Uno e tanti. Non ci riferiamo solo all’unicità di David Bowie, ai suoi tanti mutamenti artistici, al suo genio multiforme e camaleontico. Ma anche al fatto che per un artista del genere, non basta un solo autore. Francesco Donadio in questo nuovo lavoro David Bowie. Tutti gli album (Il Castello) cura una lettura corale dell’opera bowiana mettendo insieme contributi autorevoli, provenienti principalmente dalla redazione di Classic Rock (Mario Giammetti, Eleonora Bagarotti, Renzo Stefanel, Antonio Bacciocchi etc.).
Donadio non è nuovo a analisi dedicate al Duca Bianco, lo incontriamo per una chiacchierata.
David Bowie uno, trino e plurimo. È possibile raccontare una figura così complessa soffermandosi solo sulla discografia?
Con altri artisti probabilmente ti risponderei di no, che ci vuole un’altra chiave. Ma con Bowie invece penso che sia (stato) possibile. Perché lui, tutte le sue passioni (artistiche, culturali, ecc.) del momento, le ha sempre riversate sulla sua musica, nei suoi testi e in generale nei suoi album. A volte, magari, si tratta solo di segnali che è necessario approfondire, ma basta prendere un qualsiasi album dei tanti della sua discografia per farsi un’idea della sua vita privata in quel momento, di che libri leggeva, di che filoni artistici seguiva, di che musica ascoltava eccetera.
Tutti gli album non è il tuo primo lavoro su Bowie: cosa offre di più o di diverso rispetto a quello per Arcana?
Intanto questo è un lavoro a più mani – come tu stesso hai evidenziato sopra – a cui io ho soprattutto dato una forma e una struttura coordinando poi i contributi, di concerto con Maurizio Becker, caporedattore di Classic Rock. Le opinioni sui dischi, quindi, sono variegate (anche se in genere coincidono con le mie). Io mi sono riservato di scrivere di vari dischi “di raccordo”, e anche di alcuni che per me personalmente sono stati particolarmente importanti (ad es. Stage, David Live) e/o su cui avevo delle opinioni “forti” e in qualche caso eterodosse (ad es. Tonight, Glass Spider Live).
Ma per quanto riguarda il “perché” di questo volume: immagino che un neofita, che ha iniziato a conoscere Bowie solo l’altro ieri, si possa sentire sperduto di fronte alla sterminata discografia del Duca. Ero anch’io in quelle condizioni nei primi anni 80 – all’epoca la discografia era molto meno vasta, ma va considerato che non c’era Internet – e la mia ancora di salvezza fu un librone illustrato dalla forma di Long Playing che porto ancora nel cuore: David Bowie An Illustrated Record di Roy Carr e Charles Shaar Murray, che mi spiegò tutto e fu un prezioso vademecum per le mie ricerche e per i miei acquisti. Ecco: David Bowie Tutti gli Album (che a quel volume di 40 anni fa un po’ si ispira) penso possa svolgere, più o meno, la stessa funzione. C’è tutto – tutto ciò che è reperibile oggi 2021 – inquadrato storicamente e in maniera critica, con aneddoti ecc. Il fan di lunga data, invece penso che possa essere interessato a una rivisitazione critica della sua discografia e della sua carriera, aggiornata al 2021. Nel senso che la percezione del valore di alcuni dischi è mutata nel corso del tempo. Faccio un paio di esempi: i dischi degli anni 90 all’epoca vendettero poco e furono poco considerati, ma oggi soprattutto 1.Outside del ’95 sta avendo una rivalutazione come uno degli episodi più interessanti e sperimentali della carriera del Duca. Mentre, al contrario, The Next Day nel 2013, quando uscì a sorpresa fu forse eccessivamente elogiato. In musica, come in tutte le arti, la distanza temporale (con il distacco che comporta) consente di formulare dei giudizi più corretti e completi, che non tengano conto dei risultati di vendita o delle circostanze storiche contingenti.
Il glam rock dei primi anni ’70, la svolta funk/soul di Young Americans, Berlino e la sperimentazione, e ancora la dance, l’alt-rock, poi la jungle, il post contemporaneo di Blackstar. Tanti cambiamenti nel corso degli anni, ma il filo conduttore qual è stato?
Penso che sia stata la voglia di innovare e di rinnovarsi.
A differenza della maggior parte degli artisti, che una volta trovata la formula giusta la ripetono all’infinito, Bowie ha cambiato approccio di disco in disco – anche rischiando moltissimo: non solo di essere criticato, ma anche di svanire nel nulla ed essere dimenticato – senza mai cullarsi sugli allori. Con il risultato che ha la discografia più variegata di qualsiasi altra rockstar dell’epoca “classica”. E comunque in questo modo ha lanciato un messaggio importante, di cui altri artisti successivi, ispirandosi a lui, hanno tenuto conto. Penso per esempio ai Radiohead, ma si potrebbe fare un lungo elenco.
