Chitarrista, saggista, docente, direttore artistico, trottola sonora difficile da beccare, inquadrare e incasellare. Enrico Merlin è una delle figure più anomale e prolifiche del panorama nostrano, tant’è che per celebrare i suoi 50 anni, si è preso la briga di produrre una sua antologia, con la bellezza di 50 brani, uno ad anno.
Un irregolare come te non poteva non pubblicare un manifesto di irregolarità con un titolo-epitaffio: Never Again. 50 anni, 50 pezzi, di che si tratta?
Fondamentalmente ho deciso di produrre in autonomia un’antologia che raccontasse il percorso della mia vita artistica, tra momenti di fortunate esposizioni e lunghe fasi di ricerca e sperimentazione. Una raccolta in 5 CD virtuali che ho deciso di regalare a chi ama la mia musica, a chi mi ha sostenuto in tutti questi anni di attività. Qui l’ascoltatore troverà alcune delle mie più prestigiose collaborazioni (con John Surman, Maria Schneider, Markus Stockhausen, Steve Swallow and Carla Bley, Paolo Fresu, Médéric Collignon…) a fianco a miei progetti musicali, molti dei quali rimasti inediti malgrado la mia discografia personale consti ormai di oltre 40 incisioni.
Il titolo, ispirato alla serie You Can Do That On Stage Anymore di Frank Zappa, si riferisce al fatto che il gesto artistico è, e deve rimanere, inevitabilmente irripetibile. Unico e irripetibile. I primi tre pezzi esemplificano abbastanza bene l’orientamento del disco: folk dal sapore levantino, ballate dal respiro meditativo e avventure sulla tastiera. Un album a tre anime?
Più che altro un “fermoimmagine in costante movimento”… Ad esempio c’è il tuo primo lavoro solista, uscito quasi dieci anni fa, ovvero Lookin’ for (…a title). Un disco ovviamente irregolare: ti capita di riascoltarlo?
Ogni tanto la riproduzione casuale dell’iPod me ne butta fuori qualche traccia. Mi fa uno strano effetto riascoltare le mie cose del passato. Quello fu comunque un disco importante per me e peraltro, per onore di cronaca, tu fosti uno dei primi ad accorgersi del mio stile. Te ne sono veramente grato.
Un progetto che può interessare molto ai nostri lettori riguarda le chitarre (e le corde), ovvero 69 Strings – 12 Guitars. È un ensemble al quale sei molto legato…
Sì, questo è uno dei miei progetti più ambiziosi. Con altri 9 chitarristi e 3 bassisti di ottimo livello, provenienti dalle più disparate aree stilistiche, suoniamo in cerchio con il pubblico in mezzo, in un reale surround a 12 punti, più il centrale nel mezzo. La musica porta davvero lontano, ma purtroppo suoniamo pochissimo, malgrado non esista nulla di simile al mondo, a parte una formazione più piccola che ha spudoratamente copiato il nostro modello. In compenso loro sembrano avere un ottimo ufficio marketing…
Al tuo legame con la figura di Miles Davis si accostano i Funky Football, un’altra formazione unica nel suo genere…
Anche quella è stata una bella avventura, soprattutto quando siamo stati invitati a Clusone Jazz (con ospite Médéric Collignon) e al Vossa Jazz in Norvegia (con Steven Bernstein); ne facevano parte Danilo Gallo, Veniero Rizzardi, Alfonso Santimone, Federico Scettri e Tino Tracanna. Oggi però lavoro con una nuova band, un progetto collettivo che ci sta dando un sacco di soddisfazioni, denominato Molester sMiles. Il repertorio è costituito prevalentemente da brani originali, ma l’estetica riparte dove arrivava Funky Football, cioè il periodo di On the Corner di Miles. Ne fanno parte Massimiliano Milesi, Roberto Pascucci, Achille Succi, Giancarlo Tossani e Ricky Turco e devo dire che le diverse provenienze stilistiche dei componenti garantiscono un risultato imprevedibile.
Il tuo ultimo album Unframed… Straight Ahead ha visto partecipe una fetta sostanziosa dei tuoi ammiratori, che lo hanno finanziato “dal basso”. Il crowdfunding cambia quotidianamente: a distanza di un po’ di tempo dalla tua iniziativa, ritieni si tratti di una pratica da incrementare e valorizzare?
