06/02/2015

Gli anni prog

Mario Giammetti racconta insieme ai Genesis il periodo 1967-75. Seconda edizione per il libro del giornalista campano, con interviste inedite a Peter Gabriel e compagni
Chi frequenta, anche superficialmente, la galassia Genesis, conosce sicuramente Mario Giammetti. Il giornalista beneventano – da oltre un ventennio firma di Ciao 2001, Rockstar, Jam, Freequency e attualmente columnist di Classix e Classic Rock Italia – è il principale esperto genesisiano al mondo: ha dedicato ben undici libri alla leggendaria band e dal 1991 dirige la rivista Dusk, voce autorevole e soprattutto unica fonte cartacea internazionale in materia Genesis.
Poco prima che l’esperienza mensile di Jam giungesse al termine, ebbi modo di recensire l’ultimo testo di Giammetti: Genesis. Gli anni prog, pubblicato da Giunti nella collana Bizarre diretta da Riccardo Bertoncelli. Un libro importante, che commentai positivamente nel numero 206: era l’ottobre 2013, sarebbe stata la penultima apparizione in edicola prima della chiusura. A poco più di un anno di distanza, il libro di Mario torna in libreria: seconda edizione con nuova immagine su copertina flessibile e non più rigida, con qualche modifica iconografica all’interno.
Per l’occasione incontriamo Mario Giammetti, non prima di aver tirato fuori dall’archivio alcuni passaggi del pezzo scritto all’epoca su Jam:
 
Sapevate che John Lennon adorava Selling England By The Pound, che durante l’incisione di The Lamb Lies Down On Broadway a Headley Grange i Genesis avvertirono strane presenze, che il loro primissimo concerto fu una serata danzante presso una famiglia di Chobham? E perché il working title di The Knife era The Nice? Queste e altre curiosità sono una parte succulenta di Genesis. Gli anni prog, dedicato all’epoca gabrieliana, amatissima e caratterizzata dalla partecipazione in prima fila al fenomeno progressive.
Il giornalista campano centra il libro sull’interpretazione “autentica” di Gabriel e compagni, che offrono impressioni a caldo, valutazioni analitiche, aneddoti e ricordi. Insieme a molte testimonianze inedite raccolte da Michael Kaufman durante i remasters del 2008, l’autore ricostruisce l’esperienza in studio (entusiasmante ma assai complessa vista la personalità così forte di Banks, Gabriel e Rutherford) e la formidabile crescita dal vivo (con una dettagliatissima timeline di concerti) senza indulgere nelle celebrazioni del librone Revelations.
Dai commenti emergono tuttora divergenze e differenti visioni sui brani, con i pareri di Hackett, Gabriel e Banks tra i più interessanti: ad es. il primo illustra con precisione il suo storico approccio al tapping e le influenze della band (Beatles, King Crimson, Family, Procol Harum), sfoderando persino accostamenti sorprendenti (la chitarra di The Battle Of Epping Forest anticipa il reggae?). Peccato che gli “anni prog” non contemplino A Trick Of The Tail e Wind And Wuthering, la coppia di album post Gabriel ricordata spesso come il miglior esempio di tardo progressive. Un analogo saggio sugli “anni pop” dell’era Collins sarebbe altrettanto interessante, il ponte lo lancia proprio Phil: “Sarebbe bello se la gente ricordasse che la band che suonava Silent Sorrow In Empty Boats, un brano che evoca navi, nuvole e nebbia, è la stessa che suona canzoni come Hold On My Heart. La stessa, con la stessa mentalità”.
 
Mario, il tuo Gli anni prog arriva alla seconda edizione. Un bel successo di vendite per un testo che affronta una parte importante – anzi, la parte artisticamente più rilevante – della storia di una celebre band. Stupito?
Un po’ sì, devo ammetterlo. Bisogna considerare che i Genesis non hanno un grandissimo bacino di pubblico, qui in Italia. Un gruppo di successo, certo, ma lontanissimo dai numeri di altri nomi (che so, U2, Queen, Pink Floyd…). È anche vero, però, che proprio in Italia c’è una giustificata venerazione proprio per quel periodo dei Genesis, molto più che nel resto del mondo. E forse questo, penso insieme alla qualità sia contenutistica che grafica del prodotto, ha fatto la differenza.
 
