Era il novembre 1994 quando usciva il n. 2 di Jam – Viaggio Nella Musica e quando Tom Petty pubblicava Wildflowers. Il resto è racchiuso tutto nell’intervista che Roberto Caselli fece in quel periodo alla rockstar americana da poco scomparsa e che vi riproponiamo qui di seguito.
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Le passioni dello zio Tom – di Roberto Caselli
«Ho trovato più eccitante stare sul palco con Bob Dylan, Eric Clapton, Neil Young, Roger McGuinn e George Harrison, che avere tra le braccia Kim Basinger nelle riprese del video Mary Jane’s Last Dance».
Sincero o no che fosse nel fare questa affermazione, Tom Petty si rivela personaggio onesto e cordiale, la cui integrità artistica è al di sopra di ogni sospetto.
La sua musica, poi, continua a deliziare tutti da oltre vent’anni.
Nativo di Gainsville, Florida (classe 1952), cominciò all’inizio degli anni sessanta con il gruppo dei Muocrutch, nel quale militavano già i futuri compagni di tante avventure Mike Campbell e Benmont Tench. Con questa band ottenne un discreto successo nel circuito rock locale di quegli anni e si fece apprezzare come session man alla corte di musicisti come Leon Russell e Al Kooper, ma per il vero successo dovette attendere il 1976 quando con l’album Tom Petty & The Heartbreakers stilò il manifesto di una concezione musicale alla quale rimane sostanzialmente fedele ancora oggi.
Da allora sono usciti una decina di lavori, tutti di ottimo livello, che hanno promosso Tom Petty al rango di rockstar, ruolo mai inflazionato dal biondo musicista che ha, invece, sempre preferito defilarsi dai grandi show per proseguire la strada della musica di culto. Il gruppo degli Heartbrakers lo ha sempre seguito con fedeltà nel corso di questi anni, anche se qualche inevitabile aggiustamento si è verificato quando, per esempio, il bassista Howie Epstein ha preso il posto di Ron Blair o quando Petty ha deciso, per un certo periodo di lanciarsi nella carriera solista (1988) avvalendosi comunque del supporto della band. Petty & The Heartbrakers possono inoltre vantare collaborazioni prestigiose con santoni del calibro di Dylan, uno dei grandi personaggi che stanno alla base dell’influenza di Petty (vedi Empire Burlesque, Knocked Out Loaded e il Farm Aid dell’85, il benefit a favore dei contadini del midwest), e, la parentesi con i Traveling Wilburys, supergruppo che permette a Petty di unirsi con George Harrison, Roy Orbison, Jeff Lynne e lo stesso Dylan per affrontare un repertorio un pochino più countrieggiante.
Di questi giorni è infine l’uscita dell’ultimo lavoro del chitarrista americano, Wildflowers, un album ricco di suggestioni che ci rivela un Tom Petty dolcissimo con uno spiccato amore per il suono acustico.
Nel tuo ultimo album alterni pezzi acustici a pezzi elettrici, qual è la tua vera anima? E chi suona la chitarra acustica in Don’t Fade On Me?
Non esiste una particolare preferenza per il genere acustico o per quello elettrico, entrambi i modi di suonare li sento miei, li ho interiorizzati e lascio fluire via via quello che di volta in volta mi sembra di migliore effetto.
Io credo di essere un musicista rock e quindi, perlopiù, suono elettrico, ma qualche volta mi sembra che il suono puro possa meglio esprimere quello che voglio dire. Per quel che riguarda Don’t Fade On Me le chitarre le suoniamo io e Mike Campbell.
Quando componi un pezzo usi sempre la chitarra acustica?
Molto spesso uso la chitarra, ma a volte preferisco il piano. Anche in questo caso non si tratta però di una decisione che prendo a priori, dipende dall’approccio del momento.
Il tuo album è molto dolce, fatto di suoni armonici e delicati, non ti sembra che di questi tempi di suoni duri con impatti ritmici potenti vada un po’ controcorrente?
