28/01/2021

“Deform To Form a Star” – La vita in musica di Steven Wilson

Tsunami pubblica un ricco libro sulla rockstar inglese
È proprio il caso di dirlo: una vita in musica.
La vicenda artistica di Steven Wilson, sin dai tempi dei primi nastri a metà anni ’80, è fatta di devozione: un percorso con tante diramazioni che non è sempre agevole seguire. Ci hanno provato, per i tipi di Tsunami Edizioni, Marco Del Longo, Domizia Parri e Evaristo Salvi, noti come attivi operatori nel fan club italiano Coma Divine.
Deform To Form A Star. Una vita in musica è il primo libro nostrano su Wilson, ne parliamo con loro.
 
Una vita in musica. La devozione di Steven Wilson alla musica è davvero significativa, è stato questo il filo conduttore del vostro lungo saggio?
Assolutamente sì. Steven Wilson non è una rockstar convenzionale, se possiamo usare questo termine. Nella sua vita privata non ci sono mai stati scandali, gossip o momenti di perdizione personale che ci permettessero di rendere più piccante e appetibile, se non addirittura romanzata, la nostra opera. Se c’è un episodio che si può avvicinare a qualcosa del genere è l’aggressione subita da Chris Maitland, primo batterista dei Porcupine Tree, che portò all’allontanamento di quest’ultimo dalla band. E quale fu il motivo del diverbio? Qualche rimprovero di troppo da parte di Wilson nei confronti di Maitland, reo di essere poco concentrato in sala prove a poche settimane dall’inizio delle sessioni di registrazioni di In Absentia, il primo album del gruppo con una major. Vedete? L’importanza della musica, sempre e comunque.
La vita di Steven è stata (quasi) solamente scandita da questa assoluta devozione. E noi non potevamo che utilizzarla come filo conduttore della nostra opera. Anche se, per essere più corretti, dovremmo parlare di fili conduttori al plurale: il nostro volume, infatti, non prosegue su un’unica linea temporale. Sarebbe stato impossibile, vista la mole di lavoro e l’alto numero di progetti simultaneamente attivi nella carriera di Wilson. Abbiamo dunque proceduto ad un’attenta analisi della biografia e della produzione di ogni singolo progetto, dalle origini ai giorni nostri, così da semplificarci la vita e, soprattutto, dare giusto spazio ed equa importanza a tutta la produzione wilsoniana.
 
La sua popolarità è principalmente dovuta all’esperienza dei Porcupine Tree, ma il percorso è partito molto prima. Karma e Altamont sono solo peccati di gioventù o già a metà anni ’80, con queste prime seminali formazioni, si intravedeva il Wilson più noto?
Bastano due esempi per rispondere a questa domanda: i brani Nine Cats da On the Sunday of Life… e Small Fish da Up the Downstair (rispettivamente primo e secondo album a nome Porcupine Tree) erano stati scritti quando era ancora membro dei Karma, tra i 15 e i 17 anni. Considerando che il primo è ancora oggi uno dei pezzi più amati dal pubblico e che il secondo faceva parte della setlist dell’ultimo concerto della band nel 2010, appare evidente come ci sia – anche qui – un filo conduttore tra lo Steven adolescente e quello adulto noto al pubblico. Poi certo, è anche vero che Wilson non si è mai dichiarato particolarmente entusiasta del fatto che, a fine anni ’90, le fin troppo caserecce ed infantili demo-tape dei Karma siano in qualche modo uscite alla luce del sole, ma questo è indice della natura perfezionista del personaggio, autocritico anche nei confronti di sé stesso bambino.
Al contrario, si è invece fatto promotore della pubblicazione di alcuni nastri degli Altamont, duo di musica sperimentale elettronica coevo ai Karma, e da lui stesso considerato diretto progenitore del più noto progetto ambient e drone solista Bass Communion. Quindi sì, decisamente, già con Karma e Altamont si intravedevano i primi germi di ciò che sarebbe poi diventato: la malleabilità di genere, la passione per lo studio e l’inclinazione alla sperimentazione simultanea in più aree musicali.
 