La narrazione che Bowie ha dato di sé, della sua musica e del suo mondo, è avvenuta all’insegna del metamorfismo: le sue svolte sono arrivate prima degli altri o ha saputo interpretare meglio ciò che gli accadeva intorno?
Entrambe le opzioni sono valide, secondo me.
Per un lungo periodo – diciamo dal 1970 al 1983 – Bowie è stato decisamente “avanti” rispetto ai suoi contemporanei. Non sbagliava un colpo, ispirandosi a quanto avveniva nel campo della musica più innovativa e d’avanguardia e reinterpretando il tutto a suo modo, da grandissimo interprete e autore di canzoni. Poi, da un certo punto in poi, questa sua capacità si è un po’ affievolita, però credo che nel finale di carriera sia tornato prepotentemente a indicare nuove strade, in particolare su Blackstar, il suo ultimo grande capolavoro arrivato proprio sul finale di carriera.
Ancora sulla narrazione. Bowie ha usato spesso il modulo concept per raccontare delle storie in musica. Lo ha fatto alla pari di Who, Pink Floyd e Jethro Tull o ha espresso una personale via concettuale?
Ma prima che il modulo del concept prendesse piede nel mondo del rock, Bowie era già affascinato dal formato “musical”, almeno fin da quando andò a vedere Jacques Brel is Alive and Well and living in Paris a Londra verso la fine degli anni 60. Fu in Ziggy Stardust che per la prima volta utilizzò – anche sulla scia di Tommy e di Jesus Christ Superstar – il formato album per raccontare una storia. Da questo punto in poi, ogni suo Lp diventa un piccolo concept, se non proprio un “rock musical”, ovvero un mondo a sé stante con una propria estetica e dei propri valori, espressi in maniera – come hai detto tu – molto personale: musica, poesia, moda e letteratura sono le armi di cui Bowie si serve per parlarci in primis di sé stesso, dei suoi timori, dei suoi entusiasmi e delle sue speranze.
Per quanto riguarda il “rock musical” vero e proprio, Bowie a un certo punto abbandona l’idea, per poi riprenderla di tanto in tanto: in 1.Outside del 1995, per esempio, ma poi anche più in là, quando verso la fine degli anni 90 accarezza l’idea (poi abbandonata) di portare in scena Ziggy Stardust. È solo alla fine della sua carriera, e della sua vita, che riesce a portare a termine questo suo grande sogno, con la realizzazione di Lazarus, musical teatrale che contiene le sue più grandi canzoni all’interno di un testo in cui sono sviluppate tematiche tipicamente bowiane quali l’alienazione, il sentirsi fuori sintonia rispetto al mondo.
In qualche modo si può dire che Jacques Brel is Alive and Well and living in Paris sta a Brel come Lazarus sta a Bowie. Ed è una sorta di suo testamento artistico, non meno del suo ultimo album Blackstar.
Inevitabilmente nel tuo libro si parla anche dei live: in quale occasione Bowie ha espresso il meglio di sé sul palco?
Penso che il miglior Bowie – quello teatrale, che io prediligo – si sia visto nei suoi tour tra il 1972 e il 1987. Poi, anche per raggiunti limiti di età, ha cambiato approccio. Da un punto di vista invece prettamente vocale e musicale, i suoi tour che apprezzo di più (pur non avendoli visti, per motivi di età oltre che geografici) sono quelli del 1974 (Diamond Dogs), 1976 (Station To Station) e 1978 (Low e Heroes), documentati da tre LP essenziali quali David Live, Live Nassau Coliseum ’76 e Stage.
Però vorrei sottolineare che, a differenza di altri artisti, per i quali un live vale l’altro, ogni disco dal vivo di Bowie va assolutamente ascoltato: sono tutti diversi, non solo musicalmente (avendo egli cambiato continuamente formazione) ma soprattutto per via delle sue interpretazioni da vero “attore” quale lui amava definirsi in gioventù.
Tutti gli album gode di una bella completezza, dovuta anche ai diversi punti di vista raccolti. È stato detto tutto su Bowie o ritieni ci siano ancora delle aree inesplorate?
Penso al periodo finale della sua carriera, quei 12 anni misteriosi in cui era scomparso dalle rotte di cui ancora non sappiamo molto e a cui ho dedicato il mio libro L’arte di scomparire. Quando l’ho scritto, tre-quattro anni fa, ero pressoché certo che presto sarebbe diventato obsoleto, che sarebbero emersi un sacco di dettagli su quel periodo oscuro, ma così non è stato. Ma prima o poi penso – e spero – che qualche “gola profonda” parlerà.
