09/01/2013

Dove siamo? Bowie è di nuovo a Berlino

Pensieri sul trasformista che oggi canta con voce fragile e si mostra senza trucchi

Berlino. Schöneberg. È un giorno di maggio, assolato ma fresco e giro per questo quartiere della città, tra viali alberati, bar zeppi di coppie omosessuali e vessilli del gay pride appese alle finestre, parchi gioco da fantascienza e avveniristiche scuole elementari dai colori accesi e linee ardite. Tutto bello. Affascinante. Ma se continuo a girare per il quartiere è per trovare un portone. Quello di una casa come tante, dove il massimo dell’attrazione oggi è un negozio di autoricambi, al 155 di Haupstrasse. Che, per inciso, nessuno sembra sapere dove si trovi. E posso capirlo. La strada è un vialone anonimo dove non mi stupirei di veder passare da un momento all’altro la 90/91, filovia che percorre la circonvallazione milanese. In quanto alla casa, bisogna fare un certo sforzo di fantasia per emozionarsi al suo cospetto. Chiudere gli occhi e pensare di essere lì di fronte tra il 1976 e il ’77, quando a dividersi l’appartamento al primo piano c’erano David Bowie e Iggy Pop. Base logistica scelta non a caso in un quartiere dal grande fermento già allora, a due passi dai molti locali notturni, dalle gallerie d’arte, ma anche da quell’orrore architettonico che è il Pallasseum, casermone che manco a Scampia, zeppo di immigrati, sorta di anticamera al quartiere di Neukoln. Bisogna saperlo prima che lì c’era la casa di Bowie nel periodo della mitica trilogia berlinese (che trilogia non è ma non divaghiamo), perché altrimenti non la si troverebbe mai. Non una targhetta, non una scritta a pennarello di qualche fan, nemmeno una gomma americana con attaccato un foglietto di carta con scritto «David was here».

Ora, sei mesi dopo, quel portone e quella casa sono parte di un evento. Il ritorno di Bowie. Dieci anni è durato il suo silenzio. Dieci anni durante i quali ha fatto il marito e il pensionato, lontano dalla musica e con giusto qualche comparsata come attore. Erano tutti pronti a festeggiare i suoi 66 anni, sdilinquendosi nelle solite domande, «ma dov’è?», «ma che fa?», «come starà?». E lui, come sempre, un passo avanti a tutti, era già pronto al ritorno: scriveva, incideva con Tony Visconti e, nell’era di internet, non faceva sapere niente nemmeno alla sua casa discografica. Un album nuovo, a marzo. Un singolo nuovo, subito. Where Are We Now?. Ci voleva Bowie stesso a ricordare quella casa, rendendola protagonista di più di un’inquadratura nel video del brano. Bowie torna incrociando passato e presente. La canzone è un omaggio a Berlino, le immagini del suo vecchio appartamento frammiste a quelle della città sono lì. Qualcuno potrà dire «che palle, ecco la vecchia star imbolsita che si aggrappa al passato glorioso». Dubbio lecito, non fosse che il David di oggi non scimmiotta quello di allora: canta, dolente e dolorosamente, con una voce che si avverte più fragile e meno corposa di un tempo, mostrandosi senza trucchi, con le rughe che ne solcano il viso, in un impatto forte dove il passare degli anni arriva a chi guarda come un pugno nello stomaco. Nel brano ci sono echi di Heathen – non proprio il più brillante dei suoi album -, ma rispetto ad allora si avverte un carico emotivo fortissimo, come si fosse accumulato in tutto questo tempo di silenzio. Emozione che rende preziosa anche la forma classica e a tratti autocitazionista, di questa ballad. David si chiede dove siamo? L’impressione è che, in ogni caso, lui lo sappia già meglio di noi.

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