19/04/2021

La raccolta integrale dei testi di Francesco De Gregori

Giunti pubblica l’importante lavoro di Enrico Deregibus
(Enrico Deregibus e Francesco De Gregori; foto di Daniela Esposito)
 
Ma in una canzone, nascono prima le parole o la musica?
La peggior domanda che si possa fare a un cantautore.
E Enrico Deregibus lo sa bene, non solo perché è un profondo conoscitore della canzone d’autore, ma perché lavorando – più di una volta – alla figura di Francesco De Gregori, non ha potuto non confrontarsi con la genesi delle canzoni, con la profonda sintonia con cui testi e note vedono la luce, crescono e si sviluppano fino a sedimentarsi nella memoria collettiva.
D’altronde lo stesso Francesco glielo ha ricordato: noi ascoltiamo prima le parole o la musica? Evidentemente ci arriva – alle orecchie, alla mente, al cuore – un intreccio, un flusso, un abbraccio unitario. È questo il cuore della significativa analisi che Deregibus ha affrontato in questo ponderoso testo per Giunti. Ne parliamo con lui, sapendo che il Principe ci ha messo lo zampino…
 
Se non proprio lo zampino, almeno uno sguardo, una capatina da lontano, un input, De Gregori li ha dati. Francesco De Gregori – I testi. La storia delle canzoni è nato con la sua partecipazione: una presenza distaccata o coinvolta?
Per risponderti devo fare una premessa: questo libro è una sorta di appendice a una biografia di De Gregori che ho pubblicato qualche anno fa. Si intitola Francesco De Gregori. Mi puoi leggere fino a tardi. La mia intenzione allora era di inserire delle schede sulle canzoni man mano che raccontavo la storia di De Gregori, ma il libro stava diventando enorme e quindi ho pensato di accantonare le schede per il momento. Sono poi tornato a lavorarci e approfondirle successivamente, per creare appunto una sorta di grande appendice alla biografia. Ho chiesto a De Gregori se voleva in qualche modo vedere queste schede prima della pubblicazione ma mi ha risposto di no, preferiva che io fossi libero di scrivere quello che volevo. Nel frattempo però lui aveva acquisito i diritti di stampa di una serie di sue canzoni e allora dopo un po’ mi ha chiesto se volevo inserire i testi nel nuovo libro. Ho accettato con grande piacere ovviamente e a quel punto gli ho mandato delle schede da vedere, ma i suoi interventi sono stati molto limitati, mi ha giusto segnalato qualche imprecisione. Però dal momento che ci sono anche i testi delle sue canzoni e che li ha controllati uno per uno, il libro è sia mio che suo.
 
Dedicarsi a un cantautore significa studiarne i testi, commentarne la parola. Lo hai fatto canzone per canzone: dopo un lavoro così importante, quale peso pensi che abbia il canzoniere di De Gregori nella cultura popolare italiana?
In questo libro c’è uno studio e un commento dei testi, come dici tu, ma in realtà ho voluto fare un lavoro più ampio, dedicando molto spazio alla parte musicale, al contesto in cui sono nate le canzoni, a varie altre informazioni che esulano dal testo. La parte di commento in senso stretto è molto limitata, ho cercato piuttosto di raccontare le canzoni da tanti punti di vista, basandomi su più di 2mila documenti. Il mio approccio non ha voluto insomma essere quello del critico musicale, anche perché non lo sono, ma una cosa a metà fra il giornalista e lo storico dilettante.
Quanto al testo, è ovviamente importante per un cantautore ma è solo una parte di una canzone, sarebbe stato molto limitativo secondo me parlare delle canzoni di De Gregori trattando solo dei testi. Lo avrei trovato un libro monco.
Detto questo, mi sento certamente di dire che il peso delle canzoni di De Gregori nella nostra cultura popolare è veramente notevole. Ne ho avuto la conferma poche settimane fa quando ha compiuto settant’anni e tutte le testate o quasi gli hanno dedicato servizi, approfondimenti e altro. È un signore che, per usare le metafora calcistica, è entrato in tackle scivolato ma allo stesso tempo con grande eleganza nella storia della canzone italiana all’inizio degli anni Settanta, rinnovandola fortemente nel linguaggio e nell’intenzione. È riuscito a rendere la canzone una forma espressiva capace di parlare di qualunque argomento e in qualunque modo, mentre prima c’erano dei paletti molto evidenti, anche se in parte erano già stati divelti dal lavoro che avevano fatto i cantautori degli anni ’60 ed altri anche prima di loro, come Modugno, Buscaglione, Carosone e così via. A questo unisci da una parte l’influenza anche musicale dei cantautori americani e dall’altra quella della nostra tradizione popolare e ti rendi conto del passaggio epocale che ha rappresentato il suo arrivo nel panorama italiano.
 
