«Sono molto legato a questo posto. Qui avevamo fatto qualche anno fa il Festival Parola Cantata, te lo ricordi?… Vedi proprio qui c’era il palco…»
È pomeriggio. Siamo seduti su una panchina del Parco di Villa Fiorita di Brugherio (nei pressi di Monza) a pochi metri dal punto indicato. Si sta bene, c’è anche un po’ di fresco. Meno male, visti questi giorni di gran caldo.
E chi ha ricordato poco fa il Festival di cui è stato Direttore Artistico nel 2010 e nel 2011 è Mauro Ermanno Giovanardi. L’ex frontman dei La Crus è infatti tornato da poco con Il Mio Stile (Produzioni Fuorivia – distr. EGEA), nuovo disco di inediti che arriva dopo Maledetto Colui Che è Solo, fortunato lavoro con il Sinfonico Honolulu che si è aggiudicato la Targa Tenco 2013 come miglior interprete.
Un cantautore? Un interprete? Che approccio ha adesso alla sua musica? Qual è insomma lo stile di Joe/Mauro Ermanno Giovanardi? Proviamo a definirlo insieme a lui…
Anche se nel frattempo sono usciti altri tuoi dischi, come mai sono passati quattro anni dal tuo precedente disco di inediti (Ho sognato troppo l’altra notte?)?
Tre quarti dei pezzi di questo disco erano già pronti alla fine del 2012. L’album era anche pronto per uscire, avevo tutti i provini fatti, però, come canto citando Oscar Wilde: «Posso resistere a tutto, ma alle tentazioni no». E quindi, sempre verso la fine del 2012, ho fatto delle cose con il Sinfonico Honolulu e praticamente mi sono innamorato di questo progetto. È stato un colpo di fulmine. Il disco come idea doveva contenere cinque-sei pezzi e doveva uscire in digitale. Io avevo iniziato a pensarci e poi mi ricordo che il giorno dell’Epifania del 2013 i ragazzi suonarono a Milano al Magnolia. Abbiamo fatto insieme due-tre pezzi e poi ho detto a Daniele Catalucci del Sinfonico (che è anche il bassista dei Virginiana Miller): «Dai, fermati, così iniziamo a pensare a questa cosa qui». E allora da cinque-sei pezzi mi sono ritrovato a Livorno a provinarne diciotto. Poi ci ho messo dentro due inediti bellissimi, perché mi sembravano adatti a quel lavoro che sono Accarezzami musica e Anche se non lo sai. Ho iniziato a pensarlo come un disco vero e come al solito c’ho messo la passione come si fa per qualsiasi disco. È stato quindi un lavoro importante, un’esperienza bellissima dal punto di vista umano e professionale. Abbiamo fatto tanti festival e abbiamo chiuso al Petruzzelli di Bari e quindi è andato molto bene. Poi era uscito anche il disco del Chelsea Hotel (quello nato dallo spettacolo con Massimo Cotto e Matteo Curallo, di cui avevamo parlato qui, ndr) e anche quello l’ho voluto fare bene. Solo verso la fine del 2013-inizio 2014 ho iniziato a rilavorare a quest’album: l’ho chiuso a maggio, masterizzato a settembre ed è uscito adesso. Posso fare questo lavoro solo in questo modo. Devo andare dove mi porta il cuore…
Bene. Com’è nata la copertina del tuo nuovo album?
Mah, ho scelto quella copertina perché mi rappresenta molto. Non mi era mai capitato in quattordici-quindici dischi di fare una cosa del genere. L’idea era quella di riprendere l’immaginario Gainsbourg-Birkin che mi piaceva… e poi mi piaceva che avesse questo sapore non proprio retrò, perché a me interessa recuperare quell’immaginario lì e attualizzarlo. E niente, con la fotografa Silvia Rotelli, che ha fatto praticamente tre dischi su quattro miei solisti, stavamo guardando una serie di foto con delle modelle e a un certo punto mi fa: «Sono carine ecc… ma secondo me la persona più giusta è la tua fidanzata», e io ho detto: «Sì, ma c’ammazza (ride, ndr)!». Perché Ilaria è una persona molto discreta, ma poi io, Silvia, Paola Farinetti (la mia manager) e Dimitris Statiris (il mio amico regista con cui ho fatto il cortometraggio contenuto nel DVD della Special Edition) ci abbiamo messo un mese e mezzo per convincerla, ma alla fine ha ceduto. Diciamo che non era previsto e invece tutt’e due siamo contenti di averlo fatto. Secondo me la foto di copertina è molto bella e non poteva essere fatta con nessun’altra donna se non con la mia compagna, perché la cosa che Silvia mi chiedeva era di non cercare solo il “lato osé”, ma ci voleva anche il lato romantico.
