Musicologo, drammaturgo, docente, saggista, collaboratore di Radio Tre, Ennio Speranza è una personalità dai molteplici interessi e viva curiosità. Se ha deciso di confrontarsi con Nick Drake, è segno che nella discografia pur ridotta di un artista scomparso giovane, con un succinto patrimonio di canzoni, ci sono elementi di notevole interesse.
Non solo: Speranza ha esplorato a fondo Pink Moon, il capolavoro del 1972, individuandone caratteristiche peculiari, temi, direzioni e soprattutto frammentarietà. Ne parliamo con lui, fresco autore del libro edito da Galaad.
Nick Drake e Pink Moon: una disgregazione. Titolo importante, utile anche per impostare la nostra conversazione, partendo proprio da quella parola chiave. Perché é “una disgregazione”?
Perché ho cercato in qualche modo di raccontare quello che secondo me succede in Pink Moon, un album formato da una serie di canzoni che, all’epoca, anche a chi Nick lo conosceva bene, sembravano canzoni non finite, quasi dei provini: invece queste canzoni, flebilissime, asciutte, impalpabili, che paiono sempre sul punto di spezzarsi, contengono forse un nuovo modo di pensare la forma-canzone e, se non proprio nuovo, almeno completamente diverso. Un modo e un mondo a parte. Queste canzoni paiono lì per lì frutto di una disgregazione sia del pensiero sia della forma: si tratta di pezzi brevi, in alcuni casi brevissimi, che non hanno quella segmentazione forte a cui siamo forse sin troppo abituati (strofa-ritornello, oppure chorus-bridge etc.) e procedono per piccoli tasselli, per reiterazioni.
Mi permetterei la piccola vanità di un’autocitazione: «Disgregazione, frammentarietà, quella che è la cronaca di un presunto crollo emotivo e psicologico è anche il crollo della forma canzone, ormai ridotta a brandello di se stessa. Forse è questo quello che inconsciamente ha colpito gran parte dei musicisti estimatori di Drake vent’anni o trent’anni dopo, il fatto che queste canzoni aderissero al testo – e alla mitografia – anche formalmente. Canzoni allora considerate incomplete, frammentarie, esigue, oggi ci appaiono lucide, nel senso anche di levigate, destrutturazioni prive di sbavature o di asperità, coerenti sino al midollo, perfettamente aderenti a una poetica dello sgretolamento e della liquidità che non solo traspare dai testi, ma anche dalle strutture e dalle modalità esecutive. Certo, la parola disgregazione, che spargo a volontà in questo libro, potrebbe essere spesa con intenzioni sia negative sia positive. Quando sei disgregato, o sei a pezzi o ti ritrovi in ogni pezzo. Un mondo in un granello di sabbia, per usare le parole di William Blake, un poeta che Nick Drake amava particolarmente. L’ho detto e lo ridico, Pink Moon disgrega la forma canzone. Lo fa però partendo da posizioni del tipo «none of you stand so tall» di Pink Moon per arrivare al «we are everywhere» di From the Morning.»
La sua discografia è limitata, minima, composta da soli tre album. Come ti spieghi, a fronte di un songbook così scarno, l’amore che ancora oggi riceve, a distanza di quasi cinquant’anni dalla morte?
Se mettiamo da parte la biografia, su cui io mi sono soffermato il minimo possibile (ho cercato di buttarla fuori dalla porta anche se parzialmente mi è rientrata dalla finestra), possiamo dire che Nick Drake, dopo la sua scomparsa, a parte pochi irriducibili estimatori, è stato dimenticato per diverso tempo. Queste canzoni è come se fossero rimaste in frigo e poi, per una serie di coincidenze, e forse perché era arrivato il momento giusto, sono esplose in tutta la loro melanconica e gentile bellezza. Gentile anche nel senso di aristocratica. Forse in quel momento il mondo musicale aveva bisogno di una bellezza di questo tipo, sussurrata, non invadente, tant’è che poi Nick Drake è diventato, intorno agli anni Duemila, il nume tutelare di quella corrente che è stata chiamata New Acoustic.
