05/12/2020

L’ecologia rock di Matteo Ceschi

Musica e ambiente nel nuovo libro pubblicato da Vololibero
Da Pete Seeger a No Nukes, dal folk revival ai Canned Heat, il mondo della popular music, e nello specifico del rock, non è nuovo a tematiche ambientali. Matteo Ceschi aveva narrato questo storico incontro nel suo primo libro Green Rock (Cuesp, 2008) e lo riprende in questo suo nuovo lavoro Note per salvare il pianeta. Musica e ambiente (Vololibero), nel quale approfondisce settant’anni di dialogo tra musica e attivismo, tra rock e ambientalismo.
Attento osservatore della coscienza critica nella storia della musica del Novecento, Ceschi ci risponde da una Milano rigida e infreddolita. 
 
Musica e ambiente, tema indicativo di consapevolezza e militanza. Quando comincia ad affiorare una sensibilità ecologica nel pop e nel rock?
Se con pop intendiamo musica popolare, beh, allora, dobbiamo tornare parecchio indietro negli anni. La prima canzone pop(olare) a tema ambientalista che ho scovato nel corso delle mie ricerche soniche risale al 1947. Il brano La bombe atomique del franco-algerino Blond Blond può considerarsi la madre di tutte le canzoni ambientaliste nella misura in cui sfruttava le tipiche melodie nordafricane della musica chaabi per sferrare un attacco alle Nazioni Unite ree di mantenere il silenzio sul possibile uso degli ordigni atomici. L’efficacia e l’immediatezza della formula di La bombe atomique servirono certamente da modello per tutte le canzoni che di lì a poco sarebbero state registrate ed incise. Nel mondo di lingua anglofona il ruolo guida lo ebbe certamente Pete Seeger, uno dei padri della canzone a stelle & strisce, autore capace fin dai primissimi anni Sessanta di allargare la visione musicale-ambientalista affiancando all’onnipresente incubo nucleare la salute delle acque, in particolare quelle del fiume Hudson.
 
Gli anni ’60 non sono soltanto la spensieratezza della British Invasion, ma anche l’emersione dell’ala più radicale del folk revival. Per il tuo studio era inevitabile partire dal vetriolo del Greenwich Village… 
Al già citato Pete Seeger aggiungerei sicuramente Fred Neil che nel Village aveva messo radici ed era cresciuto artisticamente. Riconosciuto da molti suoi contemporanei come il “Re di MacDougal Street”, Neil con la pubblicazione di The Dolphins cominciò a maturare un crescente interesse per i mammiferi marini, una passione, questa, che lo avrebbe portato nel 1970 a fondare insieme a Ri O’Barry (ex-addestratore dei delfini della serie TV Flipper divenuto attivista per i diritti degli animali) il Dolphin Research Project, organizzazione no-profit che ancora oggi si batte per impedire la cattura e il maltrattamento di questi mammiferi marini. Caso unico nel panorama musicale, Neil abbandonò quasi definitivamente la carriera di musicista per dedicarsi ai suoi nuovi amici, i delfini.
 
Centrale come sempre la figura di Bob Dylan, soprattutto nella chiave anti militarista di Masters Of War e Hard Rain’s Gonna Fall. Il futuro Nobel come interpretava la materia?
Già, Dylan… Per lui vale un discorso a parte. Paradossalmente non è il Dylan degli anni Sessanta quello dalla sensibilità “green” più spiccata, anzi. Non c’è dubbio che a una prima veloce lettura A Hard Rain’s Gonna Fall potesse essere interpretata e assimilata come una canzone contro la guerra e dai risvolti proto-ambientalisti, tuttavia l’autore in più occasioni diede spiegazioni tutt’altro che politiche riguardo alla genesi del brano. Piuttosto è il “sorprendente” Dylan degli anni Ottanta quello che avrebbe maggiormente contribuito alla causa ambientalista. Fu infatti da un’esternazione di Dylan sul palco del Live Aid che avrebbe preso il via l’avventura dei Farm Aid, eventi che, nel giro di un paio di anni, da semplice operazione a sostegno delle famiglie dei farmers in difficoltà, si sarebbe trasformata in un vero network intorno a un’idea, quella certamente ecologica, di sviluppo sostenibile dell’agricoltura. 
 