Anche per questo nuovo disco hai lavorato con Leziero Rescigno (già batterista dei La Crus) e Roberto Vernetti…
In questo disco l’apporto di Leziero è stato più importante rispetto al precedente.
Io comunque ho un approccio a questo lavoro molto “da regista”. Da anni ho smesso di suonare il basso e ho smesso di suonare gli altri strumenti. È molto più faticoso, ma secondo me da un punto di vista artistico la musica ne guadagna un sacco. Se io spiego a tutti cosa voglio fare e dove voglio arrivare, avrò un materiale che da un punto di vista armonico avrà molti più colori. E poi melodie, parole ecc. ce le metto perché sono curioso, mi piace la contaminazione…
Per me è interessantissimo lavorare con loro. Questo disco doveva essere il mio personale viaggio nella seconda metà degli anni ’60, tirandomi fuori l’humus con un qualcosa che fosse veramente attuale. Revival e citazionismo per me non sono arte e allora ci siamo approcciati e abbiamo detto: «Prendiamo lezione da là, facciamo un upgrade e facciamo in modo che queste cose vengano naturali».
C’è stata poi l’idea di togliere gli archi. Se un’orchestra è scritta bene, la senti… e certo, la senti pure se è scritta male, ma comunque trenta persone che suonano le senti. Allora abbiamo tolto la sezione degli archi e abbiamo messo i fiati un po’ più corposi e un quartetto vocale.
Per cui la cosa figa di questo disco è che ha quel mondo là senza quella pesantezza (ride, ndr)! Tanto le linee girano sempre, solo che sono fatte dalle voci e non da una sezione di dodici primi. Per cui ti sembra che certi pezzi siano simili a quelli del vecchio disco, invece per me c’è un upgrade molto grosso.
Ma quindi come definiresti “il tuo stile”?
Diciamo che a ‘sto giro è venuta fuori di nuovo la cosa del “cantautore”, ma io in realtà sto cercando di far sì che queste canzoni non c’entrino un cazzo col cantautorato (ride, ndr)! Credo che nessuno dei cantautori, sia vecchi che nuovi, mettano basi così come in Sono Come Mi Vedi. Fossati, De Gregori, Vecchioni… nessuno avrebbe fatto un arrangiamento così. C’è il lavoro sulla parola, il lavoro sull’arrangiamento come un compositore di colonne sonore, un modo di cantare come quello di un interprete puro, un approccio rock ‘n’ roll che io non posso mai abbandonare… per cui questa roba del cantautore devo dire che mi va strettissima. Non so cosa sono, non so che musica faccio, ma mi sembra riduttivo. La prossima volta faccio un disco post-punk puro e vediamo se viene di nuovo fuori la storia del “cantautore” (ride, ndr)!
Forse ti sta stretta la storia del “cantautore” anche perché ci sono diversi coautori nei pezzi de Il Mio Stile?
Beh, quella dei coautori è stata una scelta. All’inizio dovevano essere solo due pezzi scritti insieme ad altri, Aspetta Un Attimo e Quando Suono. Cheope (figlio di Mogol e coautore di Quando Suono, ndr) è uno dei miei più cari amici e da sempre pensavamo di fare qualcosa insieme. Io sono molto curioso e volevo fare un pezzo a quattro mani con persone fuori dal mio mondo, ma che comunque stimo. E infatti la cosa interessante era proprio portar loro nel mio mondo. Cheope scrive tantissime cose anche ad esempio per la Pausini, ma so benissimo che scrive anche altro. Con lui avevo pure timore che le cose non andassero per il verso giusto e infatti ho detto: «Qualsiasi cosa succeda, fottiamocene. Se ci piace ok e sennò no». Per lo stesso motivo quindi ho pensato anche a Niccolò Agliardi (coautore di Aspetta Un Attimo, ndr).
Stavolta hanno scritto interi brani per te anche Peppe Anastasi e Gianmaria Testa…
Sì. Come ti dicevo tre quarti dei pezzi erano già pronti. Infatti nel 2013 una notte eravamo ad Aversa al Bianca D’Aponte e lì ho fatto sentire alcuni brani a Peppe Anastasi tipo Quando Suono o Come Esistere Anch’Io. Anche lui mi ha fatto sentire un pezzo che aveva appena scritto e praticamente è stata la prima volta che mi è successo che una persona mi abbia dato un suo brano, Tre Volte.