I Porcupine Tree si sono espressi nel migliore dei modi negli anni ’90, pensiamo a lavori come The Sky Moves Sideways. Era un decennio fortunato, nel quale si poteva trovare grande varietà, dalla scena di Seattle al post-rock, dallo stoner alla rinascita del progressive. Quale posizione si sono ritagliati in quel periodo?
I Porcupine Tree nascono come progetto solista verso la fine degli anni ’80, quando pubblicare brani di venti minuti con assoli di chitarra di dieci sembrava essere qualcosa di vetusto ed improponibile. E forse Steven stesso lo credeva, considerando che il gruppo col quale pensava di trovare il successo e a cui si dedicava con maggiore serietà erano i più accessibili No-Man. Tuttavia, laddove i No-Man faticavano ad imporsi nel mainstream, il progetto Porcupine Tree era riuscito a radunare attorno a sé una nicchia forse non folta, ma decisamente passionevole, fedele ed internazionale, di appassionati di un panorama musicale ormai creduto morto, quello del progressive rock, di cui presto divenne ambasciatore e restauratore.
Una volta diventati una band a tutti gli effetti, i Porcupine Tree non hanno avuto il successo che altre formazioni coeve hanno ottenuto nelle diverse scene del panorama rock che hai appena citato, almeno nell’immediato. Pensiamo ad esempio ai ben più noti Radiohead e Tool, a posteriori associabili al progressive, ma di chiara matrice alternative se non Brit pop i primi, grunge se non metal i secondi. D’altro canto hanno però avuto il merito di catalizzare la rinascita del progressive, avvicinandosi alla tradizione del genere pur senza stagnare nel tradizionalismo. È proprio grazie al loro saper essere attuali nelle contaminazioni stilistiche e nelle tecnologie di incisione che i Porcupine Tree sono riusciti a riportare in auge questo panorama musicale, garantendone una nuova longevità.
 
La band ha cambiato pelle per andare avanti, alienandosi probabilmente vecchie simpatie ma guadagnando ammiratori più giovani negli anni Duemila. Esiste un fil rouge che collega i primi Porcupine a quelli degli ultimi anni?
Il fil rouge è, banalmente, la penna di Wilson, da sempre principale autore della band. I suoi umori, interessi musicali e ambizioni, sono stati di pari passo la causa delle svolte stilistiche del gruppo.
Ti diremo di più: questo fil rouge, per quanto sicuramente più sottile, passa anche per le opere soliste di Wilson, se non anche per i progetti di gruppo paralleli e collaterali. Ascoltando bene l’intero corpus wilsoniano, si possono sentire le sue radici e il suo DNA musicale, dal quale non si è mai separato, per quanto venga proposto nei modi più disparati. Certo, lo sforzo per ricercare queste tracce di DNA è sempre maggiore, ma la musica di Steven non è mai stata di semplice ascolto.
 
Coma Divine fu registrato dal vivo a Roma. Quali sono i motivi di questo amore tricolore per Wilson e soci?
Come scrive lo stesso Wilson nella prefazione al nostro libro, l’Italia è stato il primo Paese ad accogliere in trionfo i Porcupine Tree. Una delle cause può essere innanzitutto rintracciata nell’operato dell’emittente romana Radio Rock, che già a metà anni ’90 pubblicizzava e trasmetteva in heavy rotation brani dei Porcupine Tree, Radioactive Toy e Waiting (Phase Two) su tutti. È probabilmente per questo che Roma è diventata la prima grande roccaforte di sostenitori della band. Inoltre, prima dei tre concerti al Frontiera di Roma del marzo 1997, durante i quali sarebbe stato registrato Coma Divine, i Porcupine Tree si erano già esibiti sei volte in Italia. È evidente dunque come ci fosse già un seguito precoce ed appassionato, probabilmente dovuto alla profonda cultura progressive che permane nel nostro Paese.
Ciò tuttavia non è sufficiente per spiegare il perché del successo di quelle tre date romane. La stessa band, probabilmente, non se lo aspettava: circola in rete una foto dei quattro ragazzi nel backstage, dopo aver ricevuto l’incasso, inginocchiati con le braccia alzate verso il loro manager che, in piedi, tiene tra i denti una consistente mazzetta di soldi. Di sicuro era la prima volta che tornavano a casa con un bottino del genere. L’amore tricolore nei confronti di Wilson prosegue intatto ancora oggi ed è, cosa che ci fa molto piacere, più che corrisposto: più volte Steven ha infatti detto come l’Italia sia il Paese migliore al mondo per chi, come lui, è vegetariano.
 
