25/03/2015

Un manifesto di originalità conservatrice

Tony Face Bacciocchi racconta Paul Weller. Vololibero pubblica il nuovo libro sul leader di Jam e Style Council
Personalità poliedrica, Tony Face Bacciocchi. A partire da quel “Face” portato avanti con orgoglio dai primi anni di musica, quando in Italia schierarsi dalla parte dei Mods aveva un significato ben preciso, tra politica, moda, società e musica “di lotta e di governo”. Il batterista e autore piacentino torna con un nuovo libro per i tipi di Vololibero, dedicato a uno dei suoi grandi miti di sempre: Paul Weller. L’uomo cangiante – Paul Weller: The Modfather è un’esplorazione completa nella vicenda umana e artistica dell’artista britannico, dai Jam alla sua intrigante attività solista, passando per l’anomala esperienza soul-militante degli Style Council. In occasione del recentissimo annuncio welleriano di due date italiane a luglio e dell’attesissimo nuovo album Saturn’s Pattern, scambiamo qualche impressione con Bacciocchi.
 
Il titolo e il sottotitolo sembrano contraddirsi: come fanno a convivere l’inossidabile orgoglio Mod e l’attitudine camaleontica del suo padre?
Mod-ernismo è cambiamento, è guardare avanti, sperimentare, essere curiosi e aperti a tutte le influenze. Pur conservando però le radici ben salde in certi valori artistici, estetici, etici e filosofici, Weller non ha mai fatto un album uguale all’altro fin dai tempi dei Jam. Talvolta ha sbagliato, ma sicuramente ha sempre sorpreso ad ogni uscita.
 
Paul Weller viene dalla working class: quanto è stata importante per lui tale provenienza? Non è un caso che la sua ascesa coincida con la fine delle band alla Genesis, figlie dell’alta borghesia britannica…
È una matrice di cui è sempre stato orgoglioso e a cui è sempre stato fedele anche quando lo ha messo in difficoltà, quando gli si rinfacciava la sua fede socialista, in presunto contrasto con il successo (anche economico). I Jam furono inseriti nel calderone punk (per quanto ne fossero lontani e da cui si staccarono, sdegnosamente, praticamente da subito) che, come è noto, nel ’77 cancellò furiosamente tutto il vecchio rock pomposo.
 
Un elemento decisivo è il suo amore per i Beatles. È qualcosa che riguarda solo i suoi esordi oppure l’affetto per i Fab Four segue la sua intera vicenda discografica?
Lui dice ironicamente che i Beatles gli hanno rovinato la vita compositiva con la perfezione delle loro canzoni pop strofa-ritornello-strofa-ritornello. In realtà, insieme agli Small Faces, i Beatles rimangono il costante punto di riferimento di ognuno dei suoi dischi.
 
Il tuo libro analizza anche l’evoluzione politica di Weller. Che differenze ci sono, da questo punto di vista, tra The Jam e Style Council?
I Jam raccontavano  l’Inghilterra dei tempi (fine anni ’70) in modo più personale, più intimista. Con gli Style Council lui si schiera apertamente all’estrema sinistra: i testi si fanno militanti, duri, con bersagli precisi, senza mezzi termini. Riesce nell’improbabile tentativo di portare la politica in discoteca (molti brani degli Style Council erano perfettamente ballabili!). Ne uscirà amaramente scottato.
 
The Jam e Style Council sono stati due momenti decisivi per la sua popolarità e la crescita musicale. Due formazioni lontanissime, ma tu parli di “tutt’altra musica ma eguali radici”…
Le radici sono sempre state le stesse: soul, rhythm and blues, modern jazz, black music, anche se con gli Style Council elimina drasticamente il rock ‘n’ roll (nel primo album Cafè bleu l’uso della chitarra è sempre molto limitato). Gli Style Council evolvono il percorso che in cinque anni aveva portato i Jam dallo stato di pub rock band anfetaminica a quello di energica funk-soul band. Aggiunge rap, hip hop, elettronica, jazz e prosegue coraggiosamente un cammino artistico davvero unico.
 