In quel momento Nick Drake è apparso come una grande novità: in realtà non lo era, ma la sua musica così poco alla moda ha cominciato a fare breccia in un numero sempre maggiore di ascoltatori anche per la magia misteriosa della voce unita a uno straordinario modo di suonare chitarra. Se ci pensiamo, la tutto sommato flebile voce di Nick Drake è penetrante e inimitabile: è anche vero che tutte le voci dei grandi artisti sono in un certo senso inimitabili, però la sua è un po’ più inimitabile degli altri, se mi passate la battuta alla Fattoria degli animali di George Orwell. Tant’è che eseguire cover di Nick Drake è difficilissimo.
A proposito di discografia, quali differenze ci sono tra Pink Moon e i due predecessori Five Leaves Left e Bryter Layter?
Sostanzialmente il fatto che si tratta di un disco realizzato in solitudine in cui emerge il vero sé dell’autore, al di là di ogni pur pregevole rivestimento. Un disco nudo, molto amato dai musicisti perché si respira un’aura di Verità e di Sincerità artistica (non so come dirlo meglio). Ho cercato, forse con un po’ di superbia, di scrivere un libro frammentato, decomposto, cercando di restituire quella disgregazione, quella frammentarietà, quel senso di non finito che si respira appunto in Pink Moon, come se un libro del genere potesse ambire a essere una sorta di specchio musicologico del disco. Un’operazione spericolata, io ci ho provato, non so se ci sono riuscito sino in fondo.
John Martyn gli dedicò Solid Air, ancora oggi non si contano i tributi all’artista, da David Sylvian al nostro Roberto Angelini. Agli occhi, anzi alle orecchie di un musicista, secondo te cosa colpisce di più della poetica drakeiana?
Difficile rispondere a questa domanda sostituendomi a chi questi tributi li ha compiuti. Forse la grande complessità che si cela dietro all’apparente semplicità di questa manciata di canzoni, o il grande calore nascosto dietro un’apparente algidità. Nick Drake è un affascinante ossimoro, Solid air appunto come cantava l’amico John Martyn.
Le sue canzoni in fin dei conti sono delle implosioni, ti colpiscono dritto al cuore senza sgomitare per essere ascoltate. Lo racconta in un suo bel libro di memorie lo stesso Joe Boyd, lo storico produttore: la musica di Nick Drake «restava chiusa in se stessa e non cercava di catturare l’attenzione dell’ascoltatore, rendendosi semplicemente disponibile».
Se parliamo giustappunto di poetica, di una visione dunque più ampia e onmnicomprensiva, che posizione occupa Nick Drake nel panorama dei primi anni ’70 britannici? Credo sia riduttivo classificarlo semplicemente come “cantautore”…
Nick Drake era un musicista completo e la sua musica risente senza dubbio del fermento che agitava quei primissimi anni Settanta in Inghilterra, tra cascami psichedelici, Folk Revival, Blues-Rock, Progressive incipiente e tanto tanto altro ancora. Allo stesso tempo però, come ho detto, Nick Drake non sgomitava, e così come non sgomitava lui, non sgomitava nemmeno la sua musica. Volendo, nei suoi dischi è possibile leggere in filigrana tutto quello che gli accadeva intorno, musicalmente parlando, ma sempre a debita distanza. Le canzoni di Nick Drake sono perfettamente inserite nel suo tempo e contemporaneamente sono fuori dal tempo. Questo è un altro motivo del loro fascino.
Pink Moon è anche l’occasione per addentrarsi nel Drake chitarrista: quali erano le sue peculiarità?
Nick Drake è stato un chitarrista che ha preso le mosse dal folk inglese di Davey Graham, Ralph MacTell, John Renbourn e soprattutto di Bert Jansch, così come dal blues che amava tanto, oltre che da Bob Dylan, sviluppando però un lavoro sulle accordature aperte assolutamente originale e spostando il suo raggio d’azione verso un tipo di canzone più contaminata che potremmo grossolanamente definire Folk-Pop. La peculiarità era sicuramente il modo in cui lasciava che i bassi interagissero con gli acuti e le sonorità degli accordi che usava, ricche di battimenti. Il suo modo di suonare la chitarra paradossalmente non ha fatto scuola proprio perché si è sviluppato in perfetta solitudine e con una originalità che anche oggi è spiazzante.
Nello studiare l’album del 1972, nel soffermarti sui singoli brani da Pink Moon a From the Morning, hai avuto modo di addentrarti nel songwriting. A cinquant’anni di distanza questo disco ha detto tutto o c’è ancora qualcosa di sorprendente?
