Roma. Siamo vicini al Chiostro del Bramante, a un passo da piazza Navona. Nascosto nelle strette stradine del centro della Capitale, il Teatro L’Arciliuto che ha ospitato, lo scorso 16 gennaio, la presentazione dal vivo del nuovo lavoro dell’artista napoletano Roberto Michelangelo Giordi, Il soffio. Dopo due album interessanti, pubblicati rispettivamente nel 2011 e nel 2012, è a questo che Giordi affida la propria definitiva maturazione dal punto di vista interpretativo e compositivo.
Cominciamo proprio dal nome: hai iniziato a pubblicare dischi firmandoti Roberto Giordi, e il primo s’intitolava proprio Con il mio nome; ma, in realtà, questo è un tuo pseudonimo, e ora che siamo arrivati al terzo hai deciso di aggiungere in mezzo il tuo vero nome, Michelangelo. Come mai questa scelta?
In realtà, avevo per così dire “tarpato” una parte di me nei primi due album. Aggiungere “Michelangelo” è stato come liberare quella parte, una scelta fatta in tandem col mio produttore artistico [Gigi De Rienzo, ndr]. Forse così si creerà una certa confusione “mediatica”, ad esempio Spotify, a causa di questo cambiamento, elenca due diversi artisti, ma non credo che influirà più di tanto sulla ricezione del disco. Si tratta anche di scelte di vita, non solo artistiche. Questo lavoro ha rappresentato un cambiamento non indifferente per me, e modificare il mio nome d’arte è venuto da sé.
Anche il tuo contributo come autore è via via cresciuto nei tuoi album: in genere ti occupi della composizione musicale e sei passato da tre brani in Con il mio nome alla quasi totalità di quelli contenuti ne Il soffio.
Io nasco principalmente come cantante; ho scritto qualcosa in passato, ma non avevo mai dato spazio alla mia creatività. Soprattutto il primo album può essere considerato come una sorta di compilation di musica d’autore. Adesso, al contrario, ho approcciato anche la scrittura dei testi, anche se continuo ad avvalermi della collaborazione di Alessandro Hellmann per quanto riguarda la loro stesura: è un caro amico ed è il paroliere che preferisco. Un disco non si realizza da soli, ma con l’aiuto e il supporto di altre persone: e mi piace farli così, insieme a musicisti che non necessariamente provengano dal mio ambito stilistico, essenzialmente world e jazz.
Il tuo coinvolgimento come autore ha influito anche allo spostamento dello stile predominante in ogni album? Se il primo suonava molto jazzy e Gli amanti di Magritte evidenziava influenze arabeggianti, siamo ora davanti a un cantautorato più classico, quasi pop.
Evoluzione perfettamente individuata. Il soffio è volutamente pop: è il mio tentativo di contrastare la musica che ci viene imposta dalle hit radio, una musica e una lingua fortemente influenzate dall’inglese, ormai onnipresente. Io cerco di andare nell’altra direzione: preferisco un pop più raffinato.
Un tuo impegno “testuale” sull’album, però, è proprio in inglese, The Fairies’ Song; come mai hai deciso di inserire questo brano nella tracklist?
Si tratta di una scelta fatta insieme a Fabrizio Calì, un altro amico autore con cui mi piace collaborare: aveva scritto questa ninna nanna in italiano, che avevo apprezzato molto; volevo riarrangiarla e l’ho trasformata in un inglese un po’ “intrigante”, poetico e magico come il titolo; avevo voglia di cimentarmi anche in questo campo, visto che tra i miei ascolti preferiti ci sono, ad esempio, il cantautorato di James Taylor e il jazz di George Benson e Chet Baker.
Il tuo principale interlocutore per quanto riguarda i testi, come hai già accennato, rimane però Alessandro Hellmann. L’immagine dominante nella musica d’autore è quella di un artista che canta le proprie parole, magari affidando la scrittura della musica ad altri: con te, invece, siamo davanti all’esatto contrario, un po’ come avveniva tra Elton John e Bernie Taupin.
Sì, spesso e volentieri mi affido completamente a lui: generalmente, gli invio la musica e lui la rispedisce con le parole. Ma è anche questo che differenzia il mio lavoro dal cantautorato classico italiano: una ricerca impostata sul suono. La musica è bella perché è varia: l’importante è che ci sia un pensiero forte dietro, cosicché possa assumere varie forme, restando comunque valida.
