25/10/2017

I Public Service Broadcasting ci raccontano il loro “collage rock”

In attesa del loro live a Milano il 9 novembre, abbiamo intervistato una delle band più originali degli ultimi anni
L’appuntamento è per il 9 novembre alla Santeria di Milano, unica tappa italiana del tour dei Public Service Broadcasting in seguito all’uscita di Every Valley (che abbiamo recensito qui).
 
Il trio londinese negli ultimi 4 anni ha stupito il pubblico con dei moderni concept album, basati su un sapiente mix di elettronica, rock e voci provenienti dagli archivi della BBC.
Se non sapete come definire il loro genere, chiamatelo “collage rock”, come ci ha raccontato il polistrumentista J. Willgoose Esq.:
 
Innanzitutto vogliamo chiedervi, come è nata la band nel 2009 e da dove deriva l’idea di suonare musica strumentale accompagnata da materiale d’archivio?
Non è nata come una band, ma piuttosto come progetto solista (di J. Willgoose, Esq., ndr). Mi divertivo a comporre musica strumentale, soprattutto elettronica, e quando ho scoperto alcuni spezzoni di materiale d’archivio online ho pensato di combinare le due cose. Il concept e la band sono molto cambiati da quel primo periodo, però quello fu l’inizio.
 
È stato facile trovare gli spezzoni degli anni ’40, le trasmissioni radio o il materiale della vecchia BBC?
È stato piuttosto facile trovarli, perché ne avevo sentito parlare e inoltre c’è moltissimo materiale di pubblico dominio, che rende le cose particolarmente facili se si vuole fare qualcosa del genere. Quando poi ho chiamato la BFI (British Film Institute, ndr) per sapere se potevo usare ufficialmente il materiale, è nata l’idea di usare gli archivi per raccontare delle storie.
 
Generalmente scrivete prima la musica e poi aggiungete gli spezzoni audio? O il contrario? E sapete già se un certo materiale può essere utilizzato in una canzone o in un’altra?
Non abbiamo una formula precisa, è molto vario. Nell’ultimo album, più che nei precedenti, sapevo già quali storie volevo narrare e quindi ho ricercato il materiale d’archivio legato a quelle. Ma nel passato si è trattato più di trovare qualcosa di speciale e decidere in quali modi utilizzarlo.
 
Il vostro nuovo album, Every Valley, si focalizza appunto su un tema preciso: l’ascesa e il declino delle miniere di carbone in Galles. Come avete scelto questo argomento?
Ho trovato il tema affascinante e interessante su più livelli. Innanzitutto, mi sembrava una scelta ambiziosa, coraggiosa e rischiosa, che credo sia quello che le band e gli artisti dovrebbero fare. Qualcosa che ci ponesse una sfida come compositori e ci mettesse anche in situazioni di disagio.
Mi piaceva inoltre che fosse diverso da ciò che abbiamo fatto in passato, un qualcosa di imprevedibile. È una storia importante da raccontare e mi ci sono davvero dedicato, a volte le cose ti afferrano e non ti lasciano andare e, a livello creativo, è quello che è successo in questo caso.
 
Pensate che questo tema possa riattivare una certa coscienza sociale, che supporti i diritti dei lavoratori spesso dimenticati?
Credo che questo sarebbe troppo ambizioso per una band! Ma penso che il tema sottolinei un tempo in cui questi diritti, quelli dei lavoratori, erano più forti, anche se dovettero lottare con le loro vite per essere rappresentati.
Comunque è una tematica attuale, in una situazione in cui il mercato regola tutto e il denaro vince su tutto. L’equilibrio si è spostato dagli anni ’80 in poi, credo sia importante quindi guardarsi indietro e capire come siamo arrivati al giorno d’oggi.
 
Avete anche registrato il disco in una vecchia fabbrica, quella di Ebbw Vale. Come è stata quest’esperienza?
Abbiamo registrato nella ex sala di lettura dello Steelworkers Institute, che ora è un punto di ritrovo per la comunità e uno spazio creativo ad Ebbw Vale. È chiaramente un luogo storico ed era (lo è tuttora) il centro della comunità, dunque ci sembrava il luogo ideale per registrare questo disco.
 
Considerate i vostri album (soprattutto l’ultimo e The Race For Space) come dei concept album? Avete in programma di “insegnare” altre storie e culture nei prossimi dischi?
Sono indubbiamente dei concept album. Ma non vogliamo “insegnare” niente, credo che questo fraintendimento derivi dai nostri esordi, in cui promuovemmo la band dicendo che “insegnavamo le lezioni del passato”. Era una bella idea ma anche molto ironica. Semplicemente ci interessa trattare argomenti a cui siamo legati e musicalmente funziona anche se non si vuole imparare niente (o se già si conosce la storia, come in molti casi).
 
Nei vostri concerti usate spesso dei video sullo sfondo, quanto è importante l’aspetto visuale nella vostra musica?
Credo sia importante l’aspetto visuale nel creare la giusta atmosfera live, per mettere le canzoni nel loro giusto contesto, ma la musica deve funzionare anche da sola. A volte facciamo dei concerti senza video e le canzoni mantengono il loro significato, che credo sia un buon segno.
 
Nei live usate anche i computer per ringraziare/intrattenere il pubblico, ma al tempo stesso il vostro approccio non è freddo. Avete trovato un modo di divertire gli spettatori anche quasi senza parlare e cantare?
Fa sempre parte del tentativo di legare tutto concettualmente e anche del nostro non prenderci mai troppo sul serio. Ultimamente però usiamo il microfono sempre più spesso, il gioco è bello quando dura poco. Alla lunga far parlare solo i computer può annoiare, anche se usiamo ancora il campionatore ogni tanto. Ma il tono più serio dell’ultimo album ci ha dato la possibilità di cambiare un po’ le cose sul palco.
 
Musicalmente vi ritenete una band indie rock oppure elettronica? Nell’ultimo disco avete raggiunto un equilibrio tra il lato digitale e quello più rock.
Siamo piuttosto difficili da catalogare come genere, credo. Ed è una cosa positiva. Non saprei neanch’io come definirci, lasciamo questo compito ai giornalisti! La migliore definizione che ho sentito, davvero intelligente, è stata “collage rock”. Mi ha divertito!
 

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