Invece, seriamente: sono molto soddisfatto del volume e non cambierei nulla. Forse mi sarebbe piaciuto disporre di una dozzina di pagine in più per esaminare nel dettaglio dei film da lui interpretati e dei documentari a lui dedicati, ma non è stato possibile. Pazienza. Ma l’importante è che la parte discografica sia completa. E lo è.
Donadio non è nuovo a analisi dedicate al Duca Bianco, lo incontriamo per una chiacchierata.
David Bowie uno, trino e plurimo. È possibile raccontare una figura così complessa soffermandosi solo sulla discografia?
Con altri artisti probabilmente ti risponderei di no, che ci vuole un’altra chiave. Ma con Bowie invece penso che sia (stato) possibile. Perché lui, tutte le sue passioni (artistiche, culturali, ecc.) del momento, le ha sempre riversate sulla sua musica, nei suoi testi e in generale nei suoi album. A volte, magari, si tratta solo di segnali che è necessario approfondire, ma basta prendere un qualsiasi album dei tanti della sua discografia per farsi un’idea della sua vita privata in quel momento, di che libri leggeva, di che filoni artistici seguiva, di che musica ascoltava eccetera.
Tutti gli album non è il tuo primo lavoro su Bowie: cosa offre di più o di diverso rispetto a quello per Arcana?
Intanto questo è un lavoro a più mani – come tu stesso hai evidenziato sopra – a cui io ho soprattutto dato una forma e una struttura coordinando poi i contributi, di concerto con Maurizio Becker, caporedattore di Classic Rock. Le opinioni sui dischi, quindi, sono variegate (anche se in genere coincidono con le mie). Io mi sono riservato di scrivere di vari dischi “di raccordo”, e anche di alcuni che per me personalmente sono stati particolarmente importanti (ad es. Stage, David Live) e/o su cui avevo delle opinioni “forti” e in qualche caso eterodosse (ad es. Tonight, Glass Spider Live).
Ma per quanto riguarda il “perché” di questo volume: immagino che un neofita, che ha iniziato a conoscere Bowie solo l’altro ieri, si possa sentire sperduto di fronte alla sterminata discografia del Duca. Ero anch’io in quelle condizioni nei primi anni 80 – all’epoca la discografia era molto meno vasta, ma va considerato che non c’era Internet – e la mia ancora di salvezza fu un librone illustrato dalla forma di Long Playing che porto ancora nel cuore: David Bowie An Illustrated Record di Roy Carr e Charles Shaar Murray, che mi spiegò tutto e fu un prezioso vademecum per le mie ricerche e per i miei acquisti. Ecco: David Bowie Tutti gli Album (che a quel volume di 40 anni fa un po’ si ispira) penso possa svolgere, più o meno, la stessa funzione. C’è tutto – tutto ciò che è reperibile oggi 2021 – inquadrato storicamente e in maniera critica, con aneddoti ecc. Il fan di lunga data, invece penso che possa essere interessato a una rivisitazione critica della sua discografia e della sua carriera, aggiornata al 2021. Nel senso che la percezione del valore di alcuni dischi è mutata nel corso del tempo. Faccio un paio di esempi: i dischi degli anni 90 all’epoca vendettero poco e furono poco considerati, ma oggi soprattutto 1.Outside del ’95 sta avendo una rivalutazione come uno degli episodi più interessanti e sperimentali della carriera del Duca. Mentre, al contrario, The Next Day nel 2013, quando uscì a sorpresa fu forse eccessivamente elogiato. In musica, come in tutte le arti, la distanza temporale (con il distacco che comporta) consente di formulare dei giudizi più corretti e completi, che non tengano conto dei risultati di vendita o delle circostanze storiche contingenti.
Il glam rock dei primi anni ’70, la svolta funk/soul di Young Americans, Berlino e la sperimentazione, e ancora la dance, l’alt-rock, poi la jungle, il post contemporaneo di Blackstar. Tanti cambiamenti nel corso degli anni, ma il filo conduttore qual è stato?
Penso che sia stata la voglia di innovare e di rinnovarsi.
A differenza della maggior parte degli artisti, che una volta trovata la formula giusta la ripetono all’infinito, Bowie ha cambiato approccio di disco in disco – anche rischiando moltissimo: non solo di essere criticato, ma anche di svanire nel nulla ed essere dimenticato – senza mai cullarsi sugli allori. Con il risultato che ha la discografia più variegata di qualsiasi altra rockstar dell’epoca “classica”. E comunque in questo modo ha lanciato un messaggio importante, di cui altri artisti successivi, ispirandosi a lui, hanno tenuto conto. Penso per esempio ai Radiohead, ma si potrebbe fare un lungo elenco.
La narrazione che Bowie ha dato di sé, della sua musica e del suo mondo, è avvenuta all’insegna del metamorfismo: le sue svolte sono arrivate prima degli altri o ha saputo interpretare meglio ciò che gli accadeva intorno?
