13/01/2018

Paolo Tocco, un libro, un cd e un felice ritorno

‘Ho bisogno di aria’ è il nuovo lavoro del cantautore abruzzese, tra intimismo e libertà
Un libro e un cd. Roba ambiziosa, da artista arrivato che vuole togliersi la soddisfazione di incrociare – sottolineandolo con vigore e decisione – parole e musica, righe del pentagramma e di un volume. Non è proprio il caso di Paolo Tocco, cantautore difficile da intervistare perché preferisce le controdomande alle risposte, preferisce essere ellittico e rilanciare pur di stimolare ulteriori riflessioni nell’intervistatore e nel lettore. Un uomo di dialogo insomma. Probabilmente è merito della sua origine provinciale – quell’Abruzzo sempre presente anche quando è defilato, distante – che gli fa gustare il sapore e il succo di incontri, conversazioni, scambi di opinioni. Insomma parlare con lui, più che fare un’intervista, è scambiare visioni e pezzi di mondo, anche quando al centro del nuovo libro c’è tanta rabbia.
Ho bisogno di aria è un romanzo, Ho bisogno di aria è un cd. Se poi si tratta di musica che ha ispirato un libro, di scrittura che si è tradotta in musica, di un mix di entrambe le cose o di due binari paralleli che non si toccano mai, sarà lui a dircelo, fresco di una pubblicazione che sta riscuotendo notevole interesse.
 
 
Anime sotto il cappello ti vide debuttante, Il mio modo di ballare è stato il disco della definizione di un linguaggio, torni dopo un paio d’anni con Ho bisogno di aria. Un progetto più ampio che merita un approfondimento. Intanto il disco: che differenze ci sono tra questo tuo terzo lavoro e i precedenti?

 
Innanzitutto grazie di cuore Donato… parlare con te è altrettanto difficile e impegnativo.
Ho bisogno di aria è un disco che sta incarnando in tutto e per tutto una rivoluzione personale, un percorso che pretende sempre più spazio, in qualche modo richiede e cerca nuove persone, nuove sfumature, nuove forme da dare alla musica. Sono in cerca io stesso, anche se non come vorrei, di nuove frontiere personali e nuove esperienze che mi facciano crescere, che mi facciano diventare tanto altro ancora.
In questo romanzo come in questo disco c’è tanta rabbia perché costantemente, e so di parlare per tantissimi altri (per non dire tutti), siamo continuamente le vittime di un sistema di comunicazione, di attenzione e di diffusione della musica assolutamente privo di merito, di spazio e di bellezza. Quindi se i primi lavori sono dedicati a quella ingenua ambizione di diventare o di arrivare, Ho bisogno di aria è un progetto che racchiude la consapevolezza di dover restituire all’opera che si crea l’importanza di esistere, perché purtroppo il percorso di diventare e assai in salita, più di quel che meritiamo tutti, più di quel che posso le nostre piccole forze. Insomma, il discorso è famosissimo e penso che lo conosci benissimo…
 
Non sei nuovo alla letteratura, visto che parallelamente alla musica hai avviato un percorso da scrittore. Due anni fa i racconti Il mio modo di ballare, ora il romanzo Ho bisogno di aria. La differenza tra i due lavori non credo sia solo il genere di narrativa…
 
Beh certamente Il mio modo di ballare erano racconti, volevo rappresentare le singole canzoni attraverso storie di fantasia per restituire al pubblico una visione più completa di un quadro racchiuso nei pochi minuti di un brano. Questo romanzo, anche se all’inizio voleva replicare la stessa formula, racconta un’unica grande storia, uno spaccato di vita di questo protagonista che ho voluto chiamare Henry proprio in omaggio ad Henry Chinaski del grande Bukowski.
Se nei racconti del primo libro il linguaggio e l’approccio è dolce, romantico e decisamente nostalgico, questo libro invece traduce la rabbia con un piglio volgare, diretto, non bada ai cliché della forma e attinge a piene mani non solo dal famoso Bukowski, ma da tutta una certa letteratura della beat generation. Si, forse è questa la vera grande differenza. L’urgenza, più che l’estetica.
 
La tua canzone è fortemente – inevitabilmente, mi verrebbe da dire… – italiana, ma un paio di titoli, cioè Traditional Love Song e Tom Waiz rivelano qualcosa di diverso, o mi sbaglio?
 