Gianmaria Testa invece l’ho conosciuto sempre tramite Paola, perché anche i suoi lavori escono per Produzioni Fuorivia. Lui ha sentito alcuni miei provini e quindi mentre scriveva mi fa: «Ho pensato a te» e mi ha dato Anche Senza Parlare.
Questa cosa mi ha fatto molto piacere.
Poi c’è anche Come Esistere Anch’Io, brano scritto e cantato in prima persona femminile. È la prima volta che componi in questo modo, vero?
Era la prima volta che volevo scrivere un pezzo per una collega. Allora mi sono ritrovato tra le mani questa frase di Sant’Agostino: «Rendimi casto ma non subito» e mi sembrava comunque “no” per un uomo del terzo millennio. Secondo me non era attuale come cosa. Girandola al femminile, «Rendimi casta mio dio, ma ti prego non subito», l’ho fatta diventare subito un’invocazione e in qualche modo era come inizio una roba più credibile secondo me. Ho pensato anche che se Carmen Consoli avesse fatto una sua versione, sarebbe stata potentissima. Poi si pensava a Noemi, Giorgia… e poi una sera viene a trovarmi Fausto Mesolella che aveva appena scritto una canzone per Fiorella Mannoia e quindi gli ho chiesto un consiglio. E lui mi fa: «Tu sì pazz… e non devi nemmeno produrla, devi stampare il provino che è bellissimo». Poi si parlava anche del Festival di Sanremo per il secondo anno di Fazio, ma alla fine l’ho fatta sentire a un po’ di “quote rosa” e la cosa più bella è stata che un sacco di donne mi hanno detto: «Pazzesco come sei riuscito a entrare nel mondo femminile». E insomma, mi hanno convinto e l’ho cantata io.
Come spesso accade nei tuoi pezzi, non manca un riferimento a Milano con Nel centro di Milano…
Sì, in questo pezzo se io parlassi del centro di Lugano sarebbe uguale. Certo, c’è un po’ dell’atmosfera milanese di certi pezzi dei La Crus, quel tipo di atmosfera novembrina con la nebbia… però è un modo per raccontare un rapporto amoroso che poi è sempre un pretesto per raccontare qualcos’altro. In questo caso c’è un pretesto amoroso per dire: «Anch’io sono una persona, non mi puoi trattare male». E poi può essere una donna, ma può essere pure il tuo datore di lavoro. Questo pezzo ha un po’ di quelle atmosfere autunnali, crepuscolari… che sono un po’ il mio pane (ride, ndr)!
E invece a proposito di cover, nel tuo nuovo album c’è Il Tuo Stile di Leo Ferrè…
Era un brano che avevo nel cassetto da anni e non trovavo una versione che mi convincesse. Quel pezzo è pericolosissimo. È un fiume in piena di parole. Non ti ritrovi più. Devi stare attento alla metrica e ogni parola ha un peso specifico pazzesco. E nonostante sia un inno incredibile al “lato B” non riesce mai a essere volgare. È poesia pura, per cui per me era un pezzo da sfidare e in più mi dava la possibilità di aprirmi rispetto alla scrittura di altre robe. Ad esempio un pezzo come Se C’è Un Dio è una preghiera, seppur profana, e così esplicito o così disincantato non lo ero stato mai. Lì da solo quindi Il Tuo Stile sarebbe stato un po’ troppo isolato.
Ne hai fatte tante di cover in carriera anche con i La Crus, a partire da Il vino di Piero Ciampi e poi c’era ad esempio l’album del 2001, Crocevia. Come le scegli?
Le versioni che faccio dei pezzi altrui, a parte Bang Bang e Se Perdo Anche Te, le scelgo sempre per i testi. Quelle due le avevo scelte anche per la musica e poi avevo cambiato qualche parola del testo. Non ne ho scelta nemmeno una per la musica, le ho scelte tutte per i testi. Ci metto sempre tantissimo per scegliere un pezzo, figurati che lavoro ho dovuto fare per Crocevia. Per me Crocevia era un viaggio nella musica italiana da Bruno Martino fino agli Afterhours, prendendo in considerazione chi era stato importante per cosa aveva scritto come Tenco, De André, Gaber o Conte. Erano tutte canzoni entrate nell’immaginario collettivo come Pensiero Stupendo di Patty Pravo, poi Vorrei Incontrarti di Alan Sorrenti è stato quasi un inno, oppure Ricordare di Ennio Morricone volevo ricantarla perché per me lui rappresenta la musica italiana colta nel mondo. Erano quindi rimasti fuori un po’ di pezzi, tra cui Il Mio Stile. È tanto che mi sembra che non piazzavo una versione così ispirata su un disco su un pezzo d’altri. Ho fatto tre versioni diverse, ma abbiamo scelto quella del provino “che era massacrata”. Non si doveva perdere neanche una parola di quel brano…
Tornando al discorso degli autori e dei coautori in che rapporti sei rimasto con “il terzo La Crus” Alessandro Cremonesi?