Quasi in parallelo Wilson insieme a Tim Bowness fonda i No-Man, una sorta di “dark side” che gli consente di sperimentare cose un po’ diverse. Quanto sono importanti per lui?
Il sodalizio di Wilson con l’eclettico Tim Bowness è stato fin dai primissimi istanti estremamente fecondo per entrambi. I due hanno infatti sviluppato e costruito negli anni un’intesa che si basava su un background musicale comune e su intenti di sperimentazione e composizione molto uniformi.
Non siamo certi che questo progetto si possa definire un “dark side” per Wilson, lo sminuirebbe troppo. Piuttosto, l’impegno profuso in esso è stato notevole fin dal principio, e del resto, esattamente come per i Porcupine Tree, il progetto No-Man nasce da un’idea sperimentale dello stesso Wilson, che da solo registra un brano strumentale sotto questo nome, prima ancora di conoscere Bowness. I progetti di Wilson in quegli anni prendono forma di duo o di band “incarnandosi” parallelamente (parliamo degli anni ‘80), e lui li porta avanti dividendosi equamente, e restando a vedere, per così dire, quale sarà quello che lo porterà alla fama. Effettivamente per un certo periodo sembra proprio che siano i No-Man quelli destinati a un grande successo, con un connubio tra cantautorato ed influenze urban e dance che li portarono nei primi anni di carriera ad essere definiti da parte della stampa inglese come “il gruppo pop britannico più interessante dai tempi dei The Smiths”. In ogni caso, l’anima musicale che Wilson ha profuso nei No-Man è diversa per quanto complementare a quella che ha svelato con i Porcupine Tree, o con altri progetti ancora.
Dalla metà degli anni ’90 in poi, Bowness e Wilson hanno sempre lasciato che la creatività li guidasse, senza vincoli, dedicandosi alla musica dei No-Man solo quando si sentivano ispirati. Infatti sono trascorsi anche undici anni tra un album e l’altro del duo. La musica dei No-Man – che da un primordiale synth pop si è evoluta in un più concettuale art rock – rimane comunque da sempre unica e inimitabile, incarnando un aspetto creativo di Wilson estremamente importante per lui. Non per niente con il nuovo album solista l’elettronica, esplorata più volte con i No-Man, ha occupato prepotentemente il ruolo dominante nel suo sound.
 
Wilson è anche produttore e persino artefice di apprezzati mix surround 5.1, dai King Crimson ai Tears For Fears. Possiamo considerarlo come un autentico uomo di studio oppure anche il live gli consente di esprimersi egregiamente?
Chiunque abbia visto Steven Wilson dal vivo negli ultimi giorni dei Porcupine Tree o, ancora meglio, nel corso della sua carriera solista, risponderebbe dicendo che relegarlo a mero “uomo di studio” sarebbe riduttivo ed anacronistico. Sono passati gli anni in cui, con i capelli lunghi davanti al volto e a capo chino sulla chitarra, rivolgeva al pubblico poche parole di circostanza. In particolare da solista, Steven è diventato un frontman carismatico, sempre più sicuro delle sue capacità come esecutore e cantante e consapevole dell’eccellenza dei compagni delle varie line-up con cui si è esibito. Contemporaneamente, il crescente successo commerciale gli ha permesso di investire sempre di più nella produzione dei live, oggi vera e propria esperienza sinestetica e cinematica fatta di suoni quadrifonici, giochi di luce, ologrammi tridimensionali che ingannano la percezione dello spazio e, soprattutto, video ed animazioni immersivi e coinvolgenti, opera – per la maggiore – dei fidi collaboratori Lasse Hoile e Jess Cope.
Ad essere sinceri, se dovessimo cercare di introdurre qualcuno al culto di Wilson, più che all’ascolto di un album in studio, lo inviteremmo ad assistere ad un suo concerto: oggi è lì che si manifesta a pieno la sua grandezza. Speriamo di poterlo fare presto…
 