Credo che me la caverò con una battuta: i grandi dischi, e Pink Moon lo è, non dicono mai tutto una volta per tutte e c’è sempre modo di sorprendersi nel riascoltarli. Insomma, ci si trova sempre dentro qualcosa di nuovo.
Non solo: Speranza ha esplorato a fondo Pink Moon, il capolavoro del 1972, individuandone caratteristiche peculiari, temi, direzioni e soprattutto frammentarietà. Ne parliamo con lui, fresco autore del libro edito da Galaad.
Nick Drake e Pink Moon: una disgregazione. Titolo importante, utile anche per impostare la nostra conversazione, partendo proprio da quella parola chiave. Perché é “una disgregazione”?
Perché ho cercato in qualche modo di raccontare quello che secondo me succede in Pink Moon, un album formato da una serie di canzoni che, all’epoca, anche a chi Nick lo conosceva bene, sembravano canzoni non finite, quasi dei provini: invece queste canzoni, flebilissime, asciutte, impalpabili, che paiono sempre sul punto di spezzarsi, contengono forse un nuovo modo di pensare la forma-canzone e, se non proprio nuovo, almeno completamente diverso. Un modo e un mondo a parte. Queste canzoni paiono lì per lì frutto di una disgregazione sia del pensiero sia della forma: si tratta di pezzi brevi, in alcuni casi brevissimi, che non hanno quella segmentazione forte a cui siamo forse sin troppo abituati (strofa-ritornello, oppure chorus-bridge etc.) e procedono per piccoli tasselli, per reiterazioni.
Mi permetterei la piccola vanità di un’autocitazione: «Disgregazione, frammentarietà, quella che è la cronaca di un presunto crollo emotivo e psicologico è anche il crollo della forma canzone, ormai ridotta a brandello di se stessa. Forse è questo quello che inconsciamente ha colpito gran parte dei musicisti estimatori di Drake vent’anni o trent’anni dopo, il fatto che queste canzoni aderissero al testo – e alla mitografia – anche formalmente. Canzoni allora considerate incomplete, frammentarie, esigue, oggi ci appaiono lucide, nel senso anche di levigate, destrutturazioni prive di sbavature o di asperità, coerenti sino al midollo, perfettamente aderenti a una poetica dello sgretolamento e della liquidità che non solo traspare dai testi, ma anche dalle strutture e dalle modalità esecutive. Certo, la parola disgregazione, che spargo a volontà in questo libro, potrebbe essere spesa con intenzioni sia negative sia positive. Quando sei disgregato, o sei a pezzi o ti ritrovi in ogni pezzo. Un mondo in un granello di sabbia, per usare le parole di William Blake, un poeta che Nick Drake amava particolarmente. L’ho detto e lo ridico, Pink Moon disgrega la forma canzone. Lo fa però partendo da posizioni del tipo «none of you stand so tall» di Pink Moon per arrivare al «we are everywhere» di From the Morning.»
La sua discografia è limitata, minima, composta da soli tre album. Come ti spieghi, a fronte di un songbook così scarno, l’amore che ancora oggi riceve, a distanza di quasi cinquant’anni dalla morte?
Se mettiamo da parte la biografia, su cui io mi sono soffermato il minimo possibile (ho cercato di buttarla fuori dalla porta anche se parzialmente mi è rientrata dalla finestra), possiamo dire che Nick Drake, dopo la sua scomparsa, a parte pochi irriducibili estimatori, è stato dimenticato per diverso tempo. Queste canzoni è come se fossero rimaste in frigo e poi, per una serie di coincidenze, e forse perché era arrivato il momento giusto, sono esplose in tutta la loro melanconica e gentile bellezza. Gentile anche nel senso di aristocratica. Forse in quel momento il mondo musicale aveva bisogno di una bellezza di questo tipo, sussurrata, non invadente, tant’è che poi Nick Drake è diventato, intorno agli anni Duemila, il nume tutelare di quella corrente che è stata chiamata New Acoustic.
In quel momento Nick Drake è apparso come una grande novità: in realtà non lo era, ma la sua musica così poco alla moda ha cominciato a fare breccia in un numero sempre maggiore di ascoltatori anche per la magia misteriosa della voce unita a uno straordinario modo di suonare chitarra. Se ci pensiamo, la tutto sommato flebile voce di Nick Drake è penetrante e inimitabile: è anche vero che tutte le voci dei grandi artisti sono in un certo senso inimitabili, però la sua è un po’ più inimitabile degli altri, se mi passate la battuta alla Fattoria degli animali di George Orwell. Tant’è che eseguire cover di Nick Drake è difficilissimo.