Prima di questo tuo lavoro per Giunti hai pubblicato con Arcana Musical Box, stesso oggetto ma diverso approccio: tutto il repertorio dei Genesis canzone per canzone. Si tratta di due testi concorrenziali o li consideri complementari?
Né l’una né l’altra cosa, in realtà. Penso che l’unico, ovvio punto in comune tra i due libri sia la band. Dopodiché si tratta di due testi completamente diversi l’uno dall’altro. Per Musical Box¸ che analizzava le canzoni di tutta la storia dei Genesis, ho attinto a innumerevoli fonti. Gli anni prog invece contestualizza i primi sei album attraverso le parole dei Genesis stessi, che io mi sono limitato a riordinare. È questo che lo rende un libro unico a livello internazionale: per la prima volta la musica dei Genesis, i testi, gli accorgimenti di sala, i retroscena dei tour, sono raccontati da loro stessi (con insolita spontaneità) in due blocchi di interviste, tutte rigorosamente inedite.
 
Parli di “insolita spontaneità” da parte dei Genesis: il loro carattere riservato – fatta eccezione per l’espansivo Collins – è noto. Cosa credi li abbia coinvolti in questa operazione?
Ho personalmente riascoltato quei dischi spalla a spalla con uno di loro (Anthony Phillips i primi due, Tony Banks The Lamb, Steve Hackett gli altri tre) che mi sussurrava nell’orecchio, quasi minuto per minuto, cosa stava succedendo in quel momento nel brano diffuso dagli altoparlanti. Credo che proprio questa modalità (Ant, per esempio, mi ha confessato che non riascoltava quei dischi per intero da oltre 40 anni!) abbia risvegliato delle emozioni autentiche in loro, e in qualche caso guardare le loro espressioni meravigliate, compiaciute o sorridenti era quasi più rivelatorio delle loro parole. I tre che non hanno partecipato all’ascolto (Gabriel, Collins e Rutherford), invece, hanno dato il loro apporto attraverso le interviste che il giornalista inglese Mike Kaufman aveva fatto loro in occasione dei remix del 2008, di cui mi ha gentilmente concesso l’utilizzo esclusivo e, soprattutto, integrale.
 
La collana Bizarre alla quale appartiene il tuo libro è diretta da Riccardo Bertoncelli, maestro del giornalismo musicale nostrano. Pare che lui non sia un fervente sostenitore dei Genesis: il tuo libro gli ha fatto cambiare idea?
Bertoncelli non ha mai apprezzato la musica dei Genesis e certamente non sarà stato questo libro a fargli cambiare idea. È stato però un grande onore, per me, lavorare con lui. È il maestro del giornalismo musicale italiano, come hai giustamente notato, ed essere riuscito a fargli pubblicare un libro su una band che non ama, per usare un eufemismo, lo considero già un grande risultato.
 
Questi anni prog terminano, almeno da un punto di vista simbolico, con l’uscita di Peter Gabriel, anche se tuttavia nel biennio seguente la band sfornerà due lavori eccellenti. Come riuscirono ad esorcizzare l’abbandono di Peter e a inventare due album così belli?
Dal punto di vista strettamente compositivo, non fu un vero problema. I principali compositori delle musiche dei Genesis di quegli anni erano Banks e Rutherford, con Gabriel ovviamente straordinario autore delle melodie e di molti testi, mentre Collins e Hackett, all’epoca, erano soprattutto musicisti puri. Va ricordato che le musiche di The Lamb, il doppio album con cui Gabriel si congedò dal pubblico, erano quasi esclusivamente di Tony e Mike. La partenza di Peter spronò la band a concentrarsi ancor più sulla musica, in un primo momento senza preoccuparsi di chi avrebbe cantato. E in quella fase cominciarono a venire fuori anche gli altri due: oltre che rivelarsi un eccellente vocalist, il formidabile motore ritmico di Collins aggiunse inediti colori jazz fusion a una musica estremamente British, mentre Hackett stava crescendo a vista d’occhio a livello di scrittura, fino a primeggiare da quel punto di vista su Wind & Wuthering. Due splendidi album, quindi, hai perfettamente ragione. Ma va anche detto, per onestà, che la pur comprensibile reazione dei Genesis all’addio di quello che era il loro cantante, frontman e immagine, fu di chiudersi abbastanza in se stessi e quindi di tornare a certe atmosfere precedenti. I due dischi incisi tra il 1975 e il 1976 sono magnifici, ma non rappresentano la crescita creativa che ci si sarebbe aspettati da loro dopo The Lamb, un autentico capolavoro prog proprio perché, di prog classico, praticamente non ha quasi nulla. Ecco perché, anche se il titolo Gli anni prog è stato più un caso che una scelta (era semplicemente il working title proposto da Bertoncelli, che poi abbiamo lasciato), credo sia giusto cristallizzare a quell’anno, il 1975, i Genesis progressive, nel senso di protagonisti di un’evoluzione in costante crescita. Il che, ovviamente, non vuol dire che quel che è stato fatto dopo sia scadente, tutt’altro.
 