Un altro gruppo chiave per comprendere i rapporti tra note, flora e fauna erano i Canned Heat, probabilmente mai celebrati a dovere per la loro coscienza ambientalista.
Davvero troppo poco celebrati e ricordati i Canned Heat. La formazione blues rock di Los Angeles gettò, grazie alla spiccata sensibilità umanistica e ambientalista del leader Alan Wilson, le basi di quello che oggi potremo definire senza paura di essere corretti “eco-rock”. Tra il 1969 e il 1970 i brani Poor Moon e So Sad (The World’s in a Tangle) e l’album Future Blues segnarono un’accelerazione nella scrittura delle eco-lyrics, un’accelerazione così potente e provocatoria da tagliare la band fuori dal circuito della discografia mainstream. I Canned Heat oltre a essere i primi a pagare un caro prezzo per la loro militanza verde, furono anche i primi a pensare a una grafica ad hoc per un album profondamente intriso di spirito ambientalista. Il packaging di Future Blues non lasciava dubbi: l’interno della copertina era occupato da un’immagine a colori dei Canned posizionati ai piedi di quattro sequoie giganti ad accompagnare un testo scritto da Wilson dedicato alla conservazione del patrimonio boschivo della California. 
 
Tra Green Rock e Note per salvare il pianeta c’è un altro tuo libro intitolato Un’altra musica. L’America nelle canzoni di protesta (Mimesis 2018): una sorta di trait d’union tra i due volumi, sempre all’insegna della coscienza critica.
Con il libro del 2018 mi ero volutamente staccato dalle tematiche ambientaliste per chiarirmi meglio le idee sulla canzone di protesta tout court. Un’altra musica è il libro a cui sono e rimarrò più legato perché celebra il ricordo di un’amicizia forte, intensa e stimolante con il professore Larry Portis e con il romanziere e bluesman Jack Goodfellow, miei due principali interlocutori sul tema della canzone di protesta, entrambi scomparsi proprio nel corso della stesura del testo.
Dopo un lungo momento di stallo, alla fine il manoscritto è stato inviato all’amico Paolo Bertella Farnetti direttore della collana “Passato prossimo” di Mimesis. Mai ritardo fu così ben accetto, mi viene da dire oggi! Un’altra musica è, infatti, “esploso” nelle librerie con la potenza di un muro di amplificatori in un contesto storico in cui bisognava rispondere ai populismi con “il suono della protesta”. Nella ricerca di una definizione di “un’altra musica” si sono rivelati molto importanti anche i contributi del protest-hero Jimmy Collier, allievo del reverendo King e di Pete Seeger, e dei rocker militanti Wayne Kramer – che, nel novembre del 2019, ho incontrato di persona a Milano – e Country Joe McDonald.
 
Parallelamente alla tua attività di saggista sei anche un apprezzato fotografo. Quanto è stata importante l’immagine per veicolare i messaggi ecologisti nel rock?
Andrei contro i miei stessi interessi di artista visuale se non celebrassi l’importanza della fotografia nella storia della protesta e della canzone di protesta, non trovi? Pensiamo a Woodstock, all’evento che ha caratterizzato un’epoca tracciando i contorni culturali di una rivoluzione del costume. Beh, è proprio grazie a un fotografo, grazie alle sue testimonianze orali e ai suoi scatti, che la galassia dell’Era dell’Acquario cominciò a prendere coscienza dei danni arrecati all’ambiente. Fu, infatti, Henry Diltz che immortalò le scene di devastazione sul campo del signor Yasgur a Bethel attirando l’attenzione su un aspetto a cui ancora in pochi all’epoca prestavano attenzione. In tempi più recenti, nella primavera 2020, il trinomio musica-ambientalismo-fotografia ha avuto un’ennesima celebrazione con l’album Gigaton dei Pearl Jam. L’opera arricchita dagli scatti del fotografo naturalista Paul Nicklen rappresenta ai miei occhi la perfetta sintesi tra arte e militanza e conferma l’integrità integrità morale e civile di Eddie Vedder e soci. 
 
