirazione o voglia di stupire a tutti i costi. Anzi, con Agostini ciò che si vede – rectius: ciò che si sente… – è. Interroghiamo il giovane chitarrista romano-abruzzese.
 
Un disco composto da un nucleo forte di elementi ma anche da connessioni simboliche. Ad esempio il titolo Maka e l’immagine “geometrica” di copertina…
Maka, la Terra, è il tema conduttore dell’intero disco, un tema sviluppato delle volte attraverso riferimenti musicali diretti ed altre volte attraverso riferimenti più concettuali ed indiretti. È un viaggio nello spazio e nel tempo che inizia dal cuore del Mediterraneo e si conclude con un ultimo sguardo del pianeta dallo spazio. La copertina realizzata ed ideata da Francesco Colafella rappresenta il simbolo alchemico della terra, un modo semplice ed allo stesso tempo molto efficace per sintetizzare il significato di questo disco.
 
I primi tre pezzi sintetizzano l’orientamento del disco: folk dal sapore levantino, ballate dal respiro meditativo, avventure sulla tastiera. Un album a tre anime?
Il richiamo alla terra, come dicevo, è espresso diversamente nel susseguirsi delle tracce. Il bouzouki greco e il flauto dei nativi americani ad esempio permettono di richiamare all’immaginazione certi luoghi in modo immediato. In altri casi invece, la terra è solo l’oggetto della narrativa musicale.
“The purring of the warm, happy world” ad esempio è una citazione dei Libri della Giungla di  Kipling. È una descrizione della primavera nella giungla indiana, ma riferimenti a musica e suoni dell’India sono evidentemente assenti. Quella che è descritta è piuttosto la sensazione di beatitudine espressa dalla frase “le fusa del caldo e felice mondo”. Into the wind invece non descrive un luogo specifico della terra, ma uno dei suoi elementi, il vento e la sua energia.
Dunque pur ruotando tutto attorno ad uno stesso concetto, di volta in volta lo stile e i riferimenti cambiano. In questo senso i primi 3 brani evidenziano immediatamente questo aspetto offrendo tre stili musicali sostanzialmente differenti.
 
Che differenze ci sono tra Maka e il tuo album d’esordio?
Direi che Maka é la naturale evoluzione di Green. In Green erano già presenti riferimenti al mondo come in Dialogues, El llanto de Luna e l’Enchantement du Phare.
Probabilmente la differenza principale che percepisco è nello spirito: più sbarazzino e frizzante in Green, più consapevole in Maka. In fondo, il primo la definirei quasi una raccolta di composizioni scritte tra il 2000 ed il 2009. Maka è un disco che nasce sin dal primo pezzo con una consapevolezza diversa, una maggiore unitarietà di intento. Probabilmente il sound di Maka è a tratti più moderno. Brani come A25 (in Green) hanno circa 15 anni, Into the wind rappresenta stilisticamente la sua versione più attuale.
Ho avuto la fortuna di poter comporre senza alcun tipo di vincolo, di poter seguire di volta in volta il mio istinto. Direi quindi che Green e Maka sono una buona rappresentazione di quello che sono io, della strada percorsa, dei luoghi e delle persone incontrate lungo di essa.
 
Quello che ascoltiamo in Maka è il frutto di un lungo processo produttivo o di una session “cotta e suonata”?
Quello che ascoltiamo in Maka é un processo che ha impiegato cinque lunghi anni in cui i brani sono stati composti, selezionati, rifiniti, modificati, talora testati dal vivo ed infine registrati.
Anche se la mia scrittura è spesso molto semplice ed immediata, come dicevo prima, in Maka c’è molta consapevolezza e poco è lasciato al caso. Inoltre l’intero processo è stato progettato, condiviso e sviluppato col supporto preziosissimo di Paolo Tocco di Protosound. Tuttavia c’è un eccezione: Ina Maka. Questo brano è stato composto e registrato in studio in una sera.
 