Il rapporto con Bob Dylan interessa in modo particolare ai lettori di Jam. De Gregori aveva debuttato sotto l’influenza dylaniana, che persiste – anche se con una consapevolezza diversa – visto che è del 2015 il tributo Amore e furto. Cosa aveva trovato in Dylan il De Gregori del 1972, come si confronta con lui nel 2015?
Dylan sicuramente è una delle ragioni per cui De Gregori ha scritto canzoni. La scoperta risale agli ultimi anni del liceo, anche grazie a Luigi, il fratello maggiore di Francesco. Per lui è un’illuminazione. Una delle prime cose che lo colpiscono è la voce, il modo di cantare grezzo, sporco, completamente fuori dai canoni del bel canto che imperversava in Italia. Ma il giovane Francesco ha cercato quasi subito di entrare in profondità anche nei testi. C’è una canzone che è fondamentale nel suo rapporto con Dylan ed è Desolation Row, che si era messo a tradurre quando era ancora liceale, con tutte le difficoltà che puoi immaginare, anche perché oltretutto è una canzone molto lunga. Ci mette parecchio, anche perché non ha ancora una sufficiente padronanza della lingua inglese. E poi non cerca la traduzione letterale. La traduce per cantarla e quindi anche grazie a questo impegnativo esercizio inizia a prendere le misure di quell’oggetto strano che la canzone, che ha una griglia metrica data dalla musica e che ha una serie di necessità e caratteristiche, ad esempio il fatto che le parole devono in qualche modo suonare.
Ma questa canzone è particolarmente importante anche perché grazie a lei De Gregori viene notato da Fabrizio De André. De André era andato a vederlo in un un concertino a Roma ed era rimasto colpito appunto da quella traduzione, che De Gregori aveva ribattezzato Via della povertà, tanto che gli chiede di inserirla in un suo disco con alcune modifiche. Il disco è Canzoni. Tutta questa è una storia secondo me affascinante che racconto approfonditamente in Mi puoi leggere fino a tardi, ma il bello è che poi quando nel 2016 De Gregori fa un disco di cover di Dylan rimette di nuovo dentro questa canzone, rifacendo in gran parte il testo. Quindi il suo lavoro su Via della povertà è un lavoro di più di quarant’anni e credo che questo possa testimoniare bene il grande attaccamento che ha nei confronti di Dylan.
C’è da dire però che nel disco di cover De Gregori fa su tutti i brani un lavoro certosino. Non lo dico io ma tanti estimatori di Dylan. E poi c’è anche molta passione, è quella il carburante che ha alimentato il disco.
 
Bob Dylan era stato importante anche per Lucio Battisti, di cui De Gregori ha spesso riconosciuto l’importanza. Discorso analogo per De André, con cui ha anche collaborato. Canzone pop da un lato, d’autore dall’altro: De Gregori da che parte sta?
La mia risposta è netta, e cioè sta dalla parte della canzone d’autore. Invece credo che lui darebbe una risposta meno decisa, perché ha spesso vissuto senza grande entusiasmo l’etichetta di cantautore e alcune delle cose che ci ronzano attorno. Però credo che sia innegabile il fatto che fra le sue canzoni e buona parte della musica cosiddetta pop ci siano delle grandi differenze, ci sia un modo diverso di intendere la canzone. Poi personalmente mi rendo conto che non è facile in generale tracciare quel confine.
Ad ogni modo De Gregori ha in effetti una ammirazione enorme per Battisti, sia quello di Mogol che quello di Panella. Dal vivo gli è capitato più di una volta di cantare Anche per te.
 
Avendo vegliato sulla raccolta integrale dei testi, De Gregori si sarà visto protagonista di questa parabola narrativa dalla giovinezza all’età adulta. In genere che reazione ha rispetto al suo lavoro: distacco, orgoglio, spirito critico?
Bella domanda. Credo che ci siano tutti e tre questi elementi di cui parli, distacco, orgoglio e spirito critico. C’è sicuramente un distacco dato da una sorta di serenità raggiunta con gli anni. Ad esempio mi è capitato di parlare con lui dei dischi della seconda metà degli anni ’80 quando, pochi anni fa, li aveva riascoltati per un lavoro che avevamo fatto. E lì si è reso conto che musicalmente erano un po’ distratti, non a fuoco. Però il suo commento alla fin fine è stato: “pazienza”.
C’è anche però un po’ di orgoglio, perché credo che sia inevitabile riconoscersi una capacità di aver fatto canzoni di valore, con profondità e leggerezza assieme. Ma allo stesso tempo c’è indubbiamente un forte spirito autocritico da parte sua. Negli anni ha fatto le pulci a varie sue canzoni, comprese le più conosciute, dalla Donna cannone alla Leva calcistica, da La storia a Rimmel. È persino divertente leggere le sue stroncature a certi brani.
Da parte mia poi posso aggiungere che le critiche che faccio nel libro ad alcune canzoni le ha accettate di buon grado, giusto borbottando un po’ su alcune, ma col sorriso.
 