Impossibile non essere italiani, come credo sia altrettanto impossibile non venir contaminati da tutta quella che è la canzone d’autore italiana, ognuno per il proprio carattere e gusto, soprattutto poi per chi come me decide di dare questa precisa letteratura alle canzoni. Ma in particolare su questo nuovo disco ci sono tanti momenti che, a prescindere dai titoli divertenti che ho cercato di dare, vogliono e timidamente provare a dare altra forma alla mia solita italianità.
È un disco molto live, è un disco molto poco attento alla bellezza estetica dei suoni, ci sono tantissime improvvisazioni, anche io spesso suono e canto dal vivo in presa diretta e in mono peraltro, quasi come se stessi facendo un provino. In particolare queste canzoni che citi sono veramente due momenti particolari in cui cerco di articolare un linguaggio folk davvero poco italiano. Sono due canzoni semplicemente di amore e di-amanti: in particolare la prima si basa su un giro tradizionale folk (da qui il titolo) e la seconda in qualche modo si diverte a scimmiottare un andamento noir, molto “Tom Waits” con le giuste virgolette… sicuramente sono i brani “meno italiani” del disco.
 
In Bella Italia parli di “architetti della fantasia”, “professori di filosofia” e “santi”: a chi ti riferisci?
 
Mi riferisco a tutta questa Italia che ci circonda in cui si pratica il grandissimo sport dell’essere sempre in diritto di avere un pensiero su tutto. Non puoi immaginare quanto sono arrivato a non sopportare l’idea che tutti oramai, anche e soprattutto grazie ai social, vengono legittimati ad essere giudici ed esperti su tutti i fronti del sapere. E la cosa più grave è che nessuno fa niente per auto disciplinare se stesso (pura utopia, vero?), educarsi e darsi dei limiti invece che aprire bocca su tutto senza spesso avere la benché minima competenza in merito. Forse sono loro i veri protagonisti della grande crisi che da più parti celebriamo e raccontiamo.
In questa canzone in particolare prendo come bandiera le macerie che non vogliono essere solo le macerie di un terremoto ma anche le macerie della vita quotidiana, quelle di mafia piuttosto che di grandi crac economici. E alla fine, altro scenario tremendamente quotidiano e reale, sotto le macerie ci finiscono solo i “Santi” a quanto pare, quelli che De André avrebbe chiamato “anime contadine” o quelle che Gianmaria Testa ha chiamato “i seminatori di grano”, quelli insomma che rappresentano il vero popolo, quello di tutti giorni. Io li ho chiamati semplicemente “Santi”, come a dire “Santi tutti di Dio”. E qui per chiudere, passami questa riflessione assai infantile, assai conveniente e populista: ma raramente sotto le macerie ci vedi chi di quelle stesse macerie ne è il responsabile! Ma, tornando a citare Faber quando dice “Per quanto voi vi crediate assolti sarete comunque coinvolti…”: beh allora vero è che, vittime o carnefici, spettatori colpiti direttamente o passanti indifferente del caso, tutti, ma proprio tutti alla fine pagheremo il prezzo di quelle macerie. Alla fine tutti siamo sotto quelle macerie.
 
Ho bisogno di aria suona come un album particolarmente corale (con tanto di sporadici live recording), pur essendo un punto di vista personale, individuale. Quanto conta avere alle spalle, anzi accanto, una squadra affiatata?
 
Conta tantissimo! Ho avuto la fortuna di avere accanto persone che mi hanno letteralmente regalato il loro tempo, la loro passione, la loro musica e, soprattutto il loro mestiere. In prima fila c’è Amedeo Micantoni che con me ha prodotto e a arrangiato i brani di questo disco. Poi Danilo Florio, al violino, altra colonna portante di questo lavoro. E poi la lista diventa veramente lunga ma tra tutti citerei ovviamente Marco Contento per le batterie, Walter Cartelli per le percussioni, Piero Delle Monache per il sax e tanti altri citati ovviamente nei crediti.
Un pensiero in rosa lo mando alla splendida Patrizia Cirulli che mi ha regalato la sua voce per il brano Pizzburgh… e anche con lei ho trovato questa magica voglia di incontrarsi e di collaborare e senza chiedere niente in cambio. Sotto questo punto di vista sono stato molto fortunato ma è anche vero che questa è l’ennesima dimostrazione di quanta bella energia abbiamo da dare al nostro bel paese. La stessa che stiamo ignorando ogni giorno.
 