Il crowdfunding può effettivamente rivelarsi un’arma a doppio taglio, ma credo che se adoperata nella maniera giusta, sia un ottimo mezzo di diffusione. Trovo invece ridicolo il ricorso a questo metodo, quando utilizzato da star del Pop e del Rock. Per loro diventa solo una verifica dello stato del proprio fanbase. Per noi invece, veri indipendenti, talvolta può rivelarsi l’unica soluzione per produrre i nostri lavori su supporto fisico o per realizzare progetti altrimenti impossibili.
Il Saggiatore ha pubblicato due tuoi testi che nel corso degli anni sono diventati delle vere e proprie ‘reference’. il primo riguarda Miles Davis e nello specifico Bitches Brew. Un disco del quale si è parlato a dismisura e si è scritto altrettanto, ma secondo te quell’operazione, nelle sue premesse e nei suoi sviluppi (persino incontrollati), è stata compresa fino in fondo?
Grazie per questa tua domanda, che tra le righe contiene in sé già la risposta. Bitches Brew è un disco multidimensionale. Nemmeno i musicisti che vi hanno preso parte hanno saputo davvero esplorare e rinnovare quel mondo, dopo di allora. Tutti, o quasi, hanno ‘catturato’ e sviluppato solo alcuni degli aspetti della musica di quest’opera sonora così complessa per metodi concettuali e realizzativi. Lo spazio per un’ulteriore esplorazione c’è, ma sono necessari coraggio e soprattutto una ‘visione’. Pochi musicisti, soprattutto oggi però, riescono a fare loro la frase di Thelonious Monk, quando diceva: «I say, play your own way. Don’t play what the public wants. You play what you want and let the public pick up on what you’re doing — even if it does take them fifteen, twenty years». E questo è necessariamente il primo passo…
Il tuo 1000 dischi per un secolo, secondo titolo per Saggiatore, ha girato l’Italia lasciando un segno profondo. Il nuovo secolo è iniziato da 15 anni, stai appuntando i dischi fondamentali per il secondo volume?
Appunti, quelli sempre, in continuazione, essendo io – come te – un irriducibile melomane. In questa fase, dopo così tanta scrittura di parole, sono però maggiormente concentrato sulla scrittura musicale e sulla mia attività di performer. Ma la voglia di tornare a fissare pensieri sulla carta è sempre in agguato… e non è escluso che in un futuro prossimo…
Una cosa che spesso ricordi è la tua esperienza da negoziante di dischi: quanto è importante per chi lavora in campo musicale avere questo tipo di contatto?
Quindici anni di uno dei lavori più belli del mondo non si possono dimenticare con facilità. Un vero negoziante di dischi è un Indiana Jones della cultura sonora, è un archeologo, ma anche un esploratore spazio-temporale, un’archivista e un ricercatore, un serpente tentatore schiavo per primo della sua passione. Un amante appassionato poligamo e a tratti indecente. Come spesso dico, quella è stata la mia università. Il posto dove ho imparato a sollecitare la mia curiosità, scoprire cose nuove continuamente. E questa ricerca continua ancora oggi.
Enrico Merlin docente. Più che la didattica, mi interessa molto capire la ricezione da parte degli allievi. Come è cambiato l’interesse dei ragazzi alla pratica e alla conoscenza dello strumento negli ultimi anni?
Discorso spinoso. Da anni mi chiedo se sia meglio o peggio che in passato. Oggi possiamo accedere con facilità a una marea di informazioni, legalmente e illegalmente. Tutto è disponibile. Ai miei tempi si facevano le trasferte a Monaco per selezionare e acquistare metodi e trascrizioni. Al massimo si ordinavano per corrispondenza. Si acquistavano i dischi (o ci si faceva fare le cassette dagli amici) e gran parte della musica si ‘tirava giù’ a orecchio. Oggi è tutto più facile, ma questo rischia di provocare un approccio più superficiale. Tutti quelli della mia generazione ricordano come ogni disco rappresentasse una sorta di sacro simulacro, che si scandagliava ben oltre la profondità dei solchi. Non è più così nell’era della musica liquida. Per contro oggi, grazie alla facilità di interconnessione tra individui e supporti, assistiamo mediamente a un notevole incremento delle capacità strumentali nei giovani. Forse non nella personalità, e questo forse è il guaio, anche se ovviamente talenti straordinari continuano ad emergere. Forse ci vorrà tempo affinché si impari a gestire tutta questa mole di informazioni, o forse lo sviluppo del talento non è direttamente proporzionale alla quantità di informazioni disponibili.