Con Cesare per una questione caratteriale “non siamo mai stati amici”, ma a Cesare voglio tanto bene. Eravamo molto diversi e a un certo punto ci siamo scontrati in maniera forte e quindi io ho deciso che i La Crus si dovevano sciogliere perché i grandi amori non meritano mai mediocrità.
Con Alex invece non c’è mai stato uno screzio. Non è capitato di collaborare per questo disco, ma non è detto assolutamente che non possa capitare. Diciamo che Alex in questo momento non è tanto interessato a scrivere canzoni e diciamo pure che con i La Crus il 30% dei pezzi erano solo suoi, ma alla fine l’ultima parola è sempre stata la mia. Fin dall’inizio lui mi ha detto: «Tu ci devi mettere la faccia e quindi tu devi essere convinto». E quindi ci sono pezzi con Alex che abbiamo riscritto dieci volte. Arrivando da un’esperienza più che decennale in inglese con i Carnival Of Fools, il passaggio all’italiano è stato faticoso e quindi io non ho fatto passare ad Alex un sacco di cose, così come pure io non mi sono fatto passare tante cose. E quindi a un certo punto proprio io e Alex abbiamo deciso spontaneamente di essere meno snob, un po’ meno ermetici, meno criptici e quindi canzoni come Nera Signora non le abbiamo più scritte, ma volutamente. Io e Alex siamo sempre stati molto rigorosi. Ci siamo detti: «Noi abbiamo il dovere di farci capire di più». È troppo facile scrivere in maniera ermetica, dicendo tutto o non dicendo niente. Magari c’era un pretesto per prendere la canzone d’amore come struttura, ma sempre per dire qualcos’altro. Tipo in Soltanto Amore non si parla mai di cuore volutamente.
Con i La Crus abbiamo smesso, ma era un problema più della coppia, perché Alex, “il terzo”, in studio non c’era mai e lui poi è una persona molto discreta.
Tra tutte le possibili formazioni il duo è quello che si logora prima. Inizialmente la nostra diversità è stata benzina e poi dopo è stata un danno. Io non avevo formato i La Crus per fare i pezzi con la cassa in quattro e più che quello erano venuti a mancare alcuni punti fermi per me. Pezzi con la chitarra classica non ce n’erano più, non c’erano pezzi con la tromba, i campionamenti “non erano più di moda”. Io ho sempre cercato di salvaguardare questa parte più cantautorale con i campionamenti dei Neubauten sotto. Il primo disco è quella roba là, no?
Poi per me la canzone a prescindere deve essere come la forma-canzone. E se la canzone funziona piano e voce o chitarra e voce, sotto puoi mettere tutto quello che vuoi al 90%. Mi interessavano pezzi con immaginari trasversali o con riferimenti autunnal-melanconici e queste idee si stavano perdendo.
Prima ricordavi il primo disco eponimo dei La Crus. Sono passati vent’anni da allora, anche se è passato ancora più tempo dall’esperienza con i Carnival of Fools. Come ti vedi adesso rispetto a vent’anni fa?
Ultimamente nelle interviste dico che se una persona è sana di mente, non farebbe più questo lavoro. L’avvento di Internet e la non lungimiranza hanno portato a questa crisi e significa che noi facciamo pochi concerti e la gente non è più abituata ad andare ai concerti o a comprare dischi…
È cambiato tutto… siamo in un altro universo…
Diciamo però anche che mi sarebbe piaciuto avere venti e più anni fa tutta l’esperienza e la maturità che ho acquisito nel tempo.
Come cantante/interprete ecc. i primi due dischi dei La Crus non riesco a sentirli per come canto, perché mi sembra un abisso. Poi tanti mi dicono che sono un pazzo, ma io sento che la mia voce non riuscivo a gestirla, sempre per il passaggio dall’inglese all’italiano che ti dicevo. Rispetto a vent’anni fa mi sento una persona che è cresciuta un sacco artisticamente ed è maturata vocalmente.
