Sono l’uomo delle stelle non è una classica biografia: forse è qualcosa di più che aiuta a comprendere criticamente chi era David Robert Jones, in arte David Bowie. Non è una biografia perché non è la classica storia cronologica della sua vita e delle sue opere raccontata magari in modo pedante, con ogni dovizia di particolari. Questo libro è una raccolta di interviste, scelte da Sean Egan, tra le molte effettuate dal Duca Bianco durante la sua carriera. Ne sono state selezionate alcune edite da riviste molto note, ma anche altre di pubblicazioni underground che mettono insieme domande varie e non banali che stuzzicano le risposte frizzanti di Bowie.
Si parte con la chiacchierata fatta per il New Musical Express nel 1969, nel momento in cui Bowie aveva già all’attivo due album, ma manteneva ancora un profilo piuttosto basso nonostante le stramberie che ci faceva ascoltare, e si termina con quella del 2003, fatta da Paul Du Noyer per The Word, in cui il Duca Bianco spiega la sua decisione del 1990 (poi rimangiata) di non fare più concerti dal vivo per la paura di non avere più un repertorio all’altezza di quello degli inizi. Tra questi due racconti di sé si svolgono quasi trentacinque anni di carriera durante i quali Bowie non ha mai smesso di sperimentare, trasformarsi e stupire (non sempre positivamente), nei quali ci spiega come sono nati Ziggy Stardust, Halloween Jack, The Tin White Duke e Nathan Adler, ma anche che cosa significa essere glam, come si sono sviluppate le collaborazioni con Tony Visconti e Brian Eno, il suo incontro con Springsteen e molto altro che viene snocciolato in altre ventinove interviste.
Come sempre, gli anni degli esordi sono i più intensi e affascinanti, poi si instaura una continua lotta con se stessi per non essere da meno di quello che è già stato fatto. Bowie non è sfuggito a questa regola.
Il 2003, data dell’ultima intervista riportata dal libro, era l’anno di Reality, poi sarebbero dovuti passarne altri dieci prima di vederlo ancora attivo con The Next Day. Quasi tutti avevano scommesso sul suo ritiro, pochi avevano pensato che preferisse stare in silenzio piuttosto che dire cose mediocri. Ci sono voluti dieci anni di ripensamenti prima di sciorinare The Next Day, ma poi è tornato il vecchio Bowie, quello per cui è scontato arrivare immediatamente in cima alle classifiche. Si è scoperto che per quelle canzoni, che sapevano sia di passato che di futuro, aveva lavorato in segreto per due anni insieme a Tony Visconti.
Peccato non ci sia un’intervista in cui ce ne parla lui stesso e soprattutto non ci spieghi gli oscuri presentimenti che avevano annunciato l’uscita di Blackstar, l’ultimo album, due giorni prima che lui morisse il 10 gennaio 2016.
Si parte con la chiacchierata fatta per il New Musical Express nel 1969, nel momento in cui Bowie aveva già all’attivo due album, ma manteneva ancora un profilo piuttosto basso nonostante le stramberie che ci faceva ascoltare, e si termina con quella del 2003, fatta da Paul Du Noyer per The Word, in cui il Duca Bianco spiega la sua decisione del 1990 (poi rimangiata) di non fare più concerti dal vivo per la paura di non avere più un repertorio all’altezza di quello degli inizi. Tra questi due racconti di sé si svolgono quasi trentacinque anni di carriera durante i quali Bowie non ha mai smesso di sperimentare, trasformarsi e stupire (non sempre positivamente), nei quali ci spiega come sono nati Ziggy Stardust, Halloween Jack, The Tin White Duke e Nathan Adler, ma anche che cosa significa essere glam, come si sono sviluppate le collaborazioni con Tony Visconti e Brian Eno, il suo incontro con Springsteen e molto altro che viene snocciolato in altre ventinove interviste.
Come sempre, gli anni degli esordi sono i più intensi e affascinanti, poi si instaura una continua lotta con se stessi per non essere da meno di quello che è già stato fatto. Bowie non è sfuggito a questa regola.
Il 2003, data dell’ultima intervista riportata dal libro, era l’anno di Reality, poi sarebbero dovuti passarne altri dieci prima di vederlo ancora attivo con The Next Day. Quasi tutti avevano scommesso sul suo ritiro, pochi avevano pensato che preferisse stare in silenzio piuttosto che dire cose mediocri. Ci sono voluti dieci anni di ripensamenti prima di sciorinare The Next Day, ma poi è tornato il vecchio Bowie, quello per cui è scontato arrivare immediatamente in cima alle classifiche. Si è scoperto che per quelle canzoni, che sapevano sia di passato che di futuro, aveva lavorato in segreto per due anni insieme a Tony Visconti.
Peccato non ci sia un’intervista in cui ce ne parla lui stesso e soprattutto non ci spieghi gli oscuri presentimenti che avevano annunciato l’uscita di Blackstar, l’ultimo album, due giorni prima che lui morisse il 10 gennaio 2016.