Rolling Stones: non è solo rock and roll!
Guido Michelone pubblica con Diarkos un nuovo libro sul mito di Jagger e Richards
Non è solo rock and roll. Dice bene Guido Michelone, che da docente di storia della musica afroamericana, oltre che da prolifico saggista jazz, si è avvicinato al mito dei Rolling Stones sottolineando l’impatto extramusicale che Jagger e Richards hanno avuto nel corso degli anni. Il libro è pubblicato da Diarkos, ne parliamo con l’autore.
Non è solo rock and roll, caro Guido, quello degli Stones. Non è un caso che il tuo libro abbia questo sottotitolo, visto che metti in evidenza tutti gli aspetti che hanno contribuito a creare il più grande fenomeno della cultura pop insieme ai Beatles. Quali sono stati i principali elementi grazie ai quali la band è diventata l’istituzione che tutti conosciamo?
Gli elementi sono sostanzialmente due: la longevità e la trasgressione.
Il primo, la longevità, riguarda il presente nel senso che gli Stones sono stati fra i pochi gruppi a superare alcuni traumi dell’abbandono di un membro fondamentale della band, presto sostituito, senza mutare la fisionomia, al punto che oggi diciamo tutti che in fondo gli Stones del 2022 sono sempre gli stessi o meglio fedeli o uguali a se stessi. Infatti nel 1968 e nel 1976 perdono la chitarra solista (prima il fondatore Brian Jones che muore, poi il giovane Mick Taylor che se ne va) e vanno avanti egualmente; poi nel 1991 se ne va l’anziano del gruppo, il basso (Bill Wyman) che non viene nemmeno sostituito ufficialmente e l’anno scorso, deceduto per malattia, persino la storica flemmatica batteria che teneva unito il gruppo (Charlie Watts), anch’egli non rimpiazzato con un nome di grido. Eppure gli Stones continuano a essere gli Stones grazie a Mick Jagger (la voce, i testi) e Keith Richards (la chitarra, le musiche) oltre Ron Wood che pare da sempre uno di loro benché all’inizio fosse uno Small Faces di Rod Stewart (ossia band dalla forte personalità durante la Swinging London).
Ma l’altro elemento, la trasgressione, è fondamentale per gli inizi, musicalmente bluesy e al contempo in grado di inventare il rock per antonomasia. Gli Stones restano fedeli a se stessi e da vent’anni in qua ripetono ogni volta, dal vivo, lo stesso concerto, che a loro ottantenni è concesso o perdonato.
Sugli Stones si è scritto tanto, qual è il tuo punto di vista in materia?
Anche per ragioni editoriali mi sono attenuto a redigere un testo divulgativo: talvolta le analisi troppo dettagliate (spesso basate sul gossip) tendono a perdere i contatti con i giovani d’oggi che magari sanno a malapena chi sono gli Stones. E io ho invece la speranza con il mio libro di tentare di coinvolgere anche il pubblico di sedicenni, oltre ripassare la lezione con quarantenni fino agli ottuagenari, del resto coevi con Jagger & Company.
A proposito di scrittura sulla band: mentre sui Beatles in Italia esiste una corposa letteratura, gli Stones sono meno gettonati, come si evince anche dalla bibliografia che citi. Qual è il motivo secondo te?
I Beatles, scomparsi come gruppo nel 1970, sono subito entrati nel mito anche perché per un decennio abbondante nessuno dei quattro, con le carriere soliste, ha mai voluto riflettere su se stessi quale band. Lo hanno fatto dopo la morte di Lennon, gli altri tre separatamente e tutti insieme per una sola occasione, quella dell’Anthology. E poi i Beatles hanno lanciato messaggi subliminali, ancor oggi di ardua decifrazione. I Rolling invece, essendo ancora uniti, sono un work in progress che va continuamente aggiornato e per i quali nessun libro al momento potrà dire la parola definitiva.
Chiedo al docente di musica afroamericana qual è stato il contributo di questa nella musica degli Stones?
Le future Pietre Rotolanti partono tutte con il blues che è la base dell’intera black music da sempre. Il primo omonimo album The Rolling Stones è fatto tutto da cover di blues e in genere di sound afroamericano (soul e r’n’b). E lo spirito blues o black permea l’intera produzione rollingstoniana, sia pur con sfumature diverse a seconda dei periodi. E non dimentichiamo che, oltre le uscite soliste di Watts sul jazz, di Jagger su reggae e funk, di Richard e Wyman su blues e rockabilly, oggi la ritmica è composta da due afroamericani (Darryl Jones e Steve Jordan) con passate esperienze jazz e fusion.
Un tuo parere sulla figura di Brian Jones, la vera anima musicale del gruppo.
Lo è stato nel primo periodo, salvo poi da autolesionista allontanarsi dalla band fino a distruggersi con più o meno consapevolezza. A lui va il merito di aver condotto la band, tra il 1967 e il 1968 verso la psichedelia in un album e un eclettismo quasi beatlesiano in altri due: un sound oggi rinnegato dagli altri superstiti, ma che invece andrebbe riscoperto, in quanto carico di novità rimaste chiuse a quell’esperienza.
A Woodstock non c’erano i Beatles ma neanche i Rolling Stones, che però pochi mesi dopo erano sul palco di Altamont ad assistere a una tragedia che avrebbe chiuso le utopie degli anni Sessanta. Dopo Altamont gli Stones hanno ancora incarnato la alterità generazionale dell’epoca?
Non andarono nemmeno a Wight l’anno dopo, festival che assieme a Woodstock e Altamont, nell’immaginario, segna la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra in cui il rock entra definitivamente nello show business e perde la propria carica eversiva, tornata con una nuova generica grazie al punk attorno al 1976-1977. I Rolling Stones quindi si adeguano a diventare fenomeni da ‘arena rock’ – che per molti versi è la negazione dello spontaneismo giovanile – di cui Led Zeppelin e Deep Purple sono gli storici apripista.
Nel 1970 cessa l’attività dei Beatles, gli Stones invece continuano indisturbati: quali erano le loro differenze musicali?
Molti semplice: a livello di cultura musicale i Beatles provengono dal rock and roll, dal pop song, dalla canzone classica, i Rolling Stones dal blues afroamericano.
Vuoi segnalare ai più giovani lettori di Jam i brani o gli album assolutamente indispensabili da conoscere?
Brani quattro, epocali: Paint It Black l’urto e la forza, As Tears Go By il romanticismo, Love in Vain la cover da Robert Johnson (forse il miglior blues nero ripreso da inglesi) ed Angie, ancora il lato romantico, assai meno sdolcinato di quello pur eccellente dei Beatles di Girl o Michelle. E tra gli album, almeno quattro, il primo The Rolling Stones, il classico Aftermath, lo sporco Exile On Main St e il testamentario Blue & Lonesome.