23/03/2015

Steve Earle & The Dukes, Terraplane

Intervista al singer/songwriter texano in occasione dell’uscita del suo nuovo album
“Il Blues è democratico, tutti lo sentono dentro di sé, qualche volta. Non discrimina, non gli interessa il colore della tua pelle, quanti soldi hai, il tuo orientamento sessuale. Entra a far parte di tutti, prima o poi”.
Già nel 1986 Steve Earle aveva dedicato uno dei brani di Guitar Town, suo album d’esordio, al “vecchio amico blues”. Ventotto anni dopo arriva Terraplane, un disco interamente consacrato a un genere che per il singer/songwriter texano continua ad avere un grande significato. Ci sono voluti quasi dieci anni di gestazione, un divorzio – quello dalla settima moglie, la cantante country Allison Moorer – e il ritorno con la prima, storica band dei The Dukes. “Sentivo semplicemente che era arrivato il momento di realizzare un disco di questo tipo”, spiega, mentre mi parla al telefono da New York. “Nell’ultimo paio d’anni ho scritto alcuni pezzi blues e avevo a disposizione la band perfetta. Il lavoro su The Mountain, il mio album completamente bluegrass, mi era piaciuto molto, così ho deciso che allo stesso modo stavolta tutto sarebbe ruotato intorno a canzoni esclusivamente blues. Vengo dal Texas; da noi non esiste un Los Angeles shuffle o un New York shuffle, ci sono solo il Chicago Shuffle e il Texas Shuffle”, esclama ridendo. “Dalle mie parti un’idea del genere è una cosa seria, ma ho deciso di provarci comunque”.
 
L’album deve il suo titolo a un brano del leggendario chitarrista Robert Johnson, uno dei padri del blues, che con la sua Terraplane Blues aveva trasformato in velata metafora sessuale un’auto, la Terraplane appunto, che costituiva uno degli status symbol negli Stati del Sud degli anni Trenta. Un nome pensato originariamente solo per il suo potere evocativo, dato che mentre Robert Johnson e il mito del suo patto con il diavolo al crocevia sono omaggiati nel testo di The Tennessee Kid, nella prima versione del disco non è contenuta alcuna cover del pezzo: “Terraplane Blues non è nell’album, però è stata registrata. Ne ho incisa una versione da solo che sarà disponibile come singolo nei negozi di dischi americani. In qualche modo in futuro verrà distribuita anche in Europa, probabilmente come edizione limitata. Il singolo dovrebbe avere la mia cover su un lato, e sull’altro l’originale di Robert Johnson”.
 
Nella realizzazione del disco, anche I Dukes hanno avuto un ruolo fondamentale. Una delle principali fonti d’ispirazione per Earle è stata infatti l’influenza del chitarrista della band, Chris Masterson. Un bluesman di tutto rispetto con una brillante carriera: già a 13 anni si esibiva nei locali di Houston, diventando poi sidemusician per diversi artisti affermati come Son Volt, Jack Ingram e Bobby Bare Jr., senza dimenticare infine i vari successi del duo formato con la moglie Eleanor Whitmore, anch’essa nei Dukes. “Quando abbiamo iniziato a suonare insieme, Chris era un giovane chitarrista prodigio”, racconta. “Al tempo in cui l’ho incontrato suonava con Wayne Hancock. Gran parte della mia decisione di realizzare un album blues è stata dettata dalla sua presenza nei Dukes, ma anche tutti gli altri componenti mi sono stati d’ispirazione. È la migliore band che io abbia mai avuto. Ci sono poi diverse altre persone che incontro spesso e che mi hanno fornito la spinta necessaria, mi sento molto fortunato a ricevere degli stimoli un po’ dappertutto”.
 
