17/01/2022

Musica in lockdown: Riccardo De Stefano tra musica e pandemia

Come si è fermata la musica, come farla ripartire: il nuovo libro Arcana
Direttore editoriale di ExitWell, collaboratore di iCompany e del Mei, giornalista giovane ma attivo e prolifico, Riccardo De Stefano è molto attento alle dinamiche del mondo indipendente, al quale ha dedicato il suo primo libro Era Indie nel 2019. La pandemia ha piegato il panorama musicale italiano, così l’autore ha intrapreso un’indagine divenuta libro: Musica in lockdown. Come si è fermata e come farla ripartire, nuovamente con Arcana.
 
Musica in lockdown è uscito in un periodo del 2021 in cui c’erano speranze per la ripartenza. Oggi, all’inizio del 2022, la situazione non è affatto rosea. Cambiano le prospettive per la ripartenza che avevi messo a fuoco nel libro?
Paradossalmente, un altro anno è finito e non sembra cambiato quasi nulla, almeno sul fronte musicale. Ci sono stati, specialmente in estate, momenti di apparente normalità, ma il mondo pre-covid credo non lo rivivremo mai più, non come una volta almeno. La ripartenza è già in atto: nel momento in cui non si tornerà più indietro a “com’era prima”, questo è il new normal e dobbiamo ripensare la musica, almeno quella dal vivo, in una nuova dimensione e con altre formule, perlomeno per i prossimi anni. Anche una volta terminata l’emergenza, non spariranno le ordinanze restrittive, grazie alla celere burocrazia italiana e all’incuria delle amministrazioni. Il mercato sta trovando soldi altrove, rispetto i live, molti di meno ovviamente e in mano a pochissimi, e lì andrà un po’ tutto il circuito a seguire.
 
Il lockdown è stato un’occasione importante per affrontare alcuni nodi, il primo riguarda le modalità del fare musica. Le difficoltà economiche del periodo hanno spinto sempre di più i musicisti a privilegiare il singolo: possiamo dire che è definitivamente tramontata l’era dell’album?
Il trend che ha visto il ritorno preponderante del singolo era attivo ormai da qualche anno prima dell’esplosione del Covid-19, che ne ha portato le estreme conseguenze: gli album servivano solo a fare i live già nel 2019, figurati ora cosa importa farne uno. Certo, ci sono comunque interessi economici dietro, ma spesso le grandi produzioni discografiche non hanno alcun riscontro e interi long-playing spariscono nell’anonimato. Il nuovo album è la playlist sui player digitali, con tanti artisti, diversi ma simili, per una disattenzione alla musica incredibile.
 
Fatta la possibile eccezione storica di Lucio Battisti, il fare musica è strettamente legato al concerto, eppure oggi più che mai le restrizioni stanno pesando moltissimo sull’aspetto performativo. Cosa dobbiamo aspettarci dalla pratica musicale del futuro?
Sempre più spesso arrivano al successo (chissà quanto duraturo) artisti giovanissimi che sul palco non ci sono mai saliti. Senza esperienza né gavetta e tutelati dalle tecnologie di produzione, ad esempio Melodyne e Autotune ma anche sequenze e basi, il concerto è già, ma lo diventerà ancora di più, una riproposizione di quello che viene fatto in studio, spingendoci sempre di più verso le esibizioni in playback che resero ingloriosa certa musica negli anni ’80 e ’90. D’altro canto si stanno sperimentando, nel mondo ma anche in Italia, i primi show pensati per il virtuale (e non si parla di concerti in streaming, già preistoria ormai): Ed Sheeran ha “tenuto” un “concerto” su Pokemon GO e il cosiddetto metaverso ha visto i primi live show pensati per quell’ambiente virtuale. Se questi non-concerti saranno il futuro? Only time will tell. Intanto c’è chi si è arricchito così, sempre pochissimi e i soliti noti.
 