Soffermiamoci su qualche disco dei ventuno pubblicati. Il primo che mi viene in mente è Titanic del 1982, un punto di snodo e ripartenza. All’alba del decennio edonista, una riflessione sul disastro…
Dici benissimo. La spinta per fare quel disco nasce proprio da lì, dal fatto che De Gregori già all’inizio del decennio si rendeva conto di quello che stava succedendo, del pericolo che c’era dietro all’ottimismo a tutti i costi di quegli anni rampanti e superficiali. Personalmente credo che stiamo pagando ancora adesso scelte e comportamenti di quegli anni. Lui ha voluto andare controcorrente, anche rispetto ai suoi discografici, raccontando un naufragio di un transatlantico che era considerato il gioiello della tecnologia dell’epoca. Veniva definito inaffondabile e invece sappiamo com’è andata a finire. È uno dei dischi più belli di De Gregori, personalmente forse è quello che amo di più in assoluto. Oltre alle tre canzoni dedicate al Titanic ci sono tante altre che vivono di un’ispirazione particolarmente intensa e forte nella scrittura, nell’interpretazione e nella realizzazione finale.
 
Amore nel pomeriggio, 2001. A quasi trent’anni dal debutto, De Gregori è ancora ispirato. I suoi testi sono coerenti con l’urgenza espressiva della giovinezza o emergono argomenti e tematiche nuove?
Mi pare che De Gregori abbia sempre avuto un ventaglio abbastanza ampio di tematiche nelle sue canzoni, passando dai massimi ai minimi sistemi, se così posso dire. E penso che questo ventaglio si sia allargato sempre di più. Amore nel pomeriggio continua questo percorso ed è in effetti un album molto amato da tanti suoi estimatori. Certamente c’è una canzone che ha colpito sin da subito, Il cuoco di Salò, un gran pezzo che  ha suscitato polemiche perché qualcuno lo ha ritenuto accondiscendente verso il fascismo o addirittura revisionista. Invece è solo una canzone su un uomo finito in mezzo alla bufera, un uomo che cerca di capire cosa deve cucinare la sera senza sapere neanche chi verrà a cena. Forse è un po’ vigliacco ma fondamentalmente rappresenta l’uomo comune sballottato in mezzo a cose più grandi di lui. È una canzone che nasce dall’amore di De Gregori per la storia come altre, da 1940 in poi, ma che allarga ulteriormente il campo visivo, diciamo così.
 
Pezzi, uscito quattro anni dopo, è legato al rock: il De Gregori elettrico è credibile quanto quello intimista e misurato?
Secondo me assolutamente sì. Personalmente credo che sia veramente un disco riuscito, lo considero addirittura fra i 5 o 6 più belli di tutta la sua discografia. È un disco molto teso, molto elettrico, che prende da Dylan ma anche da John Mellencamp, Jimmy Cliff e altri ancora. Ed è secondo me un gran disco anche per i testi. È  l’ultimo di De Gregori fortemente legato al mondo attorno, a quello che succede in Italia ma anche e soprattutto nel mondo, con riferimenti a tantissimi eventi, dalla strage di Beslan alla Palestina fino ad andare indietro all’Olocausto. Ci sono dentro secondo me sei o sette grandi canzoni. Mi viene da dire che è il coronamento del rapporto fra De Gregori e il rock, un rapporto che era iniziato in modo un po’ impacciato, un po’ legnoso alla fine degli anni ’80, che ha preso sempre più vigore col tempo e qui raggiunge diciamo l’apogeo.
 
Il De Gregori che verrà dovrà confrontarsi con i tempi della pandemia, dei social che assorbono la vita quotidiana, di microstorie sempre più invisibili rispetto alla Storia che ha egregiamente raccontato. Dove sta andando il cantautore?
Difficile rispondere. De Gregori non fa dischi nuovi da quasi 10 anni, l’ultimo era nel 2012 Sulla strada, un disco molto bello secondo me, in cui però raccontava storie non legate direttamente alla realtà sociale. In questi anni non ha fatto dischi nuovi probabilmente anche perché non è semplice trovare nuove cose da raccontare o nuovi modi per raccontarle. Dopo aver pubblicato più di 200 canzoni è inevitabile credo. Da quello che so la volontà e la voglia ci sono, anche se forse lo stimolo forte di anni fa è andato un po’ a sfiorire.
Sicuramente ha sempre più voglia di suonare, di fare concerti e quindi appena possibile lo vedremo dal vivo abbastanza spesso. Ma confido che arrivi al più presto un mazzo di nuove canzoni. So che ha molti appunti e molti spunti. Vedremo. Penso che le nuove canzoni saranno più nel territorio della filosofia che della politica. Ma di certo quando farà qualcosa sarà frutto di urgenza espressiva.
 

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