È pomeriggio. Siamo seduti su una panchina del Parco di Villa Fiorita di Brugherio (nei pressi di Monza) a pochi metri dal punto indicato. Si sta bene, c’è anche un po’ di fresco. Meno male, visti questi giorni di gran caldo.
E chi ha ricordato poco fa il Festival di cui è stato Direttore Artistico nel 2010 e nel 2011 è Mauro Ermanno Giovanardi. L’ex frontman dei La Crus è infatti tornato da poco con Il Mio Stile (Produzioni Fuorivia – distr. EGEA), nuovo disco di inediti che arriva dopo Maledetto Colui Che è Solo, fortunato lavoro con il Sinfonico Honolulu che si è aggiudicato la Targa Tenco 2013 come miglior interprete.
Un cantautore? Un interprete? Che approccio ha adesso alla sua musica? Qual è insomma lo stile di Joe/Mauro Ermanno Giovanardi? Proviamo a definirlo insieme a lui…
Anche se nel frattempo sono usciti altri tuoi dischi, come mai sono passati quattro anni dal tuo precedente disco di inediti (Ho sognato troppo l’altra notte?)?
Tre quarti dei pezzi di questo disco erano già pronti alla fine del 2012. L’album era anche pronto per uscire, avevo tutti i provini fatti, però, come canto citando Oscar Wilde: «Posso resistere a tutto, ma alle tentazioni no». E quindi, sempre verso la fine del 2012, ho fatto delle cose con il Sinfonico Honolulu e praticamente mi sono innamorato di questo progetto. È stato un colpo di fulmine. Il disco come idea doveva contenere cinque-sei pezzi e doveva uscire in digitale. Io avevo iniziato a pensarci e poi mi ricordo che il giorno dell’Epifania del 2013 i ragazzi suonarono a Milano al Magnolia. Abbiamo fatto insieme due-tre pezzi e poi ho detto a Daniele Catalucci del Sinfonico (che è anche il bassista dei Virginiana Miller): «Dai, fermati, così iniziamo a pensare a questa cosa qui». E allora da cinque-sei pezzi mi sono ritrovato a Livorno a provinarne diciotto. Poi ci ho messo dentro due inediti bellissimi, perché mi sembravano adatti a quel lavoro che sono Accarezzami musica e Anche se non lo sai. Ho iniziato a pensarlo come un disco vero e come al solito c’ho messo la passione come si fa per qualsiasi disco. È stato quindi un lavoro importante, un’esperienza bellissima dal punto di vista umano e professionale. Abbiamo fatto tanti festival e abbiamo chiuso al Petruzzelli di Bari e quindi è andato molto bene. Poi era uscito anche il disco del Chelsea Hotel (quello nato dallo spettacolo con Massimo Cotto e Matteo Curallo, di cui avevamo parlato qui, ndr) e anche quello l’ho voluto fare bene. Solo verso la fine del 2013-inizio 2014 ho iniziato a rilavorare a quest’album: l’ho chiuso a maggio, masterizzato a settembre ed è uscito adesso. Posso fare questo lavoro solo in questo modo. Devo andare dove mi porta il cuore…
Bene. Com’è nata la copertina del tuo nuovo album?
Mah, ho scelto quella copertina perché mi rappresenta molto. Non mi era mai capitato in quattordici-quindici dischi di fare una cosa del genere. L’idea era quella di riprendere l’immaginario Gainsbourg-Birkin che mi piaceva… e poi mi piaceva che avesse questo sapore non proprio retrò, perché a me interessa recuperare quell’immaginario lì e attualizzarlo. E niente, con la fotografa Silvia Rotelli, che ha fatto praticamente tre dischi su quattro miei solisti, stavamo guardando una serie di foto con delle modelle e a un certo punto mi fa: «Sono carine ecc… ma secondo me la persona più giusta è la tua fidanzata», e io ho detto: «Sì, ma c’ammazza (ride, ndr)!». Perché Ilaria è una persona molto discreta, ma poi io, Silvia, Paola Farinetti (la mia manager) e Dimitris Statiris (il mio amico regista con cui ho fatto il cortometraggio contenuto nel DVD della Special Edition) ci abbiamo messo un mese e mezzo per convincerla, ma alla fine ha ceduto. Diciamo che non era previsto e invece tutt’e due siamo contenti di averlo fatto. Secondo me la foto di copertina è molto bella e non poteva essere fatta con nessun’altra donna se non con la mia compagna, perché la cosa che Silvia mi chiedeva era di non cercare solo il “lato osé”, ma ci voleva anche il lato romantico.