In questo biennio pandemico le sale cinematografiche hanno subìto una batosta incredibile, a vantaggio di Netflix e simili. Sul versante musicale, la pandemia quanto ha giovato a Spotify e allo streaming?
Lo streaming in senso lato ha salvato comunque l’industria, ridefinendone i modelli economici e le pratiche di diffusione e promozione. Sarebbe comunque successo ugualmente, ma con il primo lockdown il formato fisico è praticamente sparito del tutto (fatto salvo forse solo Vasco Rossi che ancora vende tantissimi dischi fisici per chiari motivi storici). Nella discografia la creatività e l’ingegno non la fanno proprio da padroni, lasciando il campo a pochissime pratiche promozionali preconfezionate, per cui nel mondo mainstream si lancia il brano per inserirlo in playlist e si aspetta che la canzone compia il suo (ormai brevissimo) ciclo vitale. Nel mondo indipendente, che in qualche modo deve campare ed è sempre stato il laboratorio dei nuovi modelli di business, ci sono poche ma interessanti realtà che provano a sfuggire in quest’ottica, in Italia e nel mondo. Due su tutte: i Vulfpeck negli USA e 42records in Italia.
 
Musica, istituzioni, governo. Ritieni che i provvedimenti della classe dirigente siano stati adeguati?
Sarebbe facile scadere nel “piove governo ladro”, ma senz’ombra di dubbio le istituzioni non sono riuscite a tutelare praticamente nessun lavoratore della musica, diciamo per incuria più che per malizia. Se a inizio pandemia il mondo dello spettacolo era stato omesso, diciamo in maniera comprensibile data l’emergenza ma comunque inaccettabile, oggi a quasi 24 mesi dall’inizio dell’emergenza, non credo si possa più parlare di “emergenza”, per cui se si vuole mantenere una filiera di diverse centinaia di milioni di indotto, che dà da mangiare a centinaia di migliaia di famiglie in Italia, direi che è il caso di ascoltare il settore e provare a soddisfare le necessità minime. Sino ad oggi qualcosa è stato fatto, specialmente grazie al lavoro delle realtà nate per tutelare i diritti dei lavoratori della musica (come Bauli in Piazza, La Musica che Gira, StaGe! e tutte le altre), ma siamo già caduti in un baratro. E come ci insegnano i film francesi, “il problema non è la caduta ma l’atterraggio”.
 
Si parla prevalentemente di danni economici, ma la musica e l’arte in generale contribuiscono al benessere interiore: dal lockdown sono emersi anche preoccupanti risvolti psicologici?
La pandemia e il lockdown hanno colpito ogni persona, in ogni angolo del mondo, di ogni classe sociale (anche se non allo stesso modo ovviamente). I professionisti della musica sono in ginocchio e molti non torneranno più a lavorare nel settore. I Club chiuderanno forse per non riaprire. Farà musica solo chi potrà permetterselo e non esisteranno per anni “scene” musicali. Questa è già una “teenage wasteland” inquietante. Quello che dovremmo valutare, ma si vedrà solo nei prossimi anni, è se e come una nuova generazione di 18-20enni affronterà i live del futuro, senza aver avuto la possibilità di crescere con i concerti, né nei piccoli club ma persino nei palazzetti o negli stadi (come invece era stato il trend degli ultimi anni). Psicologicamente sarà un cambio fortissimo, che potrebbe spingere la musica ancora di più sulla parte produttiva e sempre di meno sulla performance, e la musica nascendo come pura performance assumerà forse anche una volta una nuova dimensione percettiva. D’altronde, quando recentemente Travis Scott ha suonato dal vivo e non solo su Fortnite, la situazione è finita in tragedia con 8 spettatori morti, per cui mi domando come vivranno gli happening dal vivo i giovani di domani.
 
