Benché abbia scritto su Ligabue, la Nannini e ultimamente anche i Måneskin, Patrizia De Rossi è soprattutto una profonda conoscitrice delle connessioni tra il rock, la letteratura e la storia. Ha raccontato il rapporto tra Bruce Springsteen e le donne in un suo testo del 2014, con The Last Man Standing (Diarkos) torna al Boss utilizzando una visuale differente. La storia, l’eroismo quotidiano, la coscienza civile e politica di uno degli ultimi cantori del Sogno Americano. A colloquio con la giornalista.
Dopo qualche anno sei tornata a Springsteen. Dal suo rapporto con le figure femminili nel libro She’s The One a questo nuovo lavoro Diarkos. Chi è il Last Man Standing?
È lo stesso Bruce Springsteen, ultimo rappresentante di una cultura e di una tradizione americana eroica che resiste a tutto e a tutti, che significa non accettare l’involuzione della società statunitense e non piegarsi alla deumanizzazione istituzionalizzata dai Bush (padre e figlio) e perpetrata da Trump. Ma i last men standing sono anche tutti coloro che ogni giorno lottano e che non ci stanno a perdere la loro identità americana, intesa nell’accezione migliore, quella dell’inclusione, della solidarietà, della democrazia che rende tutto possibile, ovvero quella che ha fatto innamorare i sognatori di tutto il mondo.
Il primo rigo della prefazione di Gino Castaldo è eloquente: “l’ultimo eroe americano”. Ci sarebbero anche Bob Dylan, Brian Wilson, David Crosby, Jackson Browne, la stessa Patti Smith, tanto per citare americani/e importanti. Cosa ha di più, o di diverso, Bruce?
Che ci mette, e ci ha sempre messo, la faccia e il cuore, esponendosi sempre in prima persona. L’artista e l’uomo Springsteen coincidono, e questo lo rende credibile e autentico agli occhi di chi lo ama, dall’operaio siderurgico di Pittsburgh, al farmer del Wyoming, dal disoccupato del New Jersey al miliardario newyorkese che soffre di depressione.
Chi ama Springsteen riesce sempre a trovare a reason to believe, come direbbe lo stesso Bruce. Ognuno di noi – anche se vive a migliaia di chilometri da lui e ha un conto in banca diametralmente opposto – sente che può fidarsi. Springsteen non ha mai finto di essere qualcun altro o qualcos’altro, lo ha detto in maniera chiarissima nella sua autobiografia e in quella meravigliosa confessione che era il suo show a Broadway: quanti altri artisti del suo calibro lo avrebbero fatto? Chi avrebbe parlato in maniera così diretta e scarna di una famiglia profondamente segnata dalla malattia mentale di suo padre o della sua fragilità emotiva (parliamo di uno che da quarant’anni suona di fronte a decine di migliaia di persone riempiendo gli stadi di tutto il mondo) che lo ha spinto a pensare al suicidio? Chi avrebbe raccontato della propria dipendenza dagli psicofarmaci e – soprattutto – chi avrebbe dichiarato in maniera cosi netta e precisa che la sua ancora di salvezza, da trent’anni a questa parte, è sua moglie Patti?.
Bruce ha ricevuto il Kennedy Center Honor per la diffusione della cultura americana nel mondo. In questa opera indefessa che compie da mezzo secolo sia in studio che dal vivo, quali sono i valori costanti e mai rifiutati che lui propugna?
Innanzitutto quello della uguaglianza, della solidarietà e della resistenza: i personaggi di Springsteen, i protagonisti delle sue canzoni, soffrono ma non si arrendono, e questo vale soprattutto per le ‘sue’ donne.
Nelle storie che racconta parla spesso di uomini che sono stati sconfitti dalla vita ma ciononostante hanno sempre la speranza di una vita migliore, che paradossalmente può essere anche la morte. Pensa a Johhny 99 che ‘aveva dei debiti così grandi che nessun uomo onesto avrebbe potuto saldare e la banca che gli sta portando via la casa perché non riesco più a pagare il mutuo’ e che ammazza un guardiano notturno e per questo viene condannato a 99 anni di carcere; oppure a tutti quei disperati messicani che attraversano il confine e che annegano nel Rio Bravo: meglio comunque provarci, sempre, piuttosto che rassegnarsi.