Entriamo nello specifico squisitamente “letterario” di alcuni brani: ne L’amore nell’era glaciale sono presenti alcuni versi danteschi della Divina Commedia, come “L’amor che move il sole e l’altre stelle”; da dove viene l’idea di inserirli nel testo?
Nella versione originale della canzone, questi versi non c’erano; infatti sul libretto del CD non sono riportati. Gigi De Rienzo insisteva sul fatto che questo brano non avesse un ritornello, elemento che per me non è assolutamente necessario; però, visto che il pezzo tratta dell’amore eterno, che va al di là del tempo e dello spazio, ho avuto l’idea di riprendere Dante Alighieri che parla dell’eterno per antonomasia. È una ripresa del tutto “innocente”, che però vuole omaggiare un grande poeta italiano e vuole conferire anche un po’ di dignità letteraria a un “semplice” testo per musica.
L’altro gancio al mondo dei libri è Il vecchio e il mare, che cita l’omonimo romanzo di Hemingway. Che cosa ti ha colpito di questo personaggio tanto da dedicargli una canzone?
Ne avevo discusso con Hellmann; volevo che questo brano parlasse del tempo, della memoria, come un po’ tutto il disco; volevo che parlasse della vita e del dolore di un uomo. Il testo, come il romanzo, racconta perciò una lotta disperata per la sopravvivenza tra l’uomo e la natura, rivelando l’intima ferinità della nostra specie.
Ora che l’album è uscito, quali sono i tuoi programmi per promuoverlo?
Dopo la prima di Roma, presenterò il lavoro a Napoli il 27 gennaio e a Sorrento a fine febbraio; per marzo stiamo organizzando un tour nelle principali città del Nord Italia. Vogliamo far conoscere questo lavoro; devo ammettere che mi piacerebbe anche andare a suonare all’estero, specialmente in Francia e in Germania, dove credo che l’album potrebbe incontrare un buon apprezzamento.
Al termine dell’intervista, Giordi è salito – o meglio “disceso”, vista la particolare disposizione della sala del teatro – quasi immediatamente sul palco, presentando i brani de Il soffio oltre ad alcuni dei suoi personali “classici”. Visibilmente emozionato, non ha però disdegnato di esibirsi anche al pianoforte in qualche canzone, nonché di introdurre quasi ogni pezzo con alcuni simpatici aneddoti. Cantava generalmente immobile, fermo dietro l’asta del microfono, con gli occhi chiusi, cercando quel soffio che trasportasse lui e il suo pubblico in una dimensione “altra”. E il pubblico, al termine, lo ha ringraziato.
Cominciamo proprio dal nome: hai iniziato a pubblicare dischi firmandoti Roberto Giordi, e il primo s’intitolava proprio Con il mio nome; ma, in realtà, questo è un tuo pseudonimo, e ora che siamo arrivati al terzo hai deciso di aggiungere in mezzo il tuo vero nome, Michelangelo. Come mai questa scelta?
In realtà, avevo per così dire “tarpato” una parte di me nei primi due album. Aggiungere “Michelangelo” è stato come liberare quella parte, una scelta fatta in tandem col mio produttore artistico [Gigi De Rienzo, ndr]. Forse così si creerà una certa confusione “mediatica”, ad esempio Spotify, a causa di questo cambiamento, elenca due diversi artisti, ma non credo che influirà più di tanto sulla ricezione del disco. Si tratta anche di scelte di vita, non solo artistiche. Questo lavoro ha rappresentato un cambiamento non indifferente per me, e modificare il mio nome d’arte è venuto da sé.
Anche il tuo contributo come autore è via via cresciuto nei tuoi album: in genere ti occupi della composizione musicale e sei passato da tre brani in Con il mio nome alla quasi totalità di quelli contenuti ne Il soffio.
Io nasco principalmente come cantante; ho scritto qualcosa in passato, ma non avevo mai dato spazio alla mia creatività. Soprattutto il primo album può essere considerato come una sorta di compilation di musica d’autore. Adesso, al contrario, ho approcciato anche la scrittura dei testi, anche se continuo ad avvalermi della collaborazione di Alessandro Hellmann per quanto riguarda la loro stesura: è un caro amico ed è il paroliere che preferisco. Un disco non si realizza da soli, ma con l’aiuto e il supporto di altre persone: e mi piace farli così, insieme a musicisti che non necessariamente provengano dal mio ambito stilistico, essenzialmente world e jazz.