È vero, ma io sono un musicista rock con una sensibilità ormai consolidata su determinati sound e non riesco a tradire me stesso per seguire la corrente di successo del momento. Devo dire che apprezzo anche il rock di Seattle e comunque quello con un impatto molto forte, ma non riesco a mutare per questo il mio modo di essere, quello che mi influenza non è la novità, ma ciò che mi colpisce e che poi interiorizzo.
C’è un pubblico particolare a cui ti rivolgi?
Io vorrei un pubblico che va dai quindici anni ai cinquanta, senza nessun problema di continuità. Del resto credo che i generi musicali non siano necessariamente stabiliti in base all’età. Tutti coloro che amano un certo tipo di rock possono tranquillamente ascoltarmi e comperare i miei dischi. Certo è più facile che mi seguano persone che hanno vissuto un periodo musicale particolare, quello per intenderci degli anni settanta, ma le cose sono strane e molti giovani che ascoltano i dischi dei loro padri finiscono magari per apprezzarti e poi seguirti. Guarda i Rolling Stones, sono seguiti da generazioni che potrebbero essere i loro nipoti; non ci sono regole fisse.
Quando sei sul palco a suonare e ti trovi di fronte a una moltitudine di gente, che sensazioni provi e cosa credi di trasmettere?
Quando sei in concerto e sei circondato da molta gente, il fatto non può farti che piacere. Io, dal canto mio, cerco sempre di rendere al massimo delle mie possibilità, ma poi la vera comunicazione avviene attraverso le canzoni che proponi ed è qui che devi essere onesto nella proposizione. Devi cercare di trasmettere delle cose vere, che senti veramente, solo così entri in sintonia con chi ti sta di fronte.
Che tipo di musica ascolti quando sei a casa tua?
La più varia. Mi piacciono Ciajkovskij, i Beatles, le ballate tradizionali e naturalmente il buon rock; non ho preclusioni particolari, mi piace un po’ di tutto.
Cosa ne pensi della musica country?
Beh, ecco nel country si possono anche trovare delle pessime cose, melense e prive di onestà. Se però parliamo del country rock, per esempio quello degli Eagles, allora mi piace molto. La verità è che anche per fare quella musica non è sufficiente improvvisare sulla scia di qualcuno, bisogna avere delle idee e delle capacità.
Come organizzi le tue giornate quando non sei in tour?
La musica è il mio lavoro, quindi anche quando non sono in tour penso generalmente a scrivere nuovi pezzi, a provarli e alla registrazione che porta via molto tempo perché la tecnica è sempre più sofisticata.
Hai amici nel campo musicale?
Naturalmente. Ho degli ottimi rapporti con i miei colleghi e con alcuni sono molto amico. Io vivo a Los Angeles per cui non è sempre facile superare la barriera delle distanze con quelli che vivono dall’altra parte, ma mi vedo con George Harrison, Bob Dylan e naturalmente con gli Heartbreakers, in particolare con Mike Campbell che conosco da tanto tempo.
Pensi di avere un pubblico che ti apprezza di più in Europa o in America?
Inizialmente è stata forse l’Europa a darmi maggiori soddisfazioni, ma, man mano che mi sono imposto come musicista, l’America ha risposto bene ed ora credo di essere apprezzato in entrambi i continenti.
Da un punto di vista commerciale i miei dischi ora vendono sicuramente meglio in America, cosa del resto logica sia per ragioni di lingua che per numero di persone.
Hai in programma qualche tour promozionale nei prossimi mesi?
Il tour partirà nei primi mesi del nuovo anno ed è previsto un discreto numero di date anche in Europa, per quel che riguarda l’Italia spero proprio di venirci.
Stiamo vivendo un momento sociale pieno di tensioni e brutture, se tu potessi intervenire su una di queste, cosa elimineresti?
Ce ne sono talmente tante che risulta difficile sceglierne una sola, credo comunque che abolirei la possibilità di girare così facilmente armati.
Basta un litigio e spesso la controversia si trasforma in tragedia assurda. Mi sembra incredibile incrementare così la violenza.