David Bowie trasformista. David Bowie vampiro culturale. David Bowie musicista. David Bowie teatrante. David Bowie sperimentatore. David Bowie pop star. David Bowie icona di stile. Nato come appendice dell’omonima mostra che ha portato 300 mila persone al Victoria And Albert Museum di Londra, David Bowie è (320 pagine, 40 euro) indaga l’identità dell’artista con un gran dispiego di mezzi iconografici e saggi culturali. Emerge il ritratto di un artista complesso, la cui influenza trascende la musica per proiettarsi nel più ampio campo della cultura popolare. Bowie è raccontato come paladino dell’individualismo, un performer dall’identità mobile che mischia riferimenti alti e bassi, in una continua ridefinizione della sua natura d’artista. È un Bowie figlio della cultura dell’io, questo, e persino divulgatore della fede liberale: «L’io prima del dovere, e il dovere come scelta».
Impreziosito da un apparato iconografico di prima scelta, che abbina foto d’epoca a splendide riproduzioni dei costumi di scena, il volume brulica di voci di intellettuali, studiosi e critici che s’avvicendano in un brainstorming d’alto livello. Il co-curatore del libro Geoffrey Marsh definisce Bowie «astronauta dello spazio interiore» e dà un grande peso all’incontro con Lindsay Kemp che lo introdusse «a un mondo di trucchi, di artificiosità e di ambiguità sessuale», ma soprattutto alla concezione della vita come spettacolo ininterrotto, al corpo come palcoscenico. Camille Paglia analizza il teatro dell’identità, affermando che il segno distintivo dello stile dell’inglese è il sincretismo che abbraccia vari generi di spettacolo, nell’unione di arte e identità sessuale.
Partendo dall’incontro del cantante con William Burroughs a metà anni ’70, Jon Savage rilegge il rapporto con le culture giovanili che seguirebbe uno schema: Bowie inizia come seguace, si trasforma in outsider e quando trova una “voce” distintiva ne diventa leader, plasmando la cultura giovanile a propria immagine. Qualcosa di simile succede con la musica. Howard Goodall sottolinea «l’abilità di Bowie nel catturare e rielaborare le tendenze musicali del momento». Se musicisti e compositori possono essere divisi nelle categorie di innovatori, assimilatori e custodi, lui rientra nella seconda. Non inventa nulla, né si accontenta di soddisfare tardivamente i desideri del pubblico. Però possiede una sensibilità tale da fiutare ciò che di nuovo c’è nell’aria, e il talento per rielaborarlo in modo personale e seducente.
David Bowie è sbriciola con intelligenza il mito dell’autenticità del rock. Bowie non è un profeta, né un crociato. Non ha la pretesa di essere uno di noi, non tenta di redimere il carattere commerciale della sua musica. Non cerca la complicità della massa: è “altro” dal suo pubblico. Come scriveva Peter York a metà anni ’70, artisti come David Bowie e Bryan Ferry erano «esempi di una nuova razza, i creatori dello stile dominante degli anni ’70». Erano esteti dalla sensibilità visiva esigente, «parola fatta carne». Bowie abbina questa “alterità” alla tendenza predatoria nella musica, nella moda, nello stile. In questo senso, pur essendo virtualmente sparito dalle scene, salvo poi riapparire a sorpresa con The Next Day, è un artista più contemporaneo di molti colleghi che occupano il dibattito mediatico. È un uomo che viene dal passato per raccontarci un presente in cui nulla si crea e tutto si rielabora.