Un colpo d’occhio eccezionale. Janis Joplin. Patti Smith. Debbie Harry. Nina Hagen. Grace Jones. Bjork. Donne in copertina, ma non solo: simboli di rivoluzione, consapevolezza, emancipazione, anche attraverso il volto, anche attraverso l’immagine. L’effigie femminile diventa icona attraverso la discografia, in un gioco di specchi tra autocoscienza e mercato. Inevitabile parlarne con uno dei massimi esperti europei di cover art, Paolo Mazzucchelli, fresco autore di L’altra metà del pop. L’emancipazione femminile rappresentata nelle più belle copertine dei dischi (Stampa Alternativa).
Non copertine declinate al femminile, ma raffigurazioni dietro le quali si cela un percorso di emancipazione. Dai vestiti della musica all’altra metà del pop…
Limitarsi a un semplice “catalogo” di copertine al femminile sarebbe stata un’occasione sprecata, una forzatura rispetto allo stile e al modo con cui affronto il tema Musica. I rapporti con la società, con la storia e con l’economia sono parte integrante dell’analisi e del racconto, un modo per contestualizzare gli artisti e le opere di cui parlo; affrontare tematiche come l’emancipazione e la rappresentazione dell’immagine femminile non poteva prescindere da una simile impostazione.
Howard S. Becker sosteneva nel testo I Mondi dell’arte l’itinerario collettivo, cooperativo e condiviso di un processo artistico. Un album è anche la sua copertina, un’artista è anche la sua immagine, soprattutto se donna, musicista, consapevole. Quando nella discografia pop-rock emerge questa forte coscienza femminile?
Senza alcun dubbio negli anni ’60, grazie al cosiddetto movimento “folk rock” nel cui circuito diverse artiste dimostrano di voler giocare un ruolo diverso da quello in cui erano state sino ad allora relegate, sia dal punto di vista strettamente musicale che per quanto riguardava la gestione della propria immagine. Ma il vero punto di svolta, dal mio punto di vista, arriverà un decennio dopo grazie al Punk, fenomeno storico e artistico in grado di liberare molta della creatività femminile sino ad allora inespressa (se non addirittura repressa), oltre che di stabilire un primo significativo esempio di parità fra i generi nell’ambito musicale.
Nel suo periodo d’oro, la discografia ha accolto i principali stimoli artistici, estetici, sociopolitici, a partire dal femminismo. Sulle copertine dunque abbiamo trovato tracce e simboli di una forte presa di coscienza: militanza femminista anche da parte delle major o semplice adesione a un sentire premiato anche dalle vendite?
A me piace sottolineare che quando parliamo di dischi parliamo di un “prodotto” discografico; il fine ultimo delle major resta il profitto come ritorno di un investimento, fine raggiungibile con ogni mezzo efficace di comunicazione e promozione, copertine comprese. Di “sensibilità” femminista si può parlare solo se ci si riferisce ad esperienze di alcune etichette indipendenti, non certo alle multinazionali dell’intrattenimento. Il tuo “…semplice adesione ad un sentire premiato dalle vendite…” è quanto mai efficace: un opportunismo ben calcolato, che magari non esclude singole (sincere) sensibilità all’interno delle case discografiche stesse.
Mi ha colpito la presenza di numerose copertine di area black, nelle quali la figura femminile è particolarmente “fisica”, degno contraltare a un certo machismo dei film Blaxploitation…
La situazione della donna nella società e nell’ambito famigliare nell’America degli anni ’70 è un chiaro esempio di discriminazione nella discriminazione. Prima di allora le bianche americane, pur denunciando le discriminazioni razziali, non avevano fatto distinzioni tra uomini e donne nere, non prestando particolare attenzione alla specifica oppressione esercitata dai neri nei confronti delle loro donne. Le periferie statunitensi degli anni ’70 sono uno scenario in cui la donna afroamericana è l’ultima ruota del carro; la scrittrice Michele Faith Wallace nel suo libro Black Macho and the Myth of the Superwoman del 1979, criticherà il sessismo nella comunità nera stigmatizzando gli stereotipi gemelli degli uomini e donne neri, il black macho iper mascolino e ipersessualizzato e la superwoman, donna “disordinatamente forte e impassibile di fronte al razzismo bianco”. Ed è proprio sul corpo della donna di colore che, in molte delle copertine di metà anni 70, si consuma un vero e proprio scempio.