Il superamento dei confini, il mito della frontiera, è uno dei pilastri su cui poggia l’intera letteratura nord-americana, e non solo quella ma anche il cinema, ad esempio. Sono confini non solo fisici ma anche psicologici e sociali che spingono questi uomini e queste donne ad andare sempre avanti, a trovare un modo per riprendersi quel sogno americano e quella felicità – la cui ricerca è sancita dalla Costituzione – troppo spesso negati agli ultimi, ovvero alle persone di cui parla Springsteen.
La realtà da una parte, il sogno americano dall’altra. Questa probabilmente in estrema sintesi la poetica springsteeniana. Pensi che la sua opera possa essere avvicinata – magari segnalando qualche album o canzone emblematica – alla grande letteratura nordamericana?
Certo, il mito della frontiera di cui abbiamo appena parlato, il cui superamento è anche un momento di crescita interiore ed esteriore: uno dei capisaldi della letteratura USA è Huckleberry Finn (Mark Twain, 1885) che racconta le avventure di un ragazzino che fugge dalla sua cittadina del Missouri – dove suo padre è noto come l’ubriacone del paese – insieme a uno schiavo nero. Prendono una barca e vanno sul fiume (The River) alla ricerca e alla scoperta di una vita migliore. Nel viaggio che li porterà in diversi stati dell’Unione i due ragazzini superano una serie di confini fisici, ma soprattutto crescono passando dall’adolescenza alla gioventù. Il libro venne bandito per i contenuti volgari (i protagonisti usavano un linguaggio troppo rozzo) e per l’uso continuo di parolacce, prima fra tutte nigger. Eppure è il primo romanzo antirazzista della letteratura USA perché ha come co-protagonista Jim che vuole fuggire dalla schiavitù, ed è in tutto e per tutto uguale a Huck.
Potrei citare Moby Dick di Herman Melville, in cui il Capitano Achab nella sua ricerca ossessiva della balena bianca vuole superare tutti i suoi limiti fino all’estremo sacrificio. Impossibile non pensare a On the Road di Kerouac quando ascoltiamo Born to Run, a Furore di Steinbeck magistralmente trasposto nell’album The Ghost of Tom Joad. Senza dimenticare che Springsteen è stato fortemente influenzato anche dalla scrittrice del Sud Flannery O’Connor che ha descritto in maniera minuziosa le storie e le ossessioni di persone comuni proprio come ha saputo fare Bruce. Chiudo citando tutta quella letteratura di guerra (e in particolare il libro di Ron Kovic Born on the 4th of July), nello specifico di quella del Vietnam, che ritroviamo non solo in Born in the USA, ma anche in una serie di canzoni che Springsteen ha scritto prima e dopo l’album del 1984.
L’11 settembre, spartiacque per la storia dell’umanità, ha offerto spunti di riflessione in musica per tanti artisti. Bruce lo ha fatto con un disco importante, The Rising. Che ruolo occupa nella sua discografia?
È un disco molto importante, molto intenso e anche molto intimista, a mio parere è uno dei suoi album migliori. Ci sono dentro 15 canzoni che non soltanto raccontano l’evento più sconvolgente e coinvolgente del nuovo secolo, il momento che chiude di fatto un’epoca e ne apre un’altra, cancellando un mondo che non esisterà più per lasciare il posto a uno profondamente diverso. Questa cesura è netta anche nella musica di Springsteen che diventa molto più intimista e molto più ‘politico’.
Dopo The Rising esce Devils and Dust (nel 2005) e poi Magic nel 2007, un album troppo spesso sottovalutato che invece rappresenta un atto d’accusa molto duro contro l’amministrazione Bush, contro la manipolazione dell’informazione istituzionalizzata da quella presidenza, contro l’uso della tortura, contro l’uso del carcere preventivo senza nessuna accusa fondata, tutte cose che sono profondamente anti-americane, come dice Springsteen, che non dovrebbero succedere in nessun paese del mondo, figuriamoci negli Stati Uniti, patria della democrazia e dei diritti civili.