Parlavi di Paolo Tocco, attivo cantautore e producer, tuo sparring partner in Maka. Qual è stato il suo ruolo?
Paolo prima di tutto è un amico, e posso testimoniare che quando c’è stima, intelligenza e professionalità trovarsi ad affrontare la realizzazione di un disco con un amico è la più grande fortuna che possa capitare. Paolo ha la grande capacità di saper mantenere tutta la professionalità che il suo mestiere gli impone congiuntamente a tanta leggerezza. E vi assicuro che prima dopo e durante sette ore ininterrotte di lavoro in studio questo può fare la differenza. E poi Paolo è un sognatore, per cui un disco come Maka si è incontrato perfettamente con il suo modo d’essere, a tratti sembrava quasi che ci si ritrovasse più lui di me.
Inutile dire dunque che in Maka il ruolo di Paolo è stato fondamentale. Già pochi mesi dopo l’uscita di Green abbiamo iniziato a progettare assieme questo nuovo disco. Con Paolo ho condiviso passo passo ogni idea e in studio quando le composizioni portavano a dover affrontare delle scelte, abbiamo materialmente discusso e scelto assieme come procedere, inoltre se Maka suona come suona è merito di Paolo e della sua filosofia di produzione.
Nonostante il modo con cui si fruisce la musica sia radicalmente cambiato negli ultimi tempi, Paolo ha preferito restare fuori dagli schemi produttivi che vogliono suoni iper-compressi con dinamiche spesso appiattite. E condivido pienamente la scelta. Le possibilità di arrangiamento in un disco prevalentemente di chitarra sono molto limitate in termini di “paletta sonora” per cui la dinamica esecutiva ha un ruolo fondamentale e questa va esaltata, non amputata. Se si ascolta il CD di Maka su un impianto di buona qualità si percepisce quanto prezioso e curato sia stato il lavoro di produzione di questo disco.
Non finisce qui, alla regia di Paolo è affidato il primo dei due video usciti (Outer Space) ed ovviamente tutta la comunicazione e la promozione.
 
Tre strumenti a corde caratterizzano la tracklist. In primis la tua Lowden F35, poi una Larriveé F03, infine un bel bouzouki Musicalia 903. Ci parli di questi tre compagni di viaggio?
Molto volentieri. Inizierei col presentarvi “Maia”, la mia Larriveé L03. Si tratta di una chitarra acustica con fondo e fasce in mogano e tavola in abete. È la più “anziana” tra i tre strumenti, quella che mi ha praticamente accompagnato in tutte le esperienze più importanti che ho vissuto e quindi quella a cui sono emotivamente più legato. È uno strumento frizzante, leggero, dal suono brillante. È lo strumento con cui è stato interamente registrato Green.
In Maka ho scelto di usare Maia in Spring Dance che caratterialmente è il brano che più richiama lo spirito di Green e in The race, un brano in cui ci piaceva l’idea di uno strumento leggero. È inoltre Maia lo strumento presente nella Ghost Track.
Poi c’è Mrs Lowden, una Lowden F35 con fondo e fasce in cocobolo e tavola in adirondack. Lei è arrivata nel 2010. Si tratta di uno strumento dal carattere completamente opposto a Maia. Ha un ampio sustain, grande volume, timbro più corposo. È uno strumento più impegnativo ad essere suonato ma con potenzialità espressive assolutamente sconfinate. Lei è presente in tutti gli altri brani di Maka, e personalmente mi piace molto il suono di questa chitarra una volta registrata.
Infine il Bouzouki Musicalia che è arrivato nel 2009. È uno strumento con un timbro meraviglioso che ha la capacità di evocare immediatamente il Mediterraneo. Con questo strumento penso di avere ancora molto da lavorare, ma durante i concerti già riscuote molto successo ed è un ottimo espediente per rendere più ricco e vario lo spettacolo.    
 