Ritieni fattibile un secondo volume con “Gli anni pop” o “Gli anni Collins”? Si tratta della fase più controversa del gruppo, ma proprio questo renderebbe stimolante il tuo lavoro…
Si tende superficialmente a individuare il periodo Collins come quello commerciale, ma in realtà sappiamo bene che le cose sono ben più complesse. È indubbio che la proposta musicale si sia via via semplificata e che questo abbia evidentemente dato enormi frutti sul piano delle vendite, ma a mio modo di vedere non è stata tanto una involuzione, quanto un cambiamento, peraltro assolutamente necessario. Prendi gli Yes: hanno fatto dischi meravigliosi, ci mancherebbe, ma non è triste prendere atto che, nel 2014, suonano quasi esclusivamente brani degli anni ’70? E gli esempi sarebbero ancora tanti. Con l’eccezione di quello che per me è l’unico vero scivolone artistico di una carriera altrimenti superlativa (il reunion tour del 2007), nel periodo 1976-1998 i Genesis hanno invece portato sempre sul palco le canzoni dei nuovi dischi, riservando sempre minor spazio ai brani dell’era Gabriel. Questo faceva giustamente disperare i vecchi fan, perché qui nessuno mette in dubbio che quell’era sia stata la più rilevante artisticamente, come del resto capita a qualunque artista (la creatività dei 20-25 anni non può durare in eterno). Ma, per contro, portava sulla scena una band ancora viva e pulsante che, oltretutto, ha avuto una costante evoluzione tecnica, con l’aiuto di Chester Thompson e Daryl Stuermer, perlomeno fino al We Can’t Dance tour. Quindi per me il volume non solo è fattibile, ma sarebbe un crimine non farlo, come mi dimostrano anche le centinaia di richieste che mi sono arrivate in tal senso. Il problema sarà convincere Riccardo Bertoncelli!
 
Il fenomeno progressive, di cui i Genesis sono stati tra i principali artefici, vede per la prima volta l’emersione di musicisti della borghesia inglese più agiata e illuminata, che aveva tra i propri esponenti le famiglie Gabriel, Banks, Phillips e Rutherford. Questa provenienza sociale fu un vantaggio o un peso per loro?
È una considerazione interessante, di cui ti ringrazio. Sinceramente credo che, almeno nella prima fase, sia stata più un peso che un vantaggio. Quei quattro ragazzi ebbero del fegato a buttarsi nel calderone rock sapendo che sarebbero stati guardati di sbieco e che avrebbero dovuto, comunque, cavarsela da soli, non potendo contare più di tanto sull’appoggio di genitori per i quali, quella situazione che si stava creando, era fonte di imbarazzo, non certo di orgoglio. Erano stati mandati a studiare alla Charterhouse affinché si preparassero nel migliore dei modi a entrare nel mondo del business e dell’alta società, finirono invece a dormire sui pavimenti dei più scalcinati club londinesi in quanto i cachet erano talmente risicati che non potevano permettersi di pagarsi da mangiare, figuriamoci un albergo. È noto che questo stile di vita indebolì pesantemente Anthony Phillips e questa fu una delle ragioni (seppure non la principale) che lo indussero ad abbandonare.
Nello stesso tempo, agli occhi delle band di estrazione più popolare i Genesis conservavano comunque dei modi vagamente aristocratici che li rendevano spontaneamente antipatici, nonostante fossero persone di grandissima gentilezza e disponibilità. Qualcuno li definì dei noiosi stronzetti e questo rese la vita ulteriormente più difficile a una band che, anziché rotolarsi platealmente sulle assi del palcoscenico o sfondare i tamburi, si presentava con tintinnanti armonie di chitarre a 12 corde innestate sui suoni da cattedrale dell’organo, mentre il cantante raccontava di germogli assassini e di ninfe acquatiche. Alla resa dei conti, i Genesis hanno dimostrato di avere molti più attributi di tanti musicisti loro contemporanei, che vincevano facile con la loro immagine da maledetti ma poi, alla lunga, hanno rivelato la loro inconsistenza. Per contro, quando poi i Genesis hanno, molti anni dopo, raggiunto finalmente il successo, hanno potuto riassumere senza alcuna difficoltà, anzi probabilmente con sollievo, il loro atteggiamento più naturale, lontano anni luce dai cliché delle rockstar. Non a caso ancora oggi l’attività prediletta di Banks è il giardinaggio, mentre Rutherford si diletta in partite di polo di beneficenza dove si scontra col principe Carlo. Tutto davvero molto, molto poco rock ‘n’ roll!
 