A proposito di discografia, quali differenze ci sono tra Pink Moon e i due predecessori Five Leaves Left e Bryter Layter?
Sostanzialmente il fatto che si tratta di un disco realizzato in solitudine in cui emerge il vero sé dell’autore, al di là di ogni pur pregevole rivestimento. Un disco nudo, molto amato dai musicisti perché si respira un’aura di Verità e di Sincerità artistica (non so come dirlo meglio). Ho cercato, forse con un po’ di superbia, di scrivere un libro frammentato, decomposto, cercando di restituire quella disgregazione, quella frammentarietà, quel senso di non finito che si respira appunto in Pink Moon, come se un libro del genere potesse ambire a essere una sorta di specchio musicologico del disco. Un’operazione spericolata, io ci ho provato, non so se ci sono riuscito sino in fondo.
John Martyn gli dedicò Solid Air, ancora oggi non si contano i tributi all’artista, da David Sylvian al nostro Roberto Angelini. Agli occhi, anzi alle orecchie di un musicista, secondo te cosa colpisce di più della poetica drakeiana?
Difficile rispondere a questa domanda sostituendomi a chi questi tributi li ha compiuti. Forse la grande complessità che si cela dietro all’apparente semplicità di questa manciata di canzoni, o il grande calore nascosto dietro un’apparente algidità. Nick Drake è un affascinante ossimoro, Solid air appunto come cantava l’amico John Martyn.
Le sue canzoni in fin dei conti sono delle implosioni, ti colpiscono dritto al cuore senza sgomitare per essere ascoltate. Lo racconta in un suo bel libro di memorie lo stesso Joe Boyd, lo storico produttore: la musica di Nick Drake «restava chiusa in se stessa e non cercava di catturare l’attenzione dell’ascoltatore, rendendosi semplicemente disponibile».
Se parliamo giustappunto di poetica, di una visione dunque più ampia e onmnicomprensiva, che posizione occupa Nick Drake nel panorama dei primi anni ’70 britannici? Credo sia riduttivo classificarlo semplicemente come “cantautore”…
Nick Drake era un musicista completo e la sua musica risente senza dubbio del fermento che agitava quei primissimi anni Settanta in Inghilterra, tra cascami psichedelici, Folk Revival, Blues-Rock, Progressive incipiente e tanto tanto altro ancora. Allo stesso tempo però, come ho detto, Nick Drake non sgomitava, e così come non sgomitava lui, non sgomitava nemmeno la sua musica. Volendo, nei suoi dischi è possibile leggere in filigrana tutto quello che gli accadeva intorno, musicalmente parlando, ma sempre a debita distanza. Le canzoni di Nick Drake sono perfettamente inserite nel suo tempo e contemporaneamente sono fuori dal tempo. Questo è un altro motivo del loro fascino.
Pink Moon è anche l’occasione per addentrarsi nel Drake chitarrista: quali erano le sue peculiarità?
Nick Drake è stato un chitarrista che ha preso le mosse dal folk inglese di Davey Graham, Ralph MacTell, John Renbourn e soprattutto di Bert Jansch, così come dal blues che amava tanto, oltre che da Bob Dylan, sviluppando però un lavoro sulle accordature aperte assolutamente originale e spostando il suo raggio d’azione verso un tipo di canzone più contaminata che potremmo grossolanamente definire Folk-Pop. La peculiarità era sicuramente il modo in cui lasciava che i bassi interagissero con gli acuti e le sonorità degli accordi che usava, ricche di battimenti. Il suo modo di suonare la chitarra paradossalmente non ha fatto scuola proprio perché si è sviluppato in perfetta solitudine e con una originalità che anche oggi è spiazzante.
Nello studiare l’album del 1972, nel soffermarti sui singoli brani da Pink Moon a From the Morning, hai avuto modo di addentrarti nel songwriting. A cinquant’anni di distanza questo disco ha detto tutto o c’è ancora qualcosa di sorprendente?
Credo che me la caverò con una battuta: i grandi dischi, e Pink Moon lo è, non dicono mai tutto una volta per tutte e c’è sempre modo di sorprendersi nel riascoltarli. Insomma, ci si trova sempre dentro qualcosa di nuovo.