Esistono delle differenze di approccio alla materia tra artisti americani ed europei oppure l’interesse per l’ambiente ha azzerato le differenze tra Nuovo e Vecchio Mondo?
Esistono differenze tra un artista e l’altro a prescindere dal continente di provenienza. Si citava all’inizio il franco-algerino Blond Blond. Potrei proseguire con la tedesca Alexandra, autrice negli anni Sessanta di lyrics assolutamente rivoluzionarie sulla vita degli alberi. Piuttosto che i giapponesi Rokumonsen di Hitoshi Komuro o i messicani Los Due Dug’s o Antônio Carlos Jonin. Volutamente non ho citato artisti di lingua inglese, sarebbero troppi da elencare. A dimostrazione di come la salvaguardia del Pianeta abbia interessato in ugual misura artisti di diversa provenienza ed estrazione. Ognuno ha letto la realtà che lo circondava alla luce della propria formazione culturale e delle proprie esperienze personali: esemplari da questo punto di vista sono stati gli appena citati Rokumonsen che con la loro Genshi bakudan no uta (letteralmente “canzone della bomba atomica”) mi hanno aperto scenari degni del migliore anime. Ve li consiglio vivamente, on-line si trova facilmente una loro performance live di fine anni Sessanta.
 
Le incertezze, gli scossoni, gli stravizi che hanno caratterizzato il panorama rock degli anni ’70 quanto hanno influito sulla coscienza ambientalista? 
Direi davvero poco, tenuto conto che proprio a partire dal 1970 con il concerto di Phil Ochs, Joni Mitchell e James Taylor a Vancouver (per la nascita di Greenpeace) il movimento ambientalista affrettò il passo e si attrezzò meglio per affrontare le sfide del presente e del futuro prossimo venturo. Non bisogna poi dimenticare che, proprio nel corso del decennio, la black music e successivamente il punk diedero un’ulteriore spinta alle tematiche ambientaliste. In particolare il punk introdusse grazie a band come i tedeschi Ton Steine Scherben e gli inglesi Crass nuove prospettive alla battaglia per la salvaguardia dell’ecosistema: i diritti degli animali, il vegetarianesimo e il veganesimo e il consumo consapevole.
 
La fine di questo complesso decennio vede tornare in auge il tema nuclearista con una rinnovata consapevolezza: è il momento di No Nukes. Quanto fu importante quell’evento?
Nel corso dei Seventies l’incubo nucleare raddoppiò, mi si conceda questa immagine. Oltre ai pericoli derivanti da un possibile utilizzo di armi atomiche da parte delle due superpotenze si aggiunsero quelli sempre più frequenti (negli Stati Uniti) legati al malfunzionamento dei reattori. Jackson Browne fu tra i musicisti il più attento a questa tematica adoperandosi per appoggiare comitati cittadini e locali che si opponevano alla costruzione di nuovi impianti. Quando si verificò l’incidente alla centrale di Three Mile Island, Pennsylvania, per Browne la scelta di fondare i MUSE, i Musicians United for Safe Energy, fu la naturale conseguenza di un prolungato impegno politico e civile. I due concerti No Nukes di New York del settembre del 1979 – il più grande raduno rock dopo Woodstock secondo il quotidiano New York Times che vide coinvolti tra gli altri Bruce Springsteen, Bonnie Raitt, Gil Scott-Heron, James Taylor, Graham Nash – rappresentarono il culmine di trent’anni di “protesta ambientalista in musica” fornendo un importante  know how per future manifestazioni. Il triplo vinile e il documentario dedicati ai concerti No Nukes ampliarono enormemente la portata del messaggio lanciato da Jackson Browne e compagni arrivando a toccare nuove fasce di ascoltatori e coinvolgendo politici come Ralph Nader.     
 
