03/06/2016

Not One Of Us: la vita e le opere di Peter Gabriel secondo Mario Giammetti

Il giornalista campano chiude la collana “Genesis Files” con un ricco testo sul poliedrico artista
Not One of Us. Non uno di noi. Ma a ben guardare, Peter Gabriel non è neanche uno delle altre rockstar. La provenienza borghese, l’esperienza con i Genesis interrotta prima del successo commerciale, una carriera solista fatta di grandi affermazioni e continue ricerche, una capacità di connettere mondi, culture, percorsi ed esperienze. Gabriel è una figura anomala, che Mario Giammetti racconta con cura e attenzione al dettaglio nel suo nuovo libro Peter Gabriel. Not One Of Us (Edizioni Segno), con il quale chiude la collana Genesis Files, dedicata ai singoli membri dei Genesis.
 
Con Not One Of Us chiudi un’esperienza importante, quella della collana Genesis Files. Un’esperienza che ribadisce, se ce ne fosse ancora bisogno, la peculiarità dei Genesis: una delle band più importanti della storia del rock, ma anche foriera di singoli straordinarie carriere soliste.
Sì, credo ci sia ancora bisogno di sottolineare questo aspetto che, personalmente, spingo da oltre un quarto di secolo. È risaputo che i Genesis non hanno quasi mai goduto di una buona stampa, con la parziale eccezione dei primi anni ’70, quando venivano pompati da Melody Maker, New Musical Express e Sounds in Inghilterra e da Ciao 2001 in Italia. Con l’avvento del punk, improvvisamente, divennero non solo uno dei capri espiatori prediletti dell’iconoclastia del momento, ma anche, paradossalmente, il bersaglio degli integralisti del prog, che li consideravano traditori della causa per l’indubbia semplificazione della loro musica, dimenticando che a volte restare attaccati ossessivamente a uno stile non vuol necessariamente progredire e che, talvolta, occorre invece più coraggio a cambiare radicalmente. Tutto questo per dire che i critici possono avere tutte le ragioni del mondo nel valutare male i Genesis, ma su un punto davvero non possono che arrendersi: sfido chiunque a nominare una sola band che solo si avvicini, a livello di ricchezza di personalità individuali, ai Genesis. Questo si è tradotto in ben sette carriere soliste, alcune delle quali formidabili artisticamente o commercialmente, ma sempre come minimo interessanti. È questo che ha dato senso alla collana Genesis Files e sono veramente fiero di averla portata a compimento.
 
Rileggendo la parte del testo dedicata ai Genesis, emerge una differenza notevole di Peter rispetto agli ex colleghi: stessa origine sociale, stessa provenienza collegiale, ma Gabriel aveva una marcia in più, la curiosità, la voglia di esplorare altre direzioni.
Indubbiamente Gabriel è sempre stato un curioso, uno sperimentatore, uno che non ha mai avuto paura di cimentarsi con l’ignoto. “Expect the unexpected” recitava lo slogan pubblicitario del suo primo album e in fondo ha tenuto per molti anni fede a questo dogma. Probabilmente, rispetto a Banks, Rutherford e Phillips, che provenivano da un background simile, è stato confortato da una famiglia un po’ più estrosa; il padre era un ingegnere e veniva da una stirpe di commercianti di legnami, eppure amava cimentarsi in invenzioni tra cui la prima televisione via cavo. Così quando il giovane Peter mostrò intenzioni artistiche non si ritrovò davanti a una barriera. Ricordiamoci che stiamo parlando dei primi anni ’60, prima ancora della rivoluzione culturale giovanile, quando l’autorità genitoriale era ancora sovrana. Nello stesso tempo il fatto di essere vissuto in campagna lo ha anche reso più attento a problematiche ambientali e lo ha abituato a uno stile di vita più sano, oltre che a una precoce promiscuità sessuale!
 