Tra le varie attività che ti caratterizzano, c’è anche la direzione artistica di una sezione importante del festival TrentinoInJazz, quella che un tempo si chiamava NonSoleJazz. In base a quali criteri selezioni le proposte per questa rassegna, e soprattutto: cosa puoi anticiparci per l’edizione 2015?
Da tredici anni ho l’onore (e come si suol dire, l’onere) di dirigere questa rassegna di concerti, seminari, conferenze e attività varie. Negli anni il Festival ha assunto una caratteristica sempre più autonoma rispetto alla maggior parte degli eventi apparentemente simili in Italia. Il Festival è votato alla promozione di artisti e produzioni originali, spesso fuori dai giri delle grosse manifestazioni. Questo non per atto di snobismo, ma per necessario bisogno di mantenere le posizioni nella promulgazione delle forme improntate all’evoluzione dei linguaggi musicali, anziché favorire quelle proposte che si accomodano nelle poltrone sicure del mainstream o della musica ‘innocua’. Ripeto, non per un approccio intellettuale o snob, ma perché il nostro paese è già ricco di Festival che rispondono principalmente a due tipologie: quelli che programmano sempre i soliti grandi nomi (molti dei quali stranieri) e quelli che pur mantenendo un profilo di promozione alternativa ai grandi circuiti non si spingono quasi mai nei territori della ricerca o comunque dei linguaggi contemporanei (nel senso letterale del termine). Eppure anche in chi fa musica ‘non allineata’ vi sono molte proposte che riescono a raggiungere il pubblico più generalista. Lo dimostra il successo e la fidelizzazione del pubblico in questi 13 anni. Certo il viaggio e lungo e periglioso, ma dobbiamo tenere le posizione, anche in contrapposizione a quegli amministratori che con una certa spocchia affermano: «chi riempie la piazza vince!».
Quest’anno, in previsione del 90° compleanno di Miles Davis, dedicheremo gran parte delle serate all’esplorazione del linguaggi insiti nella sua musica, andando molto oltre… a distanze siderali, nell’ottica esposta più sopra. Quest’anno si è poi consolidata la partnership con il MART di Rovereto, che sempre più dimostra di voler espandere i propri orizzonti oltre i confini delle arti visive e plastiche. Ci sarà da divertirsi, raggiungeteci nelle Valli del Noce, in Trentino, alla fine di luglio e ne sentirete delle belle!
Un irregolare come te non poteva non pubblicare un manifesto di irregolarità con un titolo-epitaffio: Never Again. 50 anni, 50 pezzi, di che si tratta?
Fondamentalmente ho deciso di produrre in autonomia un’antologia che raccontasse il percorso della mia vita artistica, tra momenti di fortunate esposizioni e lunghe fasi di ricerca e sperimentazione. Una raccolta in 5 CD virtuali che ho deciso di regalare a chi ama la mia musica, a chi mi ha sostenuto in tutti questi anni di attività. Qui l’ascoltatore troverà alcune delle mie più prestigiose collaborazioni (con John Surman, Maria Schneider, Markus Stockhausen, Steve Swallow and Carla Bley, Paolo Fresu, Médéric Collignon…) a fianco a miei progetti musicali, molti dei quali rimasti inediti malgrado la mia discografia personale consti ormai di oltre 40 incisioni.
Il titolo, ispirato alla serie You Can Do That On Stage Anymore di Frank Zappa, si riferisce al fatto che il gesto artistico è, e deve rimanere, inevitabilmente irripetibile. Unico e irripetibile. I primi tre pezzi esemplificano abbastanza bene l’orientamento del disco: folk dal sapore levantino, ballate dal respiro meditativo e avventure sulla tastiera. Un album a tre anime?
Più che altro un “fermoimmagine in costante movimento”… Ad esempio c’è il tuo primo lavoro solista, uscito quasi dieci anni fa, ovvero Lookin’ for (…a title). Un disco ovviamente irregolare: ti capita di riascoltarlo?
Ogni tanto la riproduzione casuale dell’iPod me ne butta fuori qualche traccia. Mi fa uno strano effetto riascoltare le mie cose del passato. Quello fu comunque un disco importante per me e peraltro, per onore di cronaca, tu fosti uno dei primi ad accorgersi del mio stile. Te ne sono veramente grato.