Nelle autobiografie di grandi esponenti classic rock, ma anche nelle interviste a molti di questi artisti, quando si parla di ascolti e influenze di gioventù è onnipresente il nome Beatles. Quanto è stata importante l’influenza dei Fab Four sul gruppo?
L’influenza dei Beatles, nella musica dei Genesis, la ritroviamo soprattutto nella loro forte componente melodica. Proprio quella caratteristica che, forse, rende il sound dei Genesis diverso e meno pesante rispetto a quello di molti loro colleghi anni ’70, molto più proiettati sul virtuosismo sterile e la pomposità. Caratteristiche che, per fortuna, non hanno mai sfiorato i Genesis.
 
Hackett ti ha rivelato che John Lennon apprezzava Selling England By The Pound!
Sì, me lo disse nel gennaio 2008, durante il primo degli ascolti congiunti, quando questo libro neanche era in programma. Mi raccontò (ma non era la prima volta che lo faceva, né sarebbe stata l’ultima) che Lennon aveva dichiarato in un’intervista radiofonica che gli piaceva quel disco dei Genesis. Per la band, considerando lo status artistico e mitologico di John, fu ovviamente come toccare il cielo con un dito.
 
Sei il principale esperto di Genesis al mondo: a uno sguardo superficiale la cosa potrebbe risultare priva di importanza, ma Genesis significa anche cinque carriere singole uniche nella storia del rock. La recente antologia R-Kive sottolinea per la prima volta un punto di vista che tu, da scrittore e da direttore di Dusk, predichi da anni.
Ricordo un mio lungo articolo che pubblicò Ciao 2001 nel lontanissimo 1992 che esponeva sostanzialmente questo concetto, che non mi pare fosse mai stato scritto altrove e che, anche nei due decenni successivi, è stato ben poco evidenziato, a parte la mia personale crociata. Quando Rutherford ha convinto gli altri a realizzare il documentario per la BBC (da cui ha preso corpo l’idea di R-Kive, anche se poi la compilation è uscita prima del dvd Sum Of The Parts) probabilmente pensava proprio a chi si limita a uno sguardo superficiale, sottolineando il fatto che molte persone neanche si rendono conto che Collins era un tempo semplicemente il batterista, che Gabriel ha cantato nei Genesis, che certe canzoni sentite alla radio sono di Mike & The Mechanics. Riscontrare che anche loro sono finalmente giunti a questa conclusione è stata per me come l’ufficializzazione di qualcosa che stavo predicando, come hai detto giustamente tu, da una vita. Ossia che non è mai esistita un’altra band che ha generato così tante carriere solistiche importanti. Il che è, poi, la ragione principale per cui Dusk ha ancora un senso, dopo quasi 25 anni.
 
A proposito di Dusk, la rivista va avanti imperterrita con il costante affetto di tanti abbonati. I membri dei Genesis seguono questa tua attività? Dusk è rimasta l’unica voce cartacea dedicata al gruppo…
Tutti i membri dei Genesis conoscono ovviamente Dusk e ne apprezzano l’attività, sia pure a vario livello. Quando ho chiesto loro di partecipare a determinate ricorrenze sono sempre stati carini, così come vi è sempre (beh, quasi…) la disponibilità quando ho bisogno di un’intervista. Le soddisfazioni più grosse, però, mi sono arrivate da esplicite richieste del management. Sentirsi chiedere di scrivere le schede di tutte le discografie (Genesis, Banks e Mechanics) per i loro siti ufficiali è stato davvero un grande onore, considerando quanti giornalisti madrelingua avrebbero potuto contattare. Per non parlare di Living Years, il grande successo di Mike & The Mechanics che, nel 1989, andò al numero 1 in America e al numero 2 in Inghilterra. Le approfondite note di copertina che ho scritto e che appaiono nel ricco booklet che accompagna l’edizione deluxe del venticinquennale di quell’album, pubblicata in Inghilterra lo scorso anno e in uscita in questi giorni anche in America, rappresentano sicuramente la mia più grande soddisfazione professionale. Almeno per ora.
 
 

 

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