Nel libro hai dialogato con uomini di spettacolo e addetti ai lavori, da Massimo Bonelli a Emiliano Colasanti, da Claudio Trotta a Colapesce. È emersa una sana visione d’insieme oppure ognuno è arroccato sulle proprie posizioni?
Seppure con soluzioni e proposte diverse, quello che accomuna tutti è un malessere generalizzato e una sorta di impotenza nei confronti di qualcosa che puoi combattere ma non sconfiggere da solo. Puoi proporre piani di sicurezza, norme a tutela e rimborsi economici, ma se progetti attività discografiche o eventi, lo fai con mesi e mesi di anticipo, con investimenti non solo economici ma di tempo e anche di sanità mentale. Vedere ogni tre mesi tutto rimesso in discussione è un colpo fortissimo, che lascia tutti spiazzati. L’emergenza non è più sanitaria ma lavorativa a questo punto, e ognuno degli intervistati, ieri come oggi, si rende conto di essere parte di una categoria dimenticata e maltrattata, vittima del benaltrismo dell’uomo comune che fraintende il circuito musicale e discografico come la terra di milionari viziati che possono stare a casa, e non come il frutto di lavoro di centinaia di professionalità diverse, a volte incredibilmente specializzate, che non possono avere un piano B nella vita. Qualcuno direbbe “mal comune mezzo gaudio”, invece la sensazione complessiva è quella vicina al disastro senza precedenti, nonostante i sorrisi a mezza bocca dei discografici e degli artisti più in vista, ma guarda caso solo in fase di lancio promozionale e nei comunicati ufficiali.
 
Musica in lockdown consente di fermarsi e di riflettere sul ruolo della musica nella contemporaneità. Ha ancora un senso o non ci resta che ripiegare sul chiacchiericcio social tra Maneskin e Get Back?
La musica è forse l’unica arte che subisci senza poterne scappare con facilità. Puoi non accendere la tv o non andare al cinema, o tantomeno andare a un museo o leggere un libro, ma la musica la senti sempre, anche quando scrolli sul telefonino o vedi le storie su Instagram. Importantissima e inutile al tempo stesso, oggi la musica è un arredo, un soprammobile impalpabile che c’è e non ha peso, né rilevanza. Viene data per scontato e la si pretende gratis, sempre. Purtroppo la colpa è anche, se non soprattutto, di una certa discografia avida e miope, come anche dei tanti nuovi artisti ventenni o poco più che vogliono far parte del giro commerciale per avere soldi, successo, fama, visibilità. Se l’estetica è sempre stata una parte fondamentale della musica, una volta, neanche troppo tempo fa, aveva un ruolo disturbante (pensate ai primi trapper tatuati in faccia), dopo il lockdown tutto sembra soltanto posticcio, fatto ad arte per inserirsi in un cliché di sessualizzazione stantia dei corpi e di una totale mancanza di creatività e diversità. Chiaro allora che non si possa parlare di qualcosa di interessante a riguardo: non interessa a nessuno, perché non c’è niente da dire.
Il discorso sui così Maneskin ha senso, perché pur facendo qualcosa di vecchio, sembrano nuovi, e Get Back ci appare per il miracolo che è perché pur essendo vecchissimo quello che facevano i Beatles, oggi sembra più nuovo e rivoluzionario di quanto abbiamo intorno. In fondo, i Beatles scappavano da quella fama e dalla prigione del successo in cui erano intrappolati, e hanno realizzato i più grandi capolavori del pop rock. Se sui social smettessimo di spalmare il nostro ego e la velleità di imporre verità e riuscissimo a imparare qualcosa, anche quel chiacchiericcio diventerebbe qualcos’altro. Però è più importante riempirci di selfie pieni di filtri, trasformando il tutto in una sterile pornografia dell’apparenza. Ma basta con il cinismo: la musica non potrà fermarsi perché per ogni azione, ci sarà sempre una reazione opposta e contraria, per cui iniziamo tutti a pensare alla musica di domani, perché deve partire da noi.
 

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!