Un progetto che può interessare molto ai nostri lettori riguarda le chitarre (e le corde), ovvero 69 Strings – 12 Guitars. È un ensemble al quale sei molto legato…
Sì, questo è uno dei miei progetti più ambiziosi. Con altri 9 chitarristi e 3 bassisti di ottimo livello, provenienti dalle più disparate aree stilistiche, suoniamo in cerchio con il pubblico in mezzo, in un reale surround a 12 punti, più il centrale nel mezzo. La musica porta davvero lontano, ma purtroppo suoniamo pochissimo, malgrado non esista nulla di simile al mondo, a parte una formazione più piccola che ha spudoratamente copiato il nostro modello. In compenso loro sembrano avere un ottimo ufficio marketing…
Al tuo legame con la figura di Miles Davis si accostano i Funky Football, un’altra formazione unica nel suo genere…
Anche quella è stata una bella avventura, soprattutto quando siamo stati invitati a Clusone Jazz (con ospite Médéric Collignon) e al Vossa Jazz in Norvegia (con Steven Bernstein); ne facevano parte Danilo Gallo, Veniero Rizzardi, Alfonso Santimone, Federico Scettri e Tino Tracanna. Oggi però lavoro con una nuova band, un progetto collettivo che ci sta dando un sacco di soddisfazioni, denominato Molester sMiles. Il repertorio è costituito prevalentemente da brani originali, ma l’estetica riparte dove arrivava Funky Football, cioè il periodo di On the Corner di Miles. Ne fanno parte Massimiliano Milesi, Roberto Pascucci, Achille Succi, Giancarlo Tossani e Ricky Turco e devo dire che le diverse provenienze stilistiche dei componenti garantiscono un risultato imprevedibile.
Il tuo ultimo album Unframed… Straight Ahead ha visto partecipe una fetta sostanziosa dei tuoi ammiratori, che lo hanno finanziato “dal basso”. Il crowdfunding cambia quotidianamente: a distanza di un po’ di tempo dalla tua iniziativa, ritieni si tratti di una pratica da incrementare e valorizzare?
Il crowdfunding può effettivamente rivelarsi un’arma a doppio taglio, ma credo che se adoperata nella maniera giusta, sia un ottimo mezzo di diffusione. Trovo invece ridicolo il ricorso a questo metodo, quando utilizzato da star del Pop e del Rock. Per loro diventa solo una verifica dello stato del proprio fanbase. Per noi invece, veri indipendenti, talvolta può rivelarsi l’unica soluzione per produrre i nostri lavori su supporto fisico o per realizzare progetti altrimenti impossibili.
Il Saggiatore ha pubblicato due tuoi testi che nel corso degli anni sono diventati delle vere e proprie ‘reference’. il primo riguarda Miles Davis e nello specifico Bitches Brew. Un disco del quale si è parlato a dismisura e si è scritto altrettanto, ma secondo te quell’operazione, nelle sue premesse e nei suoi sviluppi (persino incontrollati), è stata compresa fino in fondo?
Grazie per questa tua domanda, che tra le righe contiene in sé già la risposta. Bitches Brew è un disco multidimensionale. Nemmeno i musicisti che vi hanno preso parte hanno saputo davvero esplorare e rinnovare quel mondo, dopo di allora. Tutti, o quasi, hanno ‘catturato’ e sviluppato solo alcuni degli aspetti della musica di quest’opera sonora così complessa per metodi concettuali e realizzativi. Lo spazio per un’ulteriore esplorazione c’è, ma sono necessari coraggio e soprattutto una ‘visione’. Pochi musicisti, soprattutto oggi però, riescono a fare loro la frase di Thelonious Monk, quando diceva: «I say, play your own way. Don’t play what the public wants. You play what you want and let the public pick up on what you’re doing — even if it does take them fifteen, twenty years». E questo è necessariamente il primo passo…
Il tuo 1000 dischi per un secolo, secondo titolo per Saggiatore, ha girato l’Italia lasciando un segno profondo. Il nuovo secolo è iniziato da 15 anni, stai appuntando i dischi fondamentali per il secondo volume?
Appunti, quelli sempre, in continuazione, essendo io – come te – un irriducibile melomane. In questa fase, dopo così tanta scrittura di parole, sono però maggiormente concentrato sulla scrittura musicale e sulla mia attività di performer. Ma la voglia di tornare a fissare pensieri sulla carta è sempre in agguato… e non è escluso che in un futuro prossimo…
Una cosa che spesso ricordi è la tua esperienza da negoziante di dischi: quanto è importante per chi lavora in campo musicale avere questo tipo di contatto?