Spesso nei dischi ci si imbatte in canzoni talmente importanti da segnare una direzione a sé. Nel caso di Ho bisogno di aria c’è l’incontro con Arrivando alla riva. Probabilmente il tuo brano più importante…
 
Sicuramente è un brano molto importante per me, delicato anche per il modo in cui cerco di mettere le mani su un tema importante come la tragedia degli sbarchi clandestini sulle nostre coste. Ho avuto in origine tanta paura e ripensamenti sul pubblicare questo brano perché in qualche modo sembra sempre che si voglia un poco speculare su qualcosa che faccia già notizie di suo, e quindi in un certo senso sembra quasi un accodarsi al grande rumore mediatico per far arrivare così anche la propria voce. Ovvio che non è così ma le malelingue colpiscono sempre, come ci cantava Ivan Graziani. Questa canzone non vuole insegnare, non vuole giudicare, non vuole neanche raccontare un dramma che vive di buona salute purtroppo sotto gli occhi di tutti ogni giorno… immagini che probabilmente oramai ci hanno anche assuefatti al dolore. In tutta umiltà questa canzone vuole solo raccontare il mio punto di vista, come io guardo le cose che accadono, come mi rapporto a loro, sul come reagisco al grande film della tragedia che passa in televisione. Perché io come tanti, ho la fortuna (che in qualche modo ha le sembianze di una vigliaccheria) di assorbire queste tragedie reali solo come scene di un film che passano in televisione! Maledetta Televisione. Anche in questo ci ha reso uguali…
 
Arrivando alla riva ci dà l’assist per una riflessione che in tempi di piombo, vinili, cortei e dibattiti, sarebbe stata inevitabile: l’impegno, il messaggio, il voler dire qualcosa. Riconosci attuale, sensata e utile la dicotomia tra canzone impegnata e non?
 
Perchè una canzone sia serva e complice del messaggio, il popolo, questo messaggio, lo deve ascoltare prima, e deve capirlo e poi… infine deve eventualmente condividerlo o comunque è chiamato a reagire. Questa fase credo sia la vera ricchezza dell’incontro con le anime. Ma non ti pare che oggi manchino proprio la basi di questo processo? Non pensi che oggi manchi proprio UN POPOLO CHE TI ASCOLTA? A prescindere da quello che dici e da quello che condivide poi…
Sinceramente penso che oramai il degrado comunicativo e qualitativo che si restituisce all’arte come elemento di cultura e di bellezza, sia così elevato e così presente nelle abitudini di tutti e su tutti i fronti che non penso esista più e non abbia più senso parlare di messaggi e di canzoni impegnate nel sociale. Trovo che così come la mia canzone come quella di un grandissimo artista oggi non abbia più forza e spazio per contribuire ad una sensibilizzazione sociale. Ovviamente un grande artista ha una forza mediatica per arrivare a più persone, ma io ho la forte impressione che qualunque sia il messaggio, oggi venga perso, diluito, annientato da un’indifferenza dilagante che sinceramente mi fa molto paura.
Oltre a vedere tantissima ignoranza attorno, vedo anche una scarsissima curiosità, una scarsissima voglia di inseguire notizie, di informarsi davvero e soprattutto vedo una scarsissima se non inesistente reazione del pubblico di fronte a quello che riesce ad arrivare. Basti guardare quanto la nostra quotidianità è infetta dalla cultura di massa cioè cultura spazzatura, da una televisione ormai inguardabile, dal livello qualitativo delle cose che si fanno, da tutte le forme di speculazione artistica come i Talent… fino ad arrivare ad un sistema politico “corrotto” (e anche senza virgolette andrebbe bene scriverlo) e disastroso sotto tanti punti di vista. Fatto ammenda di ciò, io tremo nel vedere poi come TUTTI NOI del popolo italiano reagiamo a quello che ci viene fatto ogni giorno: e cioè restiamo in silenzio, indifferenti. La NON REAZIONE è l’epilogo della vicenda. Ovviamente esiste qualche gruppo di attivisti della “contro-cultura”, ma sempre pochi a cui viene dato sempre pochissimo spazio, sempre sparuti, sempre isolati. Non esiste neanche più un popolo come quello che viveva in quel “tempo di piombo” di cui parlavi tu, quando i ventenni delle università scendevano a combattere contro i carri armati. Purtroppo…
 
Cambia tutto in continuazione, dalla scrittura all’ascolto, la canzone viene ascoltata e dimenticata in tempo reale…
 
Esatto, una canzone oggi, così come la canti così è stata ignorata. Le canzoni più forti o più fortunate che godono il lusso di venir ascoltate (perché ormai è un lusso anche solo avere spazio per farsi ascoltare da un pubblico indifferente), saranno dimenticate qualche minuto dopo, forse un pugno di giorni più in là, raramente durano qualche settimana. Sarò pessimista e disfattista, ma dimostratemi il contrario. Io lo vivo sulla mia pelle ogni giorno. Non penso potremmo citare una canzone italiana contemporanea che verrà ricordata anche domani… come potremmo invece dire di qualunque canzone del passato, da De Andrè a De Gregori passando per i Litfiba (giusto per fare un po’ di esempi colorati). Arrivando alla riva è una canzone che personalmente reputo importante. Se fosse stata in bocca ad un big oggi avrebbe ben altro spazio. Ma in fondo cade a fagiuolo la meravigliosa canzone di Enzo Avitabile dal titolo Attraverso l’acqua cantata con De Gregori: stesso tema, stesse figure retoriche, decisamente una qualità compositiva e un valore poetico immenso. Beh, senza presunzione, ma penso che quella canzone come la mia abbiano avuto la stessa vita. E se umilmente si potrebbe anche accettare che la mia lo meriterebbe, di certo l’arte di Avitabile non merita una simile indifferenza. E fine della storia.
 