Un altro disco a mio avviso molto significativo, benché controverso, è stato Western Stars, tra i grandi spazi americani e un’individualità dolorosa. Bruce ha avuto il coraggio di raccontare la depressione, argomento sicuramente complesso per una personalità mediatica come la sua. Che tipo di narrazione ha usato?
Ha usato quella che conosce meglio, quella cinematografica e popolare con cui è cresciuto, e quella che ha visto a casa sua con suo padre gravemente malato. Quando Springsteen nel 1986 pubblicò il suo primo cofanetto live ufficiale (1975-1985) presentava Independence Day raccontando di queste discussioni che faceva sempre con suo padre che ogni sera lo aspettava in piedi, in cucina a fumare e bere birra. Tutti noi abbiamo sempre pensato al normale scontro generazionale genitori-figli e invece in quelle discussioni c’era qualcosa di molto più profondo e doloroso: Douglas Springsteen era un uomo che soffriva di schizofrenia e paranoia, non proprio due disagi semplici da gestire, soprattutto negli Anni Sessanta. Lo ha detto anche Bruce che solo molti anni dopo, è riuscito a capire la malattia del padre.
Bruce e Barack in Renegades. Quanto è importante il dialogo tra questi due giganti della cultura americana?
Credo che sia fondamentale prendere il meglio della società americana e rimetterlo al centro di tutta la discussione. Gli Stati Uniti sono un paese, un mondo, una realtà, troppo importante – e non parlo solo a livello politico ma anche a livello culturale e sociale – per poter essere abbandonata a se stessa. È necessario e doveroso che i migliori riprendano il controllo e diano una nuova guida al paese. Ecco, se dovessi indicare un altro man standing, direi sicuramente Barack Obama, un altro uomo che ha una visione molto chiara e che non si è mai tirato indietro di fronte alle cose. Non è quindi un caso che le conversazioni più interessanti dell’ultimo periodo siano state proprio quelle tra lui e Bruce Springsteen: due colossi della società e della cultura made in USA.
Dopo qualche anno sei tornata a Springsteen. Dal suo rapporto con le figure femminili nel libro She’s The One a questo nuovo lavoro Diarkos. Chi è il Last Man Standing?
È lo stesso Bruce Springsteen, ultimo rappresentante di una cultura e di una tradizione americana eroica che resiste a tutto e a tutti, che significa non accettare l’involuzione della società statunitense e non piegarsi alla deumanizzazione istituzionalizzata dai Bush (padre e figlio) e perpetrata da Trump. Ma i last men standing sono anche tutti coloro che ogni giorno lottano e che non ci stanno a perdere la loro identità americana, intesa nell’accezione migliore, quella dell’inclusione, della solidarietà, della democrazia che rende tutto possibile, ovvero quella che ha fatto innamorare i sognatori di tutto il mondo.
Il primo rigo della prefazione di Gino Castaldo è eloquente: “l’ultimo eroe americano”. Ci sarebbero anche Bob Dylan, Brian Wilson, David Crosby, Jackson Browne, la stessa Patti Smith, tanto per citare americani/e importanti. Cosa ha di più, o di diverso, Bruce?
Che ci mette, e ci ha sempre messo, la faccia e il cuore, esponendosi sempre in prima persona. L’artista e l’uomo Springsteen coincidono, e questo lo rende credibile e autentico agli occhi di chi lo ama, dall’operaio siderurgico di Pittsburgh, al farmer del Wyoming, dal disoccupato del New Jersey al miliardario newyorkese che soffre di depressione.