Dall’altra parte, da Joan Baez a Joni Mitchell, da Susanne Vega a Bat for Lashes, un certo tipo di songwriting si è accostato a immagini più ricercate e dirette. Osmosi musica-foto?
Questa magica fusione è in effetti una delle chance che il lavoro discografico concede all’artista, opportunità che non tutti decidono (o sono in grado di) cogliere; le artiste che hai citato sono la dimostrazione di come si possa ulteriormente impreziosire il proprio lavoro elevandolo da merce di consumo ad autentica opera d’arte.
Nei Vestiti della musica, sia il libro che lo spettacolo, ti sei soffermato anche su copertine censurate: qual è il confine tra una copertina al femminile scomoda perché scandalosa e oscena, e una copertina “politicamente” scomoda?
Credo sia una questione strettamente legata al buon gusto oltre che ad un alto livello di coscienza per quanto riguarda il proprio ruolo nella società. Un esempio? Basta mettere a confronto le copertine di Virgin Killer degli Scorpions e di Two Virgins di John Lennon & Yoko Ono per capire cosa siano oscenità e candore, cosa significhi essere grossolani o rivoluzionari.
Nel libro c’è un ampio spazio alle autrici di copertine, penso a Annie Leibovitz e Sheila Rock, ma anche Wanda Spinello e Gil Funccious: l’altra metà del pop è anche quella che non si vede, nascosta dietro l’obiettivo o il pennello…
L’ennesimo dono che questo lavoro mi ha fatto: lo scoprire quanta creatività al femminile stesse dietro alla musica che amiamo, alle copertine o alle fotografie che ci portiamo nel cuore. Il mondo a marcato viraggio maschile (oltre che maschilista) della musica pop/rock ha tanto celebrato i suoi idoli maschi tanto quanto ignorato l’apporto femminile alla grafica applicata alle copertine dei dischi; per me è stata una scoperta amara, vi ho letto una sorta di ulteriore “discriminazione nelle discriminazione” cui spero di aver, almeno parzialmente, tolto il velo. Spero che la lettura del mio libro invogli il lettore, l’appassionato, ad una lettura e ricerca più “paritarie” in questo meraviglioso ambito artistico.
Non copertine declinate al femminile, ma raffigurazioni dietro le quali si cela un percorso di emancipazione. Dai vestiti della musica all’altra metà del pop…
Limitarsi a un semplice “catalogo” di copertine al femminile sarebbe stata un’occasione sprecata, una forzatura rispetto allo stile e al modo con cui affronto il tema Musica. I rapporti con la società, con la storia e con l’economia sono parte integrante dell’analisi e del racconto, un modo per contestualizzare gli artisti e le opere di cui parlo; affrontare tematiche come l’emancipazione e la rappresentazione dell’immagine femminile non poteva prescindere da una simile impostazione.
Howard S. Becker sosteneva nel testo I Mondi dell’arte l’itinerario collettivo, cooperativo e condiviso di un processo artistico. Un album è anche la sua copertina, un’artista è anche la sua immagine, soprattutto se donna, musicista, consapevole. Quando nella discografia pop-rock emerge questa forte coscienza femminile?
Senza alcun dubbio negli anni ’60, grazie al cosiddetto movimento “folk rock” nel cui circuito diverse artiste dimostrano di voler giocare un ruolo diverso da quello in cui erano state sino ad allora relegate, sia dal punto di vista strettamente musicale che per quanto riguardava la gestione della propria immagine. Ma il vero punto di svolta, dal mio punto di vista, arriverà un decennio dopo grazie al Punk, fenomeno storico e artistico in grado di liberare molta della creatività femminile sino ad allora inespressa (se non addirittura repressa), oltre che di stabilire un primo significativo esempio di parità fra i generi nell’ambito musicale.