Piccolo spazio pubblicità. Il mio brano preferito è Mary, forse quello più insaporito di folk-rock all’americana…
 
Grazie di cuore! Una canzone leggera per raccontare di una domenica mattina che, sul marciapiede del grande viale che mi portava in studio, vidi a lavoro una prostituta, l’unica che in 38 anni abbia mai visto camminare per le strade della mia città. Mi sono fermato a guardarla, capire, a giocare nel vedere come la realtà della città reagiva ad un personaggio assolutamente sfacciato e ingombrante per il buon costume puritano di tutti. L’ho chiamata Mary, un nome di fantasia che stava bene nella metrica della canzone. Il resto è una vera e propria storia domenicale di ordinaria ipocrisia della provincia. Che divertimento appostarsi per vedere il viavai nascosto di amici e conoscenti che poi giudicano la vita degli altri. Che in provincia siamo 4 gatti e delle volte ci trovi anche qualche cane randagio…
 
Al tempo del precedente album parlammo tanto delle tue influenze, da De Gregori a Damien Rice. Forse è ancora presto per chiederti se pensi di aver influenzato qualcuno, però arrivato al terzo disco mi piacerebbe sapere chi tra i tuoi colleghi ritieni abbia un songwriting affine al tuo.
 
Poter influenzare qualcuno, oltre ovviamente ad avere una carriera densa di grandissimi traguardi culturali, e anche qualcosa figlio del discorso che facevamo prima. Oggi io per primo, se dovessi riferirmi a qualcuno devo pescare ovviamente sulle grandi canzoni immortali. E questo penso che sia un processo che fanno tutti. Anche perché, se vogliamo veramente essere sinceri, più mi guardo attorno ad oggi e più trovo un continuo copiarsi addosso formule estetiche vincenti. Soprattutto la scena indie che deve raschiare il barile della notorietà è assai piena di questi fenomeni: scoperto un suono ed un messaggio che funziona e che arriva bene al pubblico, lo si copia e incolla per ripeterlo sul prossimo disco / artista. E qui gli esempi da fare sono tantissimi. Personalmente non ho mai pensato a chi degli amici cantautori della mia generazione abbia un modo di scrivere affine al mio. Mi piace tantissimo Francesco Forni, mi piace tantissimo GNUT, mi piace tantissimo Cesare Basile e potrei continuare. Ultimamente ho ascoltato il nuovo disco di Edoardo Chiesa Le nuvole si spostano comunque che uscirà il mese prossimo e devo dirti che la sua scrittura mi fa sentire molto a mio agio, un disco che mi è arrivato al cuore.
 
A proposito di songwriting, la scrittura di una canzone, come insegnano in tanti da Baglioni a Bubola, è un minuzioso lavoro di artigianato, o di “arte popolare”, per citare Mogol. La canzone di Paolo Tocco è così? O le tue sono getti impulsivi e viscerali, come accade a tanti tuoi colleghi?
 
I miei testi sono assolutamente istintivi e figli del caso. Anche il romanzo è stato scritto di getto in poco più di tre giorni. Ovviamente in un secondo momento cerchi di lavorare di fino andando a cambiare e a curare i dettagli. Ho già iniziato a scrivere cose nuove ed uno degli elementi che voglio valorizzare di più e appunto il testo. Una cosa che vorrei cominciare a fare e sperimentare la canzone partendo proprio dal testo e non, come ho fatto fino ad ora, partendo da un’idea melodica da sviluppare poi con il suono, dello strumento così come della voce.
 
Hai debuttato al FLA 2017 a Pescara, sei in giro tra presentazioni e concerti. Come si svilupperà la vita di Ho bisogno di aria?
 
A differenza degli altri lavori, questa volta ho deciso di mettermi in gioco un pochetto. Come sai non sono molto propenso alla vita live e su questo tema potremmo parlare per ore. Sto cercando quindi location intime e raffinate per dare a questo disco una cornice è una vita coerente con quello che è. Quindi, forte anche di un romanzo, sto cercando di visitare librerie, piccoli club dedicati alla canzone d’autore, qualche piccolo teatro e sicuramente tutte quelle occasioni in cui si restituisce spazio all’ascolto di una canzone che come avevi detto tu prima, contiene in sé il messaggio prima ancora della semplice (si fa per dire) musica.

 

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