Se il suo primo Lp solista aveva ancora qualche legame con la band madre, dal secondo parte un’avventura straordinaria. Il rock degli anni ’80 quanto deve alle intuizioni gabrieliane?
Il suo ex compagno Steve Hackett mi ha detto un paio di anni fa che il terzo album di Peter ha avuto una grandissima influenza sugli anni ’80, dettando addirittura lo stile di produzione dell’intero decennio: una musica nuda, basata sulle percussioni, non più romantica, con i microfoni che comprimono l’ambiente per rendere enorme il suono della batteria. Steve ha aggiunto che, se gli anni ’60 sono stati quelli della chitarra e gli anni ’70 quelli delle tastiere, gli anni ’80 sono stati contraddistinti certamente dalla batteria, e in questo certamente Gabriel ha avuto un ruolo fondamentale, invertendo il processo creativo partendo dal ritmo per sviluppare la canzone e non viceversa. Il terzo e quarto album sono veramente dischi straordinari, che non esito ad inserire tra i più importanti dell’intera storia del rock. E non hanno davvero più nulla a che fare con i Genesis.
 
Ricordiamo spesso l’incontro pionieristico con la world music, ma che tipo di approfondimento e rielaborazione Peter effettuò sul materiale tradizionale?
Dal punto di vista propedeutico, il ruolo di Gabriel sullo sviluppo della world music è stato epocale. Pensa al primo WOMAD, organizzato nel lontano 1982, quando si ostinò a mettere su un festival di musica etnica che, tra l’altro, fu un disastro finanziario (per sanare il quale Peter accettò quella che resta a tutt’oggi l’ultima reunion con i Genesis), o alla fondazione dell’etichetta Real World (con la quale ha pubblicato centinaia di dischi di musicisti africani, asiatici e di ogni parte del mondo), o ancora alle tre Recording Week avvenute nei suoi studi nei pressi di Bath negli anni ’90, dove ha obbligato a suonare insieme artisti che non potevano comunicare a parole per ragioni linguistiche. Se però parliamo di world music all’interno della propria musica, allora la rielaborazione è direi totale. Gabriel si è, al limite, appropriato di alcuni ritmi, soprattutto africani, come basi sulle quali creare. Inoltre il suo approccio, così attaccato alla musica popolare, è paradossalmente tutt’altro che tradizionale: egli, infatti, ama miscelare i suoni reali con quelli sintetici. Quindi anche nelle sue colonne sonore, che sono forse i suoi lavori più etnici, il Fairlight, sintetizzatori e l’elettronica interagiscono nel più ampio dei modi con i tamburi ghanesi, i flauti nepalesi, i didgeridoo australiani e i duduk armeni.
 
Dalla tradizione al futuro: Peter ha sempre sfruttato al meglio le opportunità offerte dalla tecnologia, magari provocando gli ascoltatori rock, spesso conservatori. È stata una sfida o un necessario aggiornamento?
Lo dicevamo in apertura che Gabriel è un curioso. Quando Larry Fast gli fece vedere il Fairlight restò estasiato dalle possibilità di campionare e manipolare suoni. Una persona sempre desiderosa di guardare avanti come lui non poteva che farsi ammaliare dalla tecnologia, che ha sempre utilizzato in dosi massicce nella sua musica e, purtroppo, anche dal vivo. Dico purtroppo perché la quantità di basi pre-registrate nei suoi concerti è francamente esorbitante, al punto che durante un paio di spettacoli del Growing Up tour del 2003, quando si sono bloccati i sequencer, la band è stata addirittura fischiata perché incapace di riempire un imbarazzante vuoto sonoro.
 
Gabriel e il cinema. Un rapporto significativo, se pensiamo che la prima frattura in seno ai Genesis nacque proprio da un flirt con William Friedkin…
Da ragazzo, Peter era addirittura indeciso tra la scuola di cinematografia e la musica. Scelse la seconda non senza titubanze. Se fosse diventato un regista, probabilmente sarebbe stato altrettanto creativo, ma non abbiamo la controprova. Friedkin, che all’epoca era uno dei registi più famosi di Hollywood avendo appena diretto L’Esorcista, fu attratto dalla visionarietà della storia scritta sul retro copertina di Genesis Live e Gabriel chiese al gruppo sei mesi di pausa, ovviamente rifiutati seccamente dagli altri. E questo fu in effetti un primo segnale di una rottura ormai peraltro nell’aria per altre ragioni. A parte piccole parti (come quella in un cortometraggio del 1995, Recon, e una comparsata in New York Stories) Peter non ha ricoperto ruoli da attore, ma ha sublimato la passione per il cinema con le colonne sonore. Ne ha realizzate tre e tutte importanti: Birdy di Alan Parker, L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese e La generazione rubata di Phillip Noyce. Quest’ultima colonna sonora, che ascoltata da sola non mi entusiasma, ha invece tutt’altra efficacia se accomunata alle immagini delle tre bambine aborigene che scappano dall’istituto nel quale sono state recluse dal governo australiano per ritornare a casa.
 