Quindici anni di uno dei lavori più belli del mondo non si possono dimenticare con facilità. Un vero negoziante di dischi è un Indiana Jones della cultura sonora, è un archeologo, ma anche un esploratore spazio-temporale, un’archivista e un ricercatore, un serpente tentatore schiavo per primo della sua passione. Un amante appassionato poligamo e a tratti indecente. Come spesso dico, quella è stata la mia università. Il posto dove ho imparato a sollecitare la mia curiosità, scoprire cose nuove continuamente. E questa ricerca continua ancora oggi.
Enrico Merlin docente. Più che la didattica, mi interessa molto capire la ricezione da parte degli allievi. Come è cambiato l’interesse dei ragazzi alla pratica e alla conoscenza dello strumento negli ultimi anni?
Discorso spinoso. Da anni mi chiedo se sia meglio o peggio che in passato. Oggi possiamo accedere con facilità a una marea di informazioni, legalmente e illegalmente. Tutto è disponibile. Ai miei tempi si facevano le trasferte a Monaco per selezionare e acquistare metodi e trascrizioni. Al massimo si ordinavano per corrispondenza. Si acquistavano i dischi (o ci si faceva fare le cassette dagli amici) e gran parte della musica si ‘tirava giù’ a orecchio. Oggi è tutto più facile, ma questo rischia di provocare un approccio più superficiale. Tutti quelli della mia generazione ricordano come ogni disco rappresentasse una sorta di sacro simulacro, che si scandagliava ben oltre la profondità dei solchi. Non è più così nell’era della musica liquida. Per contro oggi, grazie alla facilità di interconnessione tra individui e supporti, assistiamo mediamente a un notevole incremento delle capacità strumentali nei giovani. Forse non nella personalità, e questo forse è il guaio, anche se ovviamente talenti straordinari continuano ad emergere. Forse ci vorrà tempo affinché si impari a gestire tutta questa mole di informazioni, o forse lo sviluppo del talento non è direttamente proporzionale alla quantità di informazioni disponibili.
Tra le varie attività che ti caratterizzano, c’è anche la direzione artistica di una sezione importante del festival TrentinoInJazz, quella che un tempo si chiamava NonSoleJazz. In base a quali criteri selezioni le proposte per questa rassegna, e soprattutto: cosa puoi anticiparci per l’edizione 2015?
Da tredici anni ho l’onore (e come si suol dire, l’onere) di dirigere questa rassegna di concerti, seminari, conferenze e attività varie. Negli anni il Festival ha assunto una caratteristica sempre più autonoma rispetto alla maggior parte degli eventi apparentemente simili in Italia. Il Festival è votato alla promozione di artisti e produzioni originali, spesso fuori dai giri delle grosse manifestazioni. Questo non per atto di snobismo, ma per necessario bisogno di mantenere le posizioni nella promulgazione delle forme improntate all’evoluzione dei linguaggi musicali, anziché favorire quelle proposte che si accomodano nelle poltrone sicure del mainstream o della musica ‘innocua’. Ripeto, non per un approccio intellettuale o snob, ma perché il nostro paese è già ricco di Festival che rispondono principalmente a due tipologie: quelli che programmano sempre i soliti grandi nomi (molti dei quali stranieri) e quelli che pur mantenendo un profilo di promozione alternativa ai grandi circuiti non si spingono quasi mai nei territori della ricerca o comunque dei linguaggi contemporanei (nel senso letterale del termine). Eppure anche in chi fa musica ‘non allineata’ vi sono molte proposte che riescono a raggiungere il pubblico più generalista. Lo dimostra il successo e la fidelizzazione del pubblico in questi 13 anni. Certo il viaggio e lungo e periglioso, ma dobbiamo tenere le posizione, anche in contrapposizione a quegli amministratori che con una certa spocchia affermano: «chi riempie la piazza vince!».
Quest’anno, in previsione del 90° compleanno di Miles Davis, dedicheremo gran parte delle serate all’esplorazione del linguaggi insiti nella sua musica, andando molto oltre… a distanze siderali, nell’ottica esposta più sopra. Quest’anno si è poi consolidata la partnership con il MART di Rovereto, che sempre più dimostra di voler espandere i propri orizzonti oltre i confini delle arti visive e plastiche. Ci sarà da divertirsi, raggiungeteci nelle Valli del Noce, in Trentino, alla fine di luglio e ne sentirete delle belle!