Nel suo periodo d’oro, la discografia ha accolto i principali stimoli artistici, estetici, sociopolitici, a partire dal femminismo. Sulle copertine dunque abbiamo trovato tracce e simboli di una forte presa di coscienza: militanza femminista anche da parte delle major o semplice adesione a un sentire premiato anche dalle vendite?
A me piace sottolineare che quando parliamo di dischi parliamo di un “prodotto” discografico; il fine ultimo delle major resta il profitto come ritorno di un investimento, fine raggiungibile con ogni mezzo efficace di comunicazione e promozione, copertine comprese. Di “sensibilità” femminista si può parlare solo se ci si riferisce ad esperienze di alcune etichette indipendenti, non certo alle multinazionali dell’intrattenimento. Il tuo “…semplice adesione ad un sentire premiato dalle vendite…” è quanto mai efficace: un opportunismo ben calcolato, che magari non esclude singole (sincere) sensibilità all’interno delle case discografiche stesse.
Mi ha colpito la presenza di numerose copertine di area black, nelle quali la figura femminile è particolarmente “fisica”, degno contraltare a un certo machismo dei film Blaxploitation…
La situazione della donna nella società e nell’ambito famigliare nell’America degli anni ’70 è un chiaro esempio di discriminazione nella discriminazione. Prima di allora le bianche americane, pur denunciando le discriminazioni razziali, non avevano fatto distinzioni tra uomini e donne nere, non prestando particolare attenzione alla specifica oppressione esercitata dai neri nei confronti delle loro donne. Le periferie statunitensi degli anni ’70 sono uno scenario in cui la donna afroamericana è l’ultima ruota del carro; la scrittrice Michele Faith Wallace nel suo libro Black Macho and the Myth of the Superwoman del 1979, criticherà il sessismo nella comunità nera stigmatizzando gli stereotipi gemelli degli uomini e donne neri, il black macho iper mascolino e ipersessualizzato e la superwoman, donna “disordinatamente forte e impassibile di fronte al razzismo bianco”. Ed è proprio sul corpo della donna di colore che, in molte delle copertine di metà anni 70, si consuma un vero e proprio scempio.
Dall’altra parte, da Joan Baez a Joni Mitchell, da Susanne Vega a Bat for Lashes, un certo tipo di songwriting si è accostato a immagini più ricercate e dirette. Osmosi musica-foto?
Questa magica fusione è in effetti una delle chance che il lavoro discografico concede all’artista, opportunità che non tutti decidono (o sono in grado di) cogliere; le artiste che hai citato sono la dimostrazione di come si possa ulteriormente impreziosire il proprio lavoro elevandolo da merce di consumo ad autentica opera d’arte.
Nei Vestiti della musica, sia il libro che lo spettacolo, ti sei soffermato anche su copertine censurate: qual è il confine tra una copertina al femminile scomoda perché scandalosa e oscena, e una copertina “politicamente” scomoda?
Credo sia una questione strettamente legata al buon gusto oltre che ad un alto livello di coscienza per quanto riguarda il proprio ruolo nella società. Un esempio? Basta mettere a confronto le copertine di Virgin Killer degli Scorpions e di Two Virgins di John Lennon & Yoko Ono per capire cosa siano oscenità e candore, cosa significhi essere grossolani o rivoluzionari.
Nel libro c’è un ampio spazio alle autrici di copertine, penso a Annie Leibovitz e Sheila Rock, ma anche Wanda Spinello e Gil Funccious: l’altra metà del pop è anche quella che non si vede, nascosta dietro l’obiettivo o il pennello…
L’ennesimo dono che questo lavoro mi ha fatto: lo scoprire quanta creatività al femminile stesse dietro alla musica che amiamo, alle copertine o alle fotografie che ci portiamo nel cuore. Il mondo a marcato viraggio maschile (oltre che maschilista) della musica pop/rock ha tanto celebrato i suoi idoli maschi tanto quanto ignorato l’apporto femminile alla grafica applicata alle copertine dei dischi; per me è stata una scoperta amara, vi ho letto una sorta di ulteriore “discriminazione nelle discriminazione” cui spero di aver, almeno parzialmente, tolto il velo. Spero che la lettura del mio libro invogli il lettore, l’appassionato, ad una lettura e ricerca più “paritarie” in questo meraviglioso ambito artistico.