Nel 1988 Peter è stato uno degli animatori del tour di Amnesty International Human Rights Now: la sua dedizione ai diritti umani però parte da prima, basta pensare al successo di Biko nel 1980.
Biko ha avuto l’indubbio merito di sensibilizzare il grande pubblico. Quanta gente, nel 1980, era realmente consapevole di quello che accadeva in Sudafrica? Little Steven ammise senza remore che era stata proprio Biko ad aprirgli gli occhi e a fargli partorire il progetto Sun City. Gabriel è diventato una specie di testimonial anti-apartheid e non a caso era venerato da Nelson Mandela, ed è stato forse un po’ anche merito suo se il grande leader sudafricano è stato infine liberato dopo 27 anni di crudele prigionia fino ad essere eletto presidente del suo Paese. Nel 1986, appena pubblicato So, Gabriel rinunciò a far promozione a quello che sarebbe stato il suo disco di maggior successo per accettare l’invito degli U2 a partecipare al Conspiracy of Hope tour. Ha supportato per moltissimi anni Amnesty ma non solo; è tra i promotori del progetto Witness, che si pone l’obiettivo di dotare di telecamere il maggior numero di persone possibile per poter documentare le violazioni dei diritti fondamentali dell’uomo ed è sempre in prima linea quando si tratta di appoggiare cause importanti.
 
Peter è stato anche molto presente nelle novità degli ultimi anni sulla musica liquida e la crisi del mercato discografico: come valuti le sue posizioni in materia di download?
Gabriel ha detto più volte, con la sua consueta arguzia, che il download non arreca danni reali a rockstar conclamate come lui, ma può essere viceversa fatale per i giovani artisti che, privati dei diritti d’autore, non potranno permettersi di fare musica a tempo pieno. Avendo compreso che non ha senso combattere contro i mulini a vento, costretto quindi ad accettare la filosofia della musica liquida, in anni recenti ha ricercato spasmodicamente il modo migliore, e meno mortificante per gli autori, di far passare la musica attraverso la rete con iniziative come OD2, We7 e The Filter. Nello stesso tempo ha però saputo monetizzare anche questo aspetto, associando a download di alta qualità pubblicazioni sempre più sofisticate e dispendiose per i poveri fan, come costosissimi cofanetti ed edizioni in vinile pesante.
 
Insieme a Roger Waters, Brian Eno, David Byrne e pochi altri, Gabriel è considerato una delle eminenze grigie della popular music: che peso ha la sua posizione di “pensatore”?
Personalmente mi ha abbastanza sconvolto ritrovare Peter al 28° posto nella classifica delle persone più influenti del pianeta secondo la rivista americana Time per l’anno 2008. È un’attestazione dal valore inestimabile per una umile rockstar e va a tutto merito di un uomo libero che ha sempre espresso le sue opinioni anche quando non era facile, ammettendo, per esempio, di aver votato per Blair ma poi contestandolo per il supporto dell’Inghilterra alla guerra in Iraq del 2003, incontrando molti capi di stato e firmando appelli anche poco popolari. Semmai il cruccio degli appassionati di musica è che troppo spesso Peter si è fatto sedurre da certe tematiche, pur importanti, che però necessariamente lo hanno distolto dalla sua attività principale, che dovrebbe pur sempre essere quella di musicista.
 
Dal 21 giugno Sting e Peter Gabriel saranno insieme con questa nuova operazione Rock Paper Scissors. Qual è la tua opinione a riguardo? Sarà un tour solo americano?
Al momento mi risultano solo date americane, non so se vi sarà un’appendice europea, come ovviamente speriamo tutti. So che molti si sono indignati per questa iniziativa, soprattutto ritenendo che si tratti di un’ennesima distrazione che terrà lontano Gabriel dagli studi di registrazione. Siccome personalmente sono invece convinto che, se non è Sting saranno gli scimpanzé bonobo o gli indios dell’Amazzonia a distrarre in ogni caso Peter, trovo che, a questo punto, tanto vale vedere cosa sapranno fare insieme queste due star. Mi aspetto tante canzoni splendide e mi auguro solo che le scelte del repertorio non siano troppo scontate.

 
 

 

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