Entrambe le opzioni sono valide, secondo me.
Per un lungo periodo – diciamo dal 1970 al 1983 – Bowie è stato decisamente “avanti” rispetto ai suoi contemporanei. Non sbagliava un colpo, ispirandosi a quanto avveniva nel campo della musica più innovativa e d’avanguardia e reinterpretando il tutto a suo modo, da grandissimo interprete e autore di canzoni. Poi, da un certo punto in poi, questa sua capacità si è un po’ affievolita, però credo che nel finale di carriera sia tornato prepotentemente a indicare nuove strade, in particolare su Blackstar, il suo ultimo grande capolavoro arrivato proprio sul finale di carriera.
Ancora sulla narrazione. Bowie ha usato spesso il modulo concept per raccontare delle storie in musica. Lo ha fatto alla pari di Who, Pink Floyd e Jethro Tull o ha espresso una personale via concettuale?
Ma prima che il modulo del concept prendesse piede nel mondo del rock, Bowie era già affascinato dal formato “musical”, almeno fin da quando andò a vedere Jacques Brel is Alive and Well and living in Paris a Londra verso la fine degli anni 60. Fu in Ziggy Stardust che per la prima volta utilizzò – anche sulla scia di Tommy e di Jesus Christ Superstar – il formato album per raccontare una storia. Da questo punto in poi, ogni suo Lp diventa un piccolo concept, se non proprio un “rock musical”, ovvero un mondo a sé stante con una propria estetica e dei propri valori, espressi in maniera – come hai detto tu – molto personale: musica, poesia, moda e letteratura sono le armi di cui Bowie si serve per parlarci in primis di sé stesso, dei suoi timori, dei suoi entusiasmi e delle sue speranze.
Per quanto riguarda il “rock musical” vero e proprio, Bowie a un certo punto abbandona l’idea, per poi riprenderla di tanto in tanto: in 1.Outside del 1995, per esempio, ma poi anche più in là, quando verso la fine degli anni 90 accarezza l’idea (poi abbandonata) di portare in scena Ziggy Stardust. È solo alla fine della sua carriera, e della sua vita, che riesce a portare a termine questo suo grande sogno, con la realizzazione di Lazarus, musical teatrale che contiene le sue più grandi canzoni all’interno di un testo in cui sono sviluppate tematiche tipicamente bowiane quali l’alienazione, il sentirsi fuori sintonia rispetto al mondo.
In qualche modo si può dire che Jacques Brel is Alive and Well and living in Paris sta a Brel come Lazarus sta a Bowie. Ed è una sorta di suo testamento artistico, non meno del suo ultimo album Blackstar.
Inevitabilmente nel tuo libro si parla anche dei live: in quale occasione Bowie ha espresso il meglio di sé sul palco?
Penso che il miglior Bowie – quello teatrale, che io prediligo – si sia visto nei suoi tour tra il 1972 e il 1987. Poi, anche per raggiunti limiti di età, ha cambiato approccio. Da un punto di vista invece prettamente vocale e musicale, i suoi tour che apprezzo di più (pur non avendoli visti, per motivi di età oltre che geografici) sono quelli del 1974 (Diamond Dogs), 1976 (Station To Station) e 1978 (Low e Heroes), documentati da tre LP essenziali quali David Live, Live Nassau Coliseum ’76 e Stage.
Però vorrei sottolineare che, a differenza di altri artisti, per i quali un live vale l’altro, ogni disco dal vivo di Bowie va assolutamente ascoltato: sono tutti diversi, non solo musicalmente (avendo egli cambiato continuamente formazione) ma soprattutto per via delle sue interpretazioni da vero “attore” quale lui amava definirsi in gioventù.
Tutti gli album gode di una bella completezza, dovuta anche ai diversi punti di vista raccolti. È stato detto tutto su Bowie o ritieni ci siano ancora delle aree inesplorate?
Penso al periodo finale della sua carriera, quei 12 anni misteriosi in cui era scomparso dalle rotte di cui ancora non sappiamo molto e a cui ho dedicato il mio libro L’arte di scomparire. Quando l’ho scritto, tre-quattro anni fa, ero pressoché certo che presto sarebbe diventato obsoleto, che sarebbero emersi un sacco di dettagli su quel periodo oscuro, ma così non è stato. Ma prima o poi penso – e spero – che qualche “gola profonda” parlerà.
Invece, seriamente: sono molto soddisfatto del volume e non cambierei nulla. Forse mi sarebbe piaciuto disporre di una dozzina di pagine in più per esaminare nel dettaglio dei film da lui interpretati e dei documentari a lui dedicati, ma non è stato possibile. Pazienza. Ma l’importante è che la parte discografica sia completa. E lo è.