Nonostante lo stile fortemente americano, larga parte di Terraplane è stata concepita nel corso di un tour europeo che Steve Earle ha intrapreso in solitaria nel 2014, poco dopo l’uscita dell’album dell’anno precedente, The Low Highway: “Ho speso un sacco di tempo in Europa e una buona porzione del mio lavoro è stata scritta durante il periodo trascorso nel vostro continente. Credo che l’ultima canzone sia stata composta proprio in Italia. Per la maggior parte del tour ho viaggiato da solo, passando un sacco di tempo in ferrovia o sull’autostrada. Questo mi ha dato moltissimo tempo per pensare. Sui treni ho anche suonato, qualche volta; avere viaggiato in questo modo così a lungo ha dato molto alla mia musica in acustico.
Penso che nella vostra cultura il pubblico prenda molto più seriamente il rock e il blues rispetto all’America. Ho amato suonare negli stadi alle dieci di sera o in piazze antiche, in Italia, ed è sempre un piacere tornare a esibirmi per delle persone che tengono così tanto in considerazione il mio lavoro”.
 
Anche se in Terraplane è un aspetto che non viene trattato, lungo il corso di tutta la sua carriera Steve Earle non ha mai rinunciato all’impegno politico e umanitario, scagliandosi anche violentemente contro la società americana. Ha denunciato la situazione dei reduci del Vietnam, da anni porta avanti una campagna contro la pena di morte, ha fortemente criticato il governo Bush, ha manifestato la sua opposizione alle guerre in Iraq e Afghanistan. Tutto ciò ha reso i suoi brani interessanti per diversi artisti impegnati, che hanno riproposto le sue canzoni, come Johnny Cash o Joan Baez, giusto per citarne due. Earle tuttavia non ama venire inquadrato come “cantante politico”, ma unicamente come “persona politica”: “Le mie canzoni non trattano solo di politica, scrivo più pezzi riguardo alle ragazze o a qualsiasi altra cosa. Però scrivere testi su questo tema non mi spaventa, e la politica è davvero importante per me, come è importante quello che succede nel mondo. Io sono uno che va a votare, a volte sento un coinvolgimento davvero intenso verso le cose e questo mi provoca delle reazioni molto forti. Ad esempio mi sono battuto a lungo per l’abolizione della pena di morte e a questo scopo ho viaggiato intorno al mondo, venendo anche in alcune parti dell’Italia. Cerco di supportare moltissimo le voci che dall’Italia si levano contro la pena di morte negli Stati Uniti”.
 
A ottobre dello scorso anno, Earle è apparso tra gli ospiti dell’ultimo album di Marianne Faithfull insieme a Nick Cave, Roger Waters, Brian Eno, Leonard Cohen e molti altri musicisti. A lui è stato riservato un ruolo di primo piano, visto che  il texano ha scritto a quattro mani con la singer/songwriter inglese la title track Give My Love To London: “Poter lavorare con Marianne Faithfull è stato davvero un onore. All’inizio avrei dovuto essere io a produrre il suo album, ma poi Marianne si è fatta male e il suo recupero ha richiesto più tempo di quanto pensassimo. Quando sono iniziate le registrazioni ero già impegnato in un tour e quindi è stato necessario trovare qualcun altro che lo facesse al posto mio, ma alla fine sono riuscito comunque ad avere il mio nome accanto al suo per una canzone e lo ritengo un privilegio”.
 
Per il futuro invece Earle ha già diversi progetti in programma, tra cui il suo nuovo libro I Can’t Remember If We Said Goodbye (titolo preso dal testo del brano Goodbye dal suo album Train A’ Comin) che uscirà molto probabilmente nel corso dell’estate 2015 e un nuovo disco, che stavolta sarà dedicato totalmente al country: “I Can’t Remember If We Said Goodbye è un libro di memorie. Non si tratta propriamente di un’autobiografia; è diviso in tre atti e parla in gran parte del recupero, della guarigione.
Metà delle canzoni del mio prossimo album sono già state scritte, non sarà un disco che farò da solo ma un ritorno come band. Sarà un disco country; è successo quasi per caso, ho scritto alcuni brani del genere per Nashville e poi ho proseguito”.
 
 

 

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