Con Insurgentes Wilson ha avviato una fortunata carriera solista che ha spaziato tra prog e nuove sonorità. In proprio riesce a esprimere qualcosa di diverso dai suoi numerosi gruppi e progetti?
È in uscita in questi giorni The Future Bites, sesto tassello solista di un percorso iniziato nel lontano 2008. Possediamo dunque dati a sufficienza per rispondere con cognizione di causa. È giusto sottolineare come ciascun album di Wilson solista sia un’esplorazione originale in una o più determinate direzioni musicali. Dopo esser stato certo di aver detto tutto in queste direzioni, volge il suo sguardo altrove, senza tornare mai sui suoi passi. Ogni album è, così, diverso da quelli precedenti. Ciò porta a sconvolgere molto spesso i fan, i quali faticano a raccapezzarsi e a “farsi piacere” i continui cambi di rotta.
Benché talvolta siano state esplorate aree comuni a quelle già concretizzate nei suoi numerosi gruppi e progetti, sin da Insurgentes è stata evidente una maggiore libertà di sperimentazione in veste solista, tanto dal punto di vista delle composizioni quanto nelle collaborazioni. Il Wilson solista si è sempre concesso di cambiare musicisti o line-up da un album all’altro se non addirittura in uno stesso tour, al fine di perfezionare e trovare la giusta alchimia per determinare la sua visione musicale. Questo svincolarsi da schemi e line-up predefinite lo ha certamente messo nelle condizioni di esprimersi in modo più articolato e poliedrico rispetto al passato, e di inseguire direzioni creative molto innovative.
 
Mi ha sempre colpito l’indole concettuale della sua scrittura, come se fermarsi alle canzoni sciolte fosse una diminuzione. Quali sono le caratteristiche principali dei concept wilsoniani?
Oltre ad essere un fine conoscitore di musica – e per inciso appassionato di un genere, come è quello progressive, che ha fatto del concept album una caratteristica chiave – Steven Wilson è anche un avido lettore nonché appassionato di cinematografia. Tutti questi elementi sfociano naturalmente nella composizione di più concept: pensiamo immediatamente a Fear of a Blank Planet o a Hand. Cannot. Erase. È evidente come questo artista miri a veicolare delle riflessioni articolate, che assumono una forma narrativa ma anche filosofica, occupando così ogni volta i testi di un intero album. A volte lo spunto può essere un fatto di cronaca, che si arricchisce di citazioni letterarie e cinematografiche, a volte è una storia da raccontare nata da osservazioni “sociologiche”. In ogni caso, gli album di Wilson veicolano dei concetti ricchi, profondi e mai banali, sempre basati su acute riflessioni filosofico-sociali, esprimendo i quali emerge il suo lato di “cantastorie”. Dispiace e stupisce che ci siano fan che non approfondiscono i temi dei suoi album attraverso i testi (che trovate tradotti in italiano sul nostro sito porcupinetree.it).
Fortunatamente, Steven Wilson si avvale anche di strumenti visivi per raccontare i vari concept, utilizzando video, filmati e booklet ricchi di fotografie, grazie alla collaborazione di vecchia data con il noto fotografo e filmmaker Lasse Hoile. In questo modo i suoi messaggi raggiungono agevolmente una parte maggiore di pubblico, garantendo un’esperienza di “incontro” con l’album multimediale e multi-sensoriale.
 
È imminente l’uscita di The Future Bites: cosa dobbiamo aspettarci da Wilson dopo quasi quarant’anni di attività?
Abbiamo avuto il piacere di ascoltarlo in anteprima. Dopo numerosi ascolti nelle ultime settimane, tutti e tre lo abbiamo valutato più che positivamente. Wilson è riuscito ancora una volta a reinventarsi e perciò a sorprenderci, ma è garantito che non tutti saranno allettati dalla sua nuova cifra sonora, sempre meno rock e nettamente electro-pop.
Il nuovo album è conciso e incentrato su tematiche estremamente attuali come la manipolazione di massa, la corruzione, la disinformazione. L’approccio è graffiante e la satira che Wilson impiega anche nei videoclip, già in circolazione da un pezzo, rende volutamente l’ascolto scioccante a livello concettuale. Wilson non risparmia nemmeno sé stesso in questo processo, inserendosi anche come oggetto della critica all’industria musicale, nella quale è ben noto il suo ruolo di pioniere e inventore di edizioni deluxe molto amate e ricercate dai fan!
Il consiglio è di ascoltare assolutamente l’album nella sua interezza, e di mantenere una mente aperta, senza lasciarsi influenzare dal fatto che le sonorità sono certamente molto lontane da quelle dei suoi progetti, probabilmente più noti ai lettori. Suggerito inoltre è l’ascolto in cuffia: essendo un album prettamente influenzato dall’elettronica, The Future Bites è il lavoro solista che più si concentra sulla profondità dei suoni, che non sulla complessità del  suonato. È infatti la produzione, sublime e immersiva, il suo vero fiore all’occhiello.
 

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