A proposito di bouzouki, l’elemento “world” è ben presente nella tua musica. È una semplice curiosità culturale o hai compiuto viaggi di studio nella musica tradizionale?
Sì, adoro la musica world, ha il potere di portarti in giro per il mondo, di mettere in moto l’immaginazione. In questi anni ho studiato alcune cose, mi sono documentato molto e soprattutto mi sono nutrito di suoni. Ma gli elementi world presenti in Maka non provengono da studi mirati, penso siano semplicemente frutto di ciò che ho interiorizzato. Tutti gli elementi world sono filtrati e rimescolati con quello che è il mio modo di essere e di suonare.
 
Puoi illustrarci anche le tue scelte in fatto di accordature?
Il discorso accordature in Maka è molto semplificato rispetto a come era in Green. Praticamente in tutti i brani la chitarra è accordata in DADGAD eccetto che in Outer Space (in cui uso l’accordatura standard), in Ina Maka e Sliding rattlesnake (in cui uso due accordature leggermente diverse dalla DADGAD).
In questo Maka si differenzia molto da Green in cui erano presenti ben sei differenti accordature. Ho preferito focalizzare su una sola accordatura, svilupparla, conoscerla meglio, lasciare che il processo compositivo fosse guidato in minor parte dalla scelta di una determinata accordatura e fosse più indipendente da essa.  Questo poi ha anche dei risvolti positivi per la dinamica di un concerto in cui cambiare accordatura per ogni brano delle volte può diventare veramente tediante per me e per il pubblico soprattutto. Maka suona prevalentemente in DADGAD che è una delle accordature più diffuse soprattutto nel folk di matrice celtica. È l’accordatura di Pierre Bensusan. È l’accordatura di brani fingerstyle celebri come Ragamaffin di Michael Hedges. A corde libere suona come un Re sus4, ha uno spirto indefinito, lontano, mistico… di tutti i brani penso che lo spirito dell’accordatura si percepisca molto in God Rest ye Merry Gentlemen.
Un curiosità finale: Into the wind è stata composta in DADGAD ma è stata incisa con l’accordatura un mezzo tono più basso.
 
Mi ha colpito molto The Race, un breve ma riuscito blitz in quelle sonorità taglienti e concentriche alla Forastiere o Dominic Frasca.
The Race, Mediterranea e Outer Space sono i primi pezzi composti nel periodo dopo Green. Sin dall’inizio Maka ha iniziato a svilupparsi lungo percorsi differenti. In The Race c’è una esplicita ricerca di un sound più moderno, più ritmico, più accattivante. Personalmente lo trovo il pezzo più disomogeneo tra tutti, nel senso che quasi viene a perdersi il filo conduttore del disco in questo brano. Ma preso singolarmente il brano funziona, racconta bene quella che può essere una gara, magari di cavalli al galoppo, liberi. E risulta tecnicamente interessante.
 
Outer Space, lasciata credo volutamente come ultima traccia, sembra voler esplorare qualche territorio nuovo…
Outer Space nasce evidentemente prima di tutto come esperimento tecnico, infatti è eseguita usando un e-bow (archetto elettronico) in accompagnamento al tema che si sviluppa sulle note basse. È interessante il sound che ne viene fuori, il tradizionale timbro della chitarra si mescola con quello siderale dell’e-bow, ed interessante tecnicamente perché il brano è scritto per essere eseguito senza sovraincisioni e per poter sviluppare accompagnamento di e-bow e melodia “pizzicata” in contemporanea. Ovviamente in fase di registrazione abbiamo lavorato differentemente, ma vi posso garantire che live il brano suona pressappoco allo stesso modo, fa eccezione probabilmente il finale.
Inoltre l’e-bow nasce per  essere suonato su una chitarra elettrica, con pickup magnetici. L’uso su una chitarra acustica microfonata genera quindi un suono completamente differente, molto più pulito e molto interessante.
Figurativamente Outer Space penso racchiuda un significato forte, infatti la chitarra, che in questo brano rappresenta la terra, man mano scompare e lo spazio intersiderale si fa via via sovrastante. Mi sembrava la conclusione perfetta per questo viaggio.
 

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