Chi ama Springsteen riesce sempre a trovare a reason to believe, come direbbe lo stesso Bruce. Ognuno di noi – anche se vive a migliaia di chilometri da lui e ha un conto in banca diametralmente opposto – sente che può fidarsi. Springsteen non ha mai finto di essere qualcun altro o qualcos’altro, lo ha detto in maniera chiarissima nella sua autobiografia e in quella meravigliosa confessione che era il suo show a Broadway: quanti altri artisti del suo calibro lo avrebbero fatto? Chi avrebbe parlato in maniera così diretta e scarna di una famiglia profondamente segnata dalla malattia mentale di suo padre o della sua fragilità emotiva (parliamo di uno che da quarant’anni suona di fronte a decine di migliaia di persone riempiendo gli stadi di tutto il mondo) che lo ha spinto a pensare al suicidio? Chi avrebbe raccontato della propria dipendenza dagli psicofarmaci e – soprattutto – chi avrebbe dichiarato in maniera cosi netta e precisa che la sua ancora di salvezza, da trent’anni a questa parte, è sua moglie Patti?.
Bruce ha ricevuto il Kennedy Center Honor per la diffusione della cultura americana nel mondo. In questa opera indefessa che compie da mezzo secolo sia in studio che dal vivo, quali sono i valori costanti e mai rifiutati che lui propugna?
Innanzitutto quello della uguaglianza, della solidarietà e della resistenza: i personaggi di Springsteen, i protagonisti delle sue canzoni, soffrono ma non si arrendono, e questo vale soprattutto per le ‘sue’ donne.
Nelle storie che racconta parla spesso di uomini che sono stati sconfitti dalla vita ma ciononostante hanno sempre la speranza di una vita migliore, che paradossalmente può essere anche la morte. Pensa a Johhny 99 che ‘aveva dei debiti così grandi che nessun uomo onesto avrebbe potuto saldare e la banca che gli sta portando via la casa perché non riesco più a pagare il mutuo’ e che ammazza un guardiano notturno e per questo viene condannato a 99 anni di carcere; oppure a tutti quei disperati messicani che attraversano il confine e che annegano nel Rio Bravo: meglio comunque provarci, sempre, piuttosto che rassegnarsi.
Il superamento dei confini, il mito della frontiera, è uno dei pilastri su cui poggia l’intera letteratura nord-americana, e non solo quella ma anche il cinema, ad esempio. Sono confini non solo fisici ma anche psicologici e sociali che spingono questi uomini e queste donne ad andare sempre avanti, a trovare un modo per riprendersi quel sogno americano e quella felicità – la cui ricerca è sancita dalla Costituzione – troppo spesso negati agli ultimi, ovvero alle persone di cui parla Springsteen.
La realtà da una parte, il sogno americano dall’altra. Questa probabilmente in estrema sintesi la poetica springsteeniana. Pensi che la sua opera possa essere avvicinata – magari segnalando qualche album o canzone emblematica – alla grande letteratura nordamericana?
Certo, il mito della frontiera di cui abbiamo appena parlato, il cui superamento è anche un momento di crescita interiore ed esteriore: uno dei capisaldi della letteratura USA è Huckleberry Finn (Mark Twain, 1885) che racconta le avventure di un ragazzino che fugge dalla sua cittadina del Missouri – dove suo padre è noto come l’ubriacone del paese – insieme a uno schiavo nero. Prendono una barca e vanno sul fiume (The River) alla ricerca e alla scoperta di una vita migliore. Nel viaggio che li porterà in diversi stati dell’Unione i due ragazzini superano una serie di confini fisici, ma soprattutto crescono passando dall’adolescenza alla gioventù. Il libro venne bandito per i contenuti volgari (i protagonisti usavano un linguaggio troppo rozzo) e per l’uso continuo di parolacce, prima fra tutte nigger. Eppure è il primo romanzo antirazzista della letteratura USA perché ha come co-protagonista Jim che vuole fuggire dalla schiavitù, ed è in tutto e per tutto uguale a Huck.