Anche per questo nuovo disco hai lavorato con Leziero Rescigno (già batterista dei La Crus) e Roberto Vernetti…
In questo disco l’apporto di Leziero è stato più importante rispetto al precedente.
Io comunque ho un approccio a questo lavoro molto “da regista”. Da anni ho smesso di suonare il basso e ho smesso di suonare gli altri strumenti. È molto più faticoso, ma secondo me da un punto di vista artistico la musica ne guadagna un sacco. Se io spiego a tutti cosa voglio fare e dove voglio arrivare, avrò un materiale che da un punto di vista armonico avrà molti più colori. E poi melodie, parole ecc. ce le metto perché sono curioso, mi piace la contaminazione…
Per me è interessantissimo lavorare con loro. Questo disco doveva essere il mio personale viaggio nella seconda metà degli anni ’60, tirandomi fuori l’humus con un qualcosa che fosse veramente attuale. Revival e citazionismo per me non sono arte e allora ci siamo approcciati e abbiamo detto: «Prendiamo lezione da là, facciamo un upgrade e facciamo in modo che queste cose vengano naturali».
C’è stata poi l’idea di togliere gli archi. Se un’orchestra è scritta bene, la senti… e certo, la senti pure se è scritta male, ma comunque trenta persone che suonano le senti. Allora abbiamo tolto la sezione degli archi e abbiamo messo i fiati un po’ più corposi e un quartetto vocale.
Per cui la cosa figa di questo disco è che ha quel mondo là senza quella pesantezza (ride, ndr)! Tanto le linee girano sempre, solo che sono fatte dalle voci e non da una sezione di dodici primi. Per cui ti sembra che certi pezzi siano simili a quelli del vecchio disco, invece per me c’è un upgrade molto grosso.
Ma quindi come definiresti “il tuo stile”?
Diciamo che a ‘sto giro è venuta fuori di nuovo la cosa del “cantautore”, ma io in realtà sto cercando di far sì che queste canzoni non c’entrino un cazzo col cantautorato (ride, ndr)! Credo che nessuno dei cantautori, sia vecchi che nuovi, mettano basi così come in Sono Come Mi Vedi. Fossati, De Gregori, Vecchioni… nessuno avrebbe fatto un arrangiamento così. C’è il lavoro sulla parola, il lavoro sull’arrangiamento come un compositore di colonne sonore, un modo di cantare come quello di un interprete puro, un approccio rock ‘n’ roll che io non posso mai abbandonare… per cui questa roba del cantautore devo dire che mi va strettissima. Non so cosa sono, non so che musica faccio, ma mi sembra riduttivo. La prossima volta faccio un disco post-punk puro e vediamo se viene di nuovo fuori la storia del “cantautore” (ride, ndr)!
Forse ti sta stretta la storia del “cantautore” anche perché ci sono diversi coautori nei pezzi de Il Mio Stile?
Beh, quella dei coautori è stata una scelta. All’inizio dovevano essere solo due pezzi scritti insieme ad altri, Aspetta Un Attimo e Quando Suono. Cheope (figlio di Mogol e coautore di Quando Suono, ndr) è uno dei miei più cari amici e da sempre pensavamo di fare qualcosa insieme. Io sono molto curioso e volevo fare un pezzo a quattro mani con persone fuori dal mio mondo, ma che comunque stimo. E infatti la cosa interessante era proprio portar loro nel mio mondo. Cheope scrive tantissime cose anche ad esempio per la Pausini, ma so benissimo che scrive anche altro. Con lui avevo pure timore che le cose non andassero per il verso giusto e infatti ho detto: «Qualsiasi cosa succeda, fottiamocene. Se ci piace ok e sennò no». Per lo stesso motivo quindi ho pensato anche a Niccolò Agliardi (coautore di Aspetta Un Attimo, ndr).
Stavolta hanno scritto interi brani per te anche Peppe Anastasi e Gianmaria Testa…
Sì. Come ti dicevo tre quarti dei pezzi erano già pronti. Infatti nel 2013 una notte eravamo ad Aversa al Bianca D’Aponte e lì ho fatto sentire alcuni brani a Peppe Anastasi tipo Quando Suono o Come Esistere Anch’Io. Anche lui mi ha fatto sentire un pezzo che aveva appena scritto e praticamente è stata la prima volta che mi è successo che una persona mi abbia dato un suo brano, Tre Volte.