Nel ripercorrere la carriera welleriana, ti sei imbattuto in album snobbati o incompresi che meritano di essere rivalutati?
Due in particolare: il secondo dei Jam, This is the modern world, unanimemente considerato il loro peggiore. In realtà, uscito sei mesi dopo l’esordio, In the city, è esemplificativo dell’urgenza del periodo, quando non si perdeva tempo ad elaborare particolari strategie discografiche o a trascorrere mesi in studi a rifinire questo o quello. Sono bellissime l’immediatezza, le imprecisioni, l’ingenuità di certe canzoni, tre accordi appena abbozzati. Ha ancora una freschezza incredibile. E poi Confessions of a pop group degli Style Council: un lavoro pomposo, super arrangiato, con lunghe suite semi strumentali con archi e pianoforte. Un lavoro molto ambizioso che fu fatto a pezzi dalla critica ma che invece denota la completezza della scrittura di Weller.
 
Tu sei un batterista: quanto è stato influente Weller nella musica di Not Moving, Lilith e Link Quartet?
Molto poco (purtroppo). Ho portato sempre la mia cultura e il mio background musicale, anche se spesso lontani dalla proposta dei gruppi in cui suono e ho suonato. Probabilmente un po’ di Weller è entrato dalla finestra.
 
Dalla batteria alla penna: prima di Weller hai scritto di Gil Scott-Heron, Statuto e del rock di Piacenza, la tua città. C’è stato un filo conduttore nella stesura dei tuoi titoli?
Mi sono accorto che alla fine continuo a parlare delle mie radici musicali. Scrivo per diletto, di conseguenza solo di ciò che mi piace. Inevitabile finire a parlare di Weller, mods, black music…
 
A differenza di tanti colleghi, Weller è poco propenso alla tecnologia, o meglio detesta Internet: come ti sei spiegato questa cosa?
Non so quanto siano dichiarazioni di facciata perché nella sua musica la tecnologia entra eccome. L’avversione a Internet è tipica del suo carattere “contro”. Tutti lo usano e allora io mi ci dichiaro contro. In realtà ha un sito, un profilo Facebook e tanto altro sempre puntualmente e perfettamente aggiornati.
 
Weller solista. Una carriera in dodici dischi, lanciata nel 1992. Su quali coordinate si è mossa la vicenda in solo dell’uomo cangiante?
Ha ancora una volta azzerato tutto dopo il crollo degli Style Council ed è ripartito da altre basi (Small Faces, Traffic, Nick Drake, Bowie). Da lì ha elaborato un nuovo sound che si è fatto sempre più personale e riconoscibile, continuando comunque a cambiare nel corso degli anni.
 
Sonic Kicks (2012) è l’ultimo album in studio, se ne parlò molto per la qualità e la varietà. Il 18 maggio uscirà finalmente Saturn’s Pattern: cosa ti aspetti?
Le premesse (alcuni brani già usciti sul web e qualcuno eseguito dal vivo) sono ancora una volta sorprendenti. Il sound sembra essersi indurito, inasprito, incattivito. Mi ha lasciato davvero stupito. Vedremo, sono molto curioso.
 
Per l’occasione ci saranno anche due concerti italiani, 5 luglio a Gardone Riviera, 9 luglio a Roma. Cosa puoi dirci in merito?
Ogni suo concerto ha una scaletta con brani diversi dal precedente. In questo tour ci sono pochi classici e brani di Jam e Style Council. Dai video che ho visto mi sembra comunque in forma eccellente.
 
Rispetto ad altri monumenti viventi della cultura musicale britannica, da Macca a Peter Gabriel, da Bowie a Morrissey, che peculiarità credi abbia lasciato Weller?
Ha portato avanti con originalità conservatrice (sembra un ossimoro, ma è la realtà welleriana) la tradizione musicale britannica, rimanendo uno dei pochi nomi credibili in grado di continuare a farlo.

 
 

 

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!