Potrei citare Moby Dick di Herman Melville, in cui il Capitano Achab nella sua ricerca ossessiva della balena bianca vuole superare tutti i suoi limiti fino all’estremo sacrificio. Impossibile non pensare a On the Road di Kerouac quando ascoltiamo Born to Run, a Furore di Steinbeck magistralmente trasposto nell’album The Ghost of Tom Joad. Senza dimenticare che Springsteen è stato fortemente influenzato anche dalla scrittrice del Sud Flannery O’Connor che ha descritto in maniera minuziosa le storie e le ossessioni di persone comuni proprio come ha saputo fare Bruce. Chiudo citando tutta quella letteratura di guerra (e in particolare il libro di Ron Kovic Born on the 4th of July), nello specifico di quella del Vietnam, che ritroviamo non solo in Born in the USA, ma anche in una serie di canzoni che Springsteen ha scritto prima e dopo l’album del 1984.
L’11 settembre, spartiacque per la storia dell’umanità, ha offerto spunti di riflessione in musica per tanti artisti. Bruce lo ha fatto con un disco importante, The Rising. Che ruolo occupa nella sua discografia?
È un disco molto importante, molto intenso e anche molto intimista, a mio parere è uno dei suoi album migliori. Ci sono dentro 15 canzoni che non soltanto raccontano l’evento più sconvolgente e coinvolgente del nuovo secolo, il momento che chiude di fatto un’epoca e ne apre un’altra, cancellando un mondo che non esisterà più per lasciare il posto a uno profondamente diverso. Questa cesura è netta anche nella musica di Springsteen che diventa molto più intimista e molto più ‘politico’.
Dopo The Rising esce Devils and Dust (nel 2005) e poi Magic nel 2007, un album troppo spesso sottovalutato che invece rappresenta un atto d’accusa molto duro contro l’amministrazione Bush, contro la manipolazione dell’informazione istituzionalizzata da quella presidenza, contro l’uso della tortura, contro l’uso del carcere preventivo senza nessuna accusa fondata, tutte cose che sono profondamente anti-americane, come dice Springsteen, che non dovrebbero succedere in nessun paese del mondo, figuriamoci negli Stati Uniti, patria della democrazia e dei diritti civili.
Un altro disco a mio avviso molto significativo, benché controverso, è stato Western Stars, tra i grandi spazi americani e un’individualità dolorosa. Bruce ha avuto il coraggio di raccontare la depressione, argomento sicuramente complesso per una personalità mediatica come la sua. Che tipo di narrazione ha usato?
Ha usato quella che conosce meglio, quella cinematografica e popolare con cui è cresciuto, e quella che ha visto a casa sua con suo padre gravemente malato. Quando Springsteen nel 1986 pubblicò il suo primo cofanetto live ufficiale (1975-1985) presentava Independence Day raccontando di queste discussioni che faceva sempre con suo padre che ogni sera lo aspettava in piedi, in cucina a fumare e bere birra. Tutti noi abbiamo sempre pensato al normale scontro generazionale genitori-figli e invece in quelle discussioni c’era qualcosa di molto più profondo e doloroso: Douglas Springsteen era un uomo che soffriva di schizofrenia e paranoia, non proprio due disagi semplici da gestire, soprattutto negli Anni Sessanta. Lo ha detto anche Bruce che solo molti anni dopo, è riuscito a capire la malattia del padre.
Bruce e Barack in Renegades. Quanto è importante il dialogo tra questi due giganti della cultura americana?
Credo che sia fondamentale prendere il meglio della società americana e rimetterlo al centro di tutta la discussione. Gli Stati Uniti sono un paese, un mondo, una realtà, troppo importante – e non parlo solo a livello politico ma anche a livello culturale e sociale – per poter essere abbandonata a se stessa. È necessario e doveroso che i migliori riprendano il controllo e diano una nuova guida al paese. Ecco, se dovessi indicare un altro man standing, direi sicuramente Barack Obama, un altro uomo che ha una visione molto chiara e che non si è mai tirato indietro di fronte alle cose. Non è quindi un caso che le conversazioni più interessanti dell’ultimo periodo siano state proprio quelle tra lui e Bruce Springsteen: due colossi della società e della cultura made in USA.