I video, i lustrini e il tubo catodico degli anni ’80 hanno allontanato i contatti tra musica e ambiente?
Il videoclip è stato ed è ancora oggi un’arma a doppio taglio ma non per questo bisogna etichettarlo come “dannoso”. Parlando più in generale di musica di protesta, non posso che approvare il saggio impiego del mezzo video fatto negli anni Ottanta dai Public Enemy. Un esempio che rientra tra quelli citati in Note per salvare il Pianeta è sicuramente 2 Minutes to Midnight degli Iron Maiden, canzone che dava voce alle recenti paure legate al riarmo (nucleare) di Stati Uniti e Unione Sovietica nel corso della prima metà degli anni Ottanta. In generale gli artisti che nel corso del decennio vollero portare avanti il discorso ambientalista poco si fecero influenzare dalle sirene del tubo catodico. Pensiamo a punk band come inglesi Conflict o gli statunitensi Dead Kenneys il messaggio venne lanciato e arrivò senza bisogno delle immagini in movimento.  
 
Musica e ambiente in Italia. Intanto c’è la testimonianza che apre il libro, quella di Ricky Gianco.
Una testimonianza importante, granitica e sempre attuale la sua. Conoscevo Ricky Gianco fin dai tempi della mia lunga collaborazione con Virgilio Savona ma solo recentemente, grazie all’amico Maurizio Canella di Rossetti Records & Books di Milano, sono riuscito a posare l’orecchio sul suo Arcimboldo (del 1978) e sul brano Il fiume Po. Ho apprezzato ancora di più l’artista che già conoscevo e, dopo una rapida consultazione con Claudio Fucci, il mio editore, ho deciso di provare a chiedergli di scrivere l’introduzione a Note per salvare il Pianeta. Ricky ha accettato con entusiasmo rendendosi disponibile anche per future iniziative legate alle tematiche trattate nel volume. Insomma, tutto è andato per il meglio!
 
L’edilizia raccontata da Celentano nel Ragazzo della via Gluck o nell’Albero di trenta piani, la Cemento armato delle Orme, cos’altro rivela il nostro rock in materia ambientalista?
Oltre a questi nomi e a Ricky Gianco aggiungerei il già citato Virgilio Savona con Pianeta pericoloso; Franco Battiato, autore del primo concept album ecologista della storia, Pollution; e Antonello Venditti con la potente Canzone per Seveso. Avvicinandoci ai nostri giorni non posso mancare di ricordare Ludovico Einaudi con Elegy for the Artic, composizione nata da una collaborazione con Greenpeace, e Piero Pelù con la recentissima Picnic all’inferno contenente il sample di un discorso di Greta Thunberg. A dimostrazione di come anche in Italia, mercato oggettivamente marginale nel business discografico, non siano mancate “note per salvare il Pianeta”.
 
Musica e ambiente oggi: cosa ti ha colpito di più dell’ambientalismo musicale contemporaneo?
L’integrità di band come i Pearl Jam. La perseveranza di Jackson Browne, capace di fare uscire due eco-songs in piena pandemia, pandemia che lo ha toccato in prima persona. La visione di Bonnie Raitt con il suo network Green Highway capace di coinvolgere di anno in anno sempre più colleghi. La freschezza dell’approccio e la voglia di battersi insieme di una giovane artista come Billie Eilish.
 
Musica e ambiente domani: quali saranno le tematiche future da affrontare e quali artisti secondo te saranno più preparati per affrontarle?
Temo di dover iniziare proprio dalla pandemia che ci affligge e strazia. Quello che succede oggi è la diretta conseguenza della scellerata e metodica azione di distruzione degli habitat naturali portata avanti ormai da noi sapiens. Lasciamo perdere le teorie del complotto e ogni forma di negazionismo… guardiamo in casa nostra… e scopriremo, ahimè, che tutti siamo corresponsabili del disastro in corso. Cosa può fare la musica? Continuare a suonare note per salvare il Pianeta e sollecitare al contempo la condivisione delle tematiche più urgenti. Da un quartiere all’altro; da una città all’altra; da una nazione all’altra; da un continente all’altro. Una missione, questa, di cui dovranno farsi carico millennials come Billie Eilish magari appoggiati da un manipolo di “vecchie volpi” del rock… Il mio pelo è ancora piuttosto lucido e folto, e le zampe reggono ancora gli sforzi…
 

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