Il tuo coinvolgimento come autore ha influito anche allo spostamento dello stile predominante in ogni album? Se il primo suonava molto jazzy e Gli amanti di Magritte evidenziava influenze arabeggianti, siamo ora davanti a un cantautorato più classico, quasi pop.
Evoluzione perfettamente individuata. Il soffio è volutamente pop: è il mio tentativo di contrastare la musica che ci viene imposta dalle hit radio, una musica e una lingua fortemente influenzate dall’inglese, ormai onnipresente. Io cerco di andare nell’altra direzione: preferisco un pop più raffinato.
Un tuo impegno “testuale” sull’album, però, è proprio in inglese, The Fairies’ Song; come mai hai deciso di inserire questo brano nella tracklist?
Si tratta di una scelta fatta insieme a Fabrizio Calì, un altro amico autore con cui mi piace collaborare: aveva scritto questa ninna nanna in italiano, che avevo apprezzato molto; volevo riarrangiarla e l’ho trasformata in un inglese un po’ “intrigante”, poetico e magico come il titolo; avevo voglia di cimentarmi anche in questo campo, visto che tra i miei ascolti preferiti ci sono, ad esempio, il cantautorato di James Taylor e il jazz di George Benson e Chet Baker.
Il tuo principale interlocutore per quanto riguarda i testi, come hai già accennato, rimane però Alessandro Hellmann. L’immagine dominante nella musica d’autore è quella di un artista che canta le proprie parole, magari affidando la scrittura della musica ad altri: con te, invece, siamo davanti all’esatto contrario, un po’ come avveniva tra Elton John e Bernie Taupin.
Sì, spesso e volentieri mi affido completamente a lui: generalmente, gli invio la musica e lui la rispedisce con le parole. Ma è anche questo che differenzia il mio lavoro dal cantautorato classico italiano: una ricerca impostata sul suono. La musica è bella perché è varia: l’importante è che ci sia un pensiero forte dietro, cosicché possa assumere varie forme, restando comunque valida.
Entriamo nello specifico squisitamente “letterario” di alcuni brani: ne L’amore nell’era glaciale sono presenti alcuni versi danteschi della Divina Commedia, come “L’amor che move il sole e l’altre stelle”; da dove viene l’idea di inserirli nel testo?
Nella versione originale della canzone, questi versi non c’erano; infatti sul libretto del CD non sono riportati. Gigi De Rienzo insisteva sul fatto che questo brano non avesse un ritornello, elemento che per me non è assolutamente necessario; però, visto che il pezzo tratta dell’amore eterno, che va al di là del tempo e dello spazio, ho avuto l’idea di riprendere Dante Alighieri che parla dell’eterno per antonomasia. È una ripresa del tutto “innocente”, che però vuole omaggiare un grande poeta italiano e vuole conferire anche un po’ di dignità letteraria a un “semplice” testo per musica.
L’altro gancio al mondo dei libri è Il vecchio e il mare, che cita l’omonimo romanzo di Hemingway. Che cosa ti ha colpito di questo personaggio tanto da dedicargli una canzone?
Ne avevo discusso con Hellmann; volevo che questo brano parlasse del tempo, della memoria, come un po’ tutto il disco; volevo che parlasse della vita e del dolore di un uomo. Il testo, come il romanzo, racconta perciò una lotta disperata per la sopravvivenza tra l’uomo e la natura, rivelando l’intima ferinità della nostra specie.
Ora che l’album è uscito, quali sono i tuoi programmi per promuoverlo?
Dopo la prima di Roma, presenterò il lavoro a Napoli il 27 gennaio e a Sorrento a fine febbraio; per marzo stiamo organizzando un tour nelle principali città del Nord Italia. Vogliamo far conoscere questo lavoro; devo ammettere che mi piacerebbe anche andare a suonare all’estero, specialmente in Francia e in Germania, dove credo che l’album potrebbe incontrare un buon apprezzamento.
Al termine dell’intervista, Giordi è salito – o meglio “disceso”, vista la particolare disposizione della sala del teatro – quasi immediatamente sul palco, presentando i brani de Il soffio oltre ad alcuni dei suoi personali “classici”. Visibilmente emozionato, non ha però disdegnato di esibirsi anche al pianoforte in qualche canzone, nonché di introdurre quasi ogni pezzo con alcuni simpatici aneddoti. Cantava generalmente immobile, fermo dietro l’asta del microfono, con gli occhi chiusi, cercando quel soffio che trasportasse lui e il suo pubblico in una dimensione “altra”. E il pubblico, al termine, lo ha ringraziato.