Gianmaria Testa invece l’ho conosciuto sempre tramite Paola, perché anche i suoi lavori escono per Produzioni Fuorivia. Lui ha sentito alcuni miei provini e quindi mentre scriveva mi fa: «Ho pensato a te» e mi ha dato Anche Senza Parlare.
Questa cosa mi ha fatto molto piacere.
Poi c’è anche Come Esistere Anch’Io, brano scritto e cantato in prima persona femminile. È la prima volta che componi in questo modo, vero?
Era la prima volta che volevo scrivere un pezzo per una collega. Allora mi sono ritrovato tra le mani questa frase di Sant’Agostino: «Rendimi casto ma non subito» e mi sembrava comunque “no” per un uomo del terzo millennio. Secondo me non era attuale come cosa. Girandola al femminile, «Rendimi casta mio dio, ma ti prego non subito», l’ho fatta diventare subito un’invocazione e in qualche modo era come inizio una roba più credibile secondo me. Ho pensato anche che se Carmen Consoli avesse fatto una sua versione, sarebbe stata potentissima. Poi si pensava a Noemi, Giorgia… e poi una sera viene a trovarmi Fausto Mesolella che aveva appena scritto una canzone per Fiorella Mannoia e quindi gli ho chiesto un consiglio. E lui mi fa: «Tu sì pazz… e non devi nemmeno produrla, devi stampare il provino che è bellissimo». Poi si parlava anche del Festival di Sanremo per il secondo anno di Fazio, ma alla fine l’ho fatta sentire a un po’ di “quote rosa” e la cosa più bella è stata che un sacco di donne mi hanno detto: «Pazzesco come sei riuscito a entrare nel mondo femminile». E insomma, mi hanno convinto e l’ho cantata io.
Come spesso accade nei tuoi pezzi, non manca un riferimento a Milano con Nel centro di Milano…
Sì, in questo pezzo se io parlassi del centro di Lugano sarebbe uguale. Certo, c’è un po’ dell’atmosfera milanese di certi pezzi dei La Crus, quel tipo di atmosfera novembrina con la nebbia… però è un modo per raccontare un rapporto amoroso che poi è sempre un pretesto per raccontare qualcos’altro. In questo caso c’è un pretesto amoroso per dire: «Anch’io sono una persona, non mi puoi trattare male». E poi può essere una donna, ma può essere pure il tuo datore di lavoro. Questo pezzo ha un po’ di quelle atmosfere autunnali, crepuscolari… che sono un po’ il mio pane (ride, ndr)!
E invece a proposito di cover, nel tuo nuovo album c’è Il Tuo Stile di Leo Ferrè…
Era un brano che avevo nel cassetto da anni e non trovavo una versione che mi convincesse. Quel pezzo è pericolosissimo. È un fiume in piena di parole. Non ti ritrovi più. Devi stare attento alla metrica e ogni parola ha un peso specifico pazzesco. E nonostante sia un inno incredibile al “lato B” non riesce mai a essere volgare. È poesia pura, per cui per me era un pezzo da sfidare e in più mi dava la possibilità di aprirmi rispetto alla scrittura di altre robe. Ad esempio un pezzo come Se C’è Un Dio è una preghiera, seppur profana, e così esplicito o così disincantato non lo ero stato mai. Lì da solo quindi Il Tuo Stile sarebbe stato un po’ troppo isolato.
Ne hai fatte tante di cover in carriera anche con i La Crus, a partire da Il vino di Piero Ciampi e poi c’era ad esempio l’album del 2001, Crocevia. Come le scegli?
Le versioni che faccio dei pezzi altrui, a parte Bang Bang e Se Perdo Anche Te, le scelgo sempre per i testi. Quelle due le avevo scelte anche per la musica e poi avevo cambiato qualche parola del testo. Non ne ho scelta nemmeno una per la musica, le ho scelte tutte per i testi. Ci metto sempre tantissimo per scegliere un pezzo, figurati che lavoro ho dovuto fare per Crocevia. Per me Crocevia era un viaggio nella musica italiana da Bruno Martino fino agli Afterhours, prendendo in considerazione chi era stato importante per cosa aveva scritto come Tenco, De André, Gaber o Conte. Erano tutte canzoni entrate nell’immaginario collettivo come Pensiero Stupendo di Patty Pravo, poi Vorrei Incontrarti di Alan Sorrenti è stato quasi un inno, oppure Ricordare di Ennio Morricone volevo ricantarla perché per me lui rappresenta la musica italiana colta nel mondo. Erano quindi rimasti fuori un po’ di pezzi, tra cui Il Mio Stile. È tanto che mi sembra che non piazzavo una versione così ispirata su un disco su un pezzo d’altri. Ho fatto tre versioni diverse, ma abbiamo scelto quella del provino “che era massacrata”. Non si doveva perdere neanche una parola di quel brano…
Tornando al discorso degli autori e dei coautori in che rapporti sei rimasto con “il terzo La Crus” Alessandro Cremonesi?
Con Cesare per una questione caratteriale “non siamo mai stati amici”, ma a Cesare voglio tanto bene. Eravamo molto diversi e a un certo punto ci siamo scontrati in maniera forte e quindi io ho deciso che i La Crus si dovevano sciogliere perché i grandi amori non meritano mai mediocrità.
Con Alex invece non c’è mai stato uno screzio. Non è capitato di collaborare per questo disco, ma non è detto assolutamente che non possa capitare. Diciamo che Alex in questo momento non è tanto interessato a scrivere canzoni e diciamo pure che con i La Crus il 30% dei pezzi erano solo suoi, ma alla fine l’ultima parola è sempre stata la mia. Fin dall’inizio lui mi ha detto: «Tu ci devi mettere la faccia e quindi tu devi essere convinto». E quindi ci sono pezzi con Alex che abbiamo riscritto dieci volte. Arrivando da un’esperienza più che decennale in inglese con i Carnival Of Fools, il passaggio all’italiano è stato faticoso e quindi io non ho fatto passare ad Alex un sacco di cose, così come pure io non mi sono fatto passare tante cose. E quindi a un certo punto proprio io e Alex abbiamo deciso spontaneamente di essere meno snob, un po’ meno ermetici, meno criptici e quindi canzoni come Nera Signora non le abbiamo più scritte, ma volutamente. Io e Alex siamo sempre stati molto rigorosi. Ci siamo detti: «Noi abbiamo il dovere di farci capire di più». È troppo facile scrivere in maniera ermetica, dicendo tutto o non dicendo niente. Magari c’era un pretesto per prendere la canzone d’amore come struttura, ma sempre per dire qualcos’altro. Tipo in Soltanto Amore non si parla mai di cuore volutamente.
Con i La Crus abbiamo smesso, ma era un problema più della coppia, perché Alex, “il terzo”, in studio non c’era mai e lui poi è una persona molto discreta.
Tra tutte le possibili formazioni il duo è quello che si logora prima. Inizialmente la nostra diversità è stata benzina e poi dopo è stata un danno. Io non avevo formato i La Crus per fare i pezzi con la cassa in quattro e più che quello erano venuti a mancare alcuni punti fermi per me. Pezzi con la chitarra classica non ce n’erano più, non c’erano pezzi con la tromba, i campionamenti “non erano più di moda”. Io ho sempre cercato di salvaguardare questa parte più cantautorale con i campionamenti dei Neubauten sotto. Il primo disco è quella roba là, no?
Poi per me la canzone a prescindere deve essere come la forma-canzone. E se la canzone funziona piano e voce o chitarra e voce, sotto puoi mettere tutto quello che vuoi al 90%. Mi interessavano pezzi con immaginari trasversali o con riferimenti autunnal-melanconici e queste idee si stavano perdendo.
Prima ricordavi il primo disco eponimo dei La Crus. Sono passati vent’anni da allora, anche se è passato ancora più tempo dall’esperienza con i Carnival of Fools. Come ti vedi adesso rispetto a vent’anni fa?
Ultimamente nelle interviste dico che se una persona è sana di mente, non farebbe più questo lavoro. L’avvento di Internet e la non lungimiranza hanno portato a questa crisi e significa che noi facciamo pochi concerti e la gente non è più abituata ad andare ai concerti o a comprare dischi…
È cambiato tutto… siamo in un altro universo…
Diciamo però anche che mi sarebbe piaciuto avere venti e più anni fa tutta l’esperienza e la maturità che ho acquisito nel tempo.
Come cantante/interprete ecc. i primi due dischi dei La Crus non riesco a sentirli per come canto, perché mi sembra un abisso. Poi tanti mi dicono che sono un pazzo, ma io sento che la mia voce non riuscivo a gestirla, sempre per il passaggio dall’inglese all’italiano che ti dicevo. Rispetto a vent’anni fa mi sento una persona che è cresciuta un sacco